Fattore Umano | Catanzariti: «Ti attacchi ai piccoli riti, come scriveva Primo Levi»
L’ex manager di TIS racconta al blog la sua esperienza in carcere: l’avvocato d’ufficio, la biblioteca di Rebibbia, le crostate col “forno del carcerato” e l’amicizia con Silvio Scaglia: «Non lo avevo mai conosciuto – ricorda – ed era vietato parlarsi, ma gli altri detenuti mi dicevano: “Aho’, certo che l’amico tuo è ‘na gran brava persona”»
Dottor Catanzariti, ha voglia di raccontare il suo arresto?
La prima sensazione è stata quella di vedersi crollare il mondo addosso, improvvisamente. Le Forze dell’Ordine sono arrivate a casa mia all’alba, erano in tanti, come se invece di una persona onesta, vissuta sempre del proprio lavoro, dovessero catturare un pericoloso mafioso. Mi furono consegnati degli enormi tomi che li autorizzavano, in sostanza, a frugarmi in casa, impedirmi di sentire chiunque, compreso il difensore per cinque giorni e, soprattutto, privarmi della libertà. A quel punto ho anche appreso che perfino la telefonata ai propri congiunti, in questi casi non è un diritto ma una chance “unica”: se li trovi “al primo tentativo” bene, altrimenti, come è successo a me, in carcere non hai nemmeno una “seconda possibilità” per chiamarli: saranno loro che, con l’angoscia nel cuore e confidando nel buon senso di qualche giovane carabiniere, dovranno “ricostruire” la tua sorte.
Ma avrà avuto un avvocato?
Non avevo un avvocato. Non ho mai avuto bisogno di un penalista nella mia vita. Ricordo ancora il giorno dell’udienza di convalida: mi trovo accanto un difensore d’ufficio che, con un ben magro stralcio della corposa ordinanza di custodia cautelare e senza avermi mai potuto vedere prima, in uno strano rito “a porte chiuse” (rito camerale, apprenderò poi chiamarsi) mi deve patrocinare. Per fortuna, al termine dell’udienza, mentre in manette venivo scortato via da inflessibili agenti di custodia (qualcuno, ormai era evidente, non mi riteneva così innocuo come io avevo sempre pensato di essere!), i miei familiari da lontano sono riusciti a gridarmi il nome del legale di fiducia da nominare.
Qual è stato l’impatto con il carcere?
Le prime settimane di carcere, come nel “processo” di Kafka, le ho passate, a interrogarmi sul perché mi trovassi precipitato in una situazione del genere. Per accettare la mia condizione e sopravvivere psicologicamente ero costretto ad aggrapparmi a tutto ciò che di “tecnico” mi dicevano i compagni di detenzione; in seguito, quando ho ottenuto l’autorizzazione, mi hanno sostenuto le visite e le telefonate settimanali con i miei cari. Nel tempo, e senza capire come possa essere avvenuta la trasformazione, mi sono ritrovato ad essere io quello che dava forza e sostegno ai “nuovi arrivati” ed a chi, dopo lunghe permanenze in carcere, può comprensibilmente cedere allo sconforto. A quel punto ho compreso che sarei riuscito a resistere a questa durissima prova e che si trattava solo di una questione di tempo. Si trattava di sopravvivere…
In che modo?
La regola aurea è tenere impegnata la mente il più possibile, evitando che la profonda ingiustizia di cui si è vittima alimenti una pericolosa ossessione. Immaginavo come ricostruire la mia vita, i “progetti” da riprendere una volta “fuori”, sia come professionista sia in famiglia, e mi sono rifugiato in una delle mie passioni, la lettura di libri. Nella biblioteca del reparto di Rebibbia le mie continue richieste letterarie, suscitavano perfino la curiosità degli addetti. Poi ci si attacca ai piccoli riti quotidiani: ad esempio, la cura della propria persona, ben descritta da Primo Levi, aiuta a ricordare che sei un uomo e a far trascorrere le monotone ed interminabili giornate. Oltre a questo, mi è stata di enorme aiuto la vicinanza delle persone care e degli amici. Sono davvero grato anche ai molti che, pur non avendomi assiduamente frequentato, non mi hanno fatto mancare la loro stima e solidarietà.
Cosa ha capito del carcere?
Un giudizio generale mi riporta a quello che altri hanno già detto: la mancanza di un progetto coerente dentro le mura che favorisca il recupero e il reinserimento di coloro che sono costretti ad espiarvi una pena. Posso infatti dire che nel reparto dove sono stato rinchiuso per cinque mesi e mezzo, ho anche trovato persone magnifiche tra i detenuti: ricche di umanità, capacità di ascolto e con la forza di vivere con grande dignità l’esperienza carceraria. Detto questo, il carcere e tutto quello che intorno ad esso ruota, è sicuramente un’esperienza che ti cambia. Ti cambia nelle relazioni con il prossimo e nella considerazione che hai di te stesso.
Mai e poi mai un sorriso? Neanche mezzo?
Sì, ho il ricordo di due esperienze curiose che pur tra tante difficoltà sono riuscite a farmi sorridere. Uno dei miei compagni di cella, un vero “mago” della cucina detentiva, mi ha insegnato l’uso dell’ingegnoso “forno del carcerato”: con tre padelle appoggiate una sull’altra, sotto le quali c’erano fornelli da campeggio, riusciva a cucinare delle ottime crostate, mettendo da parte le marmellate distribuite per colazione. Nella padella di mezzo la crostata, poi sopra e sotto altre due padelle per produrre e mantenere l’aria calda. Si faceva a gara per assaggiarne una fetta!
Il secondo episodio?
Riguarda, in qualche modo, l’ingegner Scaglia. Nel periodo di permanenza dell’ingegnere presso Rebibbia, eravamo stati assegnati allo stesso reparto, il G11 sezione B. Io al primo piano e Scaglia al secondo, esattamente sopra di me. Non ci conoscevamo ed essendo stato disposto, per tutti i coimputati, il divieto di incontro, non abbiamo mai avuto la possibilità di “incrociarci” e di scambiarci un saluto. Eppure, non era infrequente che alcuni detenuti, incaricati di mansioni lavorative sui due piani (servire il pranzo, la pulizia del corridoio, la raccolta di rifiuti da riciclare, ecc.), incontrandomi e sapendo che entrambi ci trovavamo a Rebibbia per lo stesso procedimento, mi apostrofavano con battute in romanesco, del tipo: “Aho’, ho visto l’amico tuo”, “Certo che l’amico tuo è ‘na gran brava persona”, oppure “Ho ‘ncrociato l’amico tuo in sala colloqui”. Ad un certo punto ho pensato: “stai a vedere che, senza saperlo, sono diventato un amico di Silvio Scaglia!” Ancora oggi sorrido al pensiero di come avrebbe potuto, a sua volta, aver reagito l’ingegner Scaglia se, incontrando le stesse persone, si fosse sentito dire, con lo stesso romanesco, “Aho’, ho visto qua sotto l’amico tuo, Antonio Catanzariti”. Ecco, questo sì che mi ha fatto sorridere.
Ho lavorato con Antonio, e ho lo ho sempre conosciuto come una persona seria e competente.