J’ACCUSE/ Scaglia e il caso Fastweb, un esempio di malagiustizia da “studiare”?
Vi proponiamo in versione integrale questo articolo di Sergio Luciano da ilsussidiario.net
Questo nostro Paese ha un suo destino particolare, per il quale spesso le iniziative giuste vengono prese dalle persone sbagliate, e non vanno in porto a causa dell’inadeguatezza dei propri promotori. È il caso della riforma della giustizia che, fin quando sarà propugnata da un governo guidato da Silvio Berlusconi, rischia di non veder mai la luce, lasciando la magistratura italiana in una posizione di inefficiente strapotere, che si risolve in una serie di gravissimi disservizi, continui arbitrii e complessivo crollo di credibilità.
Berlusconi però, in materia, anche se la dice giusta non è credibile: non lo è persino tra alcuni dei suoi stessi grandi elettori. Peccato: perché la malagiustizia è una vera piaga nel cuore del Paese, che ha perso la certezza del diritto sia in sede civile che penale.
Uno dei temi di critica contro i magistrati che Berlusconi, personalmente, pur nel suo feroce quindicennio di polemica con la categoria non aveva ancora toccato, è quello dell’abuso della carcerazione preventiva. C’era stato più che un dibattito un tormentone di dibattito, rigorosamente sterile, tra il ‘92 e il ‘95, negli “anni d’oro” di Tangentopoli, ma nulla era cambiato nell’ordinamento.
Di fatto, i giudizi sommari che, sulla documentazione istruttoria raccolta dai pubblici ministeri per chiedere l’arresto di un imputato o il commissariamento di un’azienda, vengono espressi dal Giudice per le indagini preliminari o, successivamente, dal Tribunale del Riesame, appaiono sempre giudizi psicologicamente e anche tecnicamente subalterni a quelli già espressi dal pm, che quindi di solito si vede accogliere le proprie richieste.
Nel corso di Mani Pulite divenne chiaro a tutti e fu oggetto anche di infinita letteratura pubblicistica il criterio profondamente estorsivo che queste misure cautelari seguivano: “Io ti arresto, tu ti spaventi e collabori, ammettendo le tue colpe e, meglio ancora, chiamando qualcun altro a corredo”.
Ecco: nel caso di Silvio Scaglia, Mario Rossetti e di almeno alcuni altri fra i numerosi indagati dell’inchiesta sulle asserite evasioni dell’Iva con riciclaggio che sarebbero state commesse da Telecom Sparkle e da Fastweb, la letale discrezionalità, la totale autoreferenzialità e l’arrogante aggressività dei pm, nell’assoluta supremazia su Gip e Riesame, sono emerse in tutta la loro chiarezza.
Di fatto, un’inchiesta avviata nel 2007, con un primo giro di interrogatori che non avevano condotto assolutamente a nulla, è stata rianimata dopo tre anni. La tempistica, e la visibilità data agli arresti, ha fatto pensare a tutti che la Procura di Roma cercasse un proprio momento di gloria, di pubblicità, quasi a prescindere dalla concretezza degli addebiti.
Gravissima impressione, certo non comprovata né comprovabile, eppure fondata sul fatto che i meccanismi e le entità delle colpe commesse non sono mai stati chiari all’opinione pubblica, e che poi di fatto gli imputati eccellenti, primo fra i quali Scaglia, non hanno mai ammesso il benché minimo addebito. A dispetto del “torchio” carcerario.
Inoltre, con Scaglia i pm romani si sono trovati di fronte a un osso duro. Psicologicamente molto solido, determinato fino all’inverosimile, Scaglia non s’è spostato di un millimetro dalla linea difensiva semplice e radicale che aveva scelto fin dall’inizio: quella della completa estraneità a ogni addebito.
Finalmente, dopo 87 giorni, lo hanno rimesso in libertà, anche se con ambiti strettissimi di azione. Ma attorno al suo caso – e purtroppo già meno attorno a quello di Mario Rossetti, che di Scaglia in eBiscom-Fastweb era stato direttore finanziario senza responsabilità personali sulla parte commerciale, su cui s’è concentrata l’inchiesta – è nato finalmente un polverone. Che potrebbe sortire qualche conseguenze politica e legislativa. Già, perché perfino i mille “signori Rossi” estranei alla strana vicenda, ma ad essa incuriositi hanno constatato che:
1) I fatti addebitati a Scaglia sono antecedenti alla sua uscita da Fastweb, quindi dopo l’interrogatorio del 2007, l’imprenditore avrebbe avuto tutto il tempo (e le risorse, anche economiche) per tacitare possibili testimoni, inquinare le prove, cancellarle eccetera;
2) Quando gli è stato inviato il mandato di arresto, Scaglia – anziché restare dov’era, in un altro continente – ha preferito spontaneamente presentarsi al pm, rientrando in Italia con un volo privato dall’Oriente: che “pericolo di fuga” legittimava una simile, lineare condotta?
3) Quanto alla reiterazione del reato, Scaglia non poteva perpetrarla, nemmeno se avesse voluto, perché all’interno dell’azienda dal 2007 non contava più nulla. E nella nuova impresa che dirige, Babelgum, si poteva eventualmente instaurare controlli preventivi, senza per questo far fuori lui…
Mancando tutte e tre le condizioni per l’arresto, allora perché? E che gioco nascondeva questa mossa estrema? Pubblicità, sicuramente: perché quello di Scaglia era l’unico nome “altisonante” in un’istruttoria che per il resto, anche in Telecom, coinvolgeva soltanto delle seconde file; e poi pressioni psicologiche.
Ora, le questioni aperte sono due: la prima è quella di metodo, sull’abuso della carcerazione preventiva. Scaglia, amato magari da pochi ma noti e stimato da tanti, ha avuto attorno a sé un movimento d’opinione che ha mosso gente come Umberto Eco o Pierluigi Celli, inducendoli a scrivere la loro testimonianza di stima e la loro incredulità sugli addebiti in un blog vivacissimo lanciato on-line poche settimane dopo l’arresto; e c’è poi stata la saggia iniziativa della moglie, Monica, di scrivere una lettera aperta al presidente della Repubblica, invocandone l’intervento chiarificatore, che di fatto c’è stato.
Solo grazie a questo eccezionalissimo concorso di consenso Scaglia ha rivisto casa sua; e non a caso ha fatto sapere di voler creare, con i suoi tanti soldi, una Fondazione per aitare chi si trovasse nelle sue stesse condizioni senza avere le risorse per difendersi da solo.
C’è poi una questione di merito, ed è l’incosistenza delle accuse: ma su questo è bene far parlare i tempi, pur biblici, con cui la magistratura giudicante si pronuncerà.
Il punto nodale resta però un altro: ed è l’irresponsabilità dei magistrati, a fronte dei devastanti danni esistenziali che generano quando sbagliano. Un referendum sulla responsabilità civile dei giudici, che vent’anni fa prescrisse al legislatore di stabilire appunto l’obbligo dei magistrati di pagare i danni dei loro errori, è rimasto lettera morta.
Mentre è regola costante che, ad esempio, un medico ospedaliero che sbagli, debba pagare i danni alla sua vittima. O un autista dell’Atm che investa il pedone paghi di tasca sua e, eventualmente, rimettendoci il posto. Ma quel che è peggio, neanche la carriera dei giudici risente dei loro errori: il fatto che un pubblico ministero, che richieda il rinvio a giudizio di 100 inquisiti, veda accogliere dai Gip il 100% o il 10% delle sue richieste, non influisce sulla sua carriera; il fatto che i rinviati a giudizio vengano condannati al 100% o al 10% non influisce sulla sua carriera; insomma, che lavorino bene o male, i giudici vanno avanti lo stesso.
Nel ’93, l’allora presidente dell’Eni Gabriele Cagliari venne arrestato per tangenti. Per lui fu un gravissimo trauma. Si aggrappò con la forza della disperazione alla speranza di essere trasferito agli arresti domiciliari. Era la fine di luglio, il pm Fabio De Pasquale aveva in mano la richiesta degli avvocati di Cagliari, primo fra tutti Vittorio D’Ajello. Racconta D’Ajello che De Pasquale promise di valutare la richiesta di scarcerazione entro un determinato giorno; e che per di più – ma questa era un’interpretazione dell’avvocato – che si era mostrato favorevole ad accoglierla.
Alla vigilia della data indicata, a D’Ajello che cercò il giudice risposero in cancelleria che se n’era andato in vacanza e che sarebbe tornato a fine agosto. L’avvocato non potette che riferire la circostanza al detenuto. Il quale all’indomani si soffocò nelle docce con un sacchetto di cellophan stretto attorno alla testa. E morì. Fabio De Pasquale è ancora pubblico ministero a Milano, e ha sostenuto l’accusa nel processo a David Mills e a Silvio Berlusconi.
Da anni come presidente dell’Associazione per la Giustizia e il Diritto “Enzo Tortora” e come editore del periodico “Giustizia Giusta” mi batto contro il Partito dei Giudici che, grazie alle complicità dei politici e dei cosiddetti poteri forti nazionali e sovranazionali (vedi Operazione Tangentopoli), è riuscito impunemente a realizzare la sua via giudiziaria al potere e a divenire Governo. Giusto il 28 maggio in un duro comunicato denunciavo la rivolta “Ideale” delle Caste preoccupate per i minacciati tagli alle loro prebende. Per anni noi di Giustizia Giusta in conseguenza alla nostra puntuale denuncia del malaffare degli “intoccabili” abbiamo dovuto subire le attività di rappresaglia togate vedendo, tra l’altro, incriminare od arrestare (come nel caso dell’Avv. Lupis) alcuni tra i più validi rappresentanti del Direttivo dell’Associazione. Nel silenzio complice dei gazzettieri.
Nessun problema: noi difendiamo i diritti e le garanzie dei cittadini e, quindi, non ci è dato mollare.
Sto seguendo dall’inizio il “Caso” Scaglia anche perché tra gli imputati “non registrati” vi è l’Avv. Paolo Colosimo mio antico e nobile Amico reo di essere calabrese e quindi presunto uomo di ‘ndrine. Non mi soffermo a fare considerazioni di ordine giudiziario e procedurale perché tutto è in tal senso allucinatoriamente ben noto. Né valgono gli appunti di ordine etico vivendo noi la dimensione desacralizzata del Diritto. Detenuti in attesa di giudizio come lo fummo io, a causa della mia trasgressione politica, per dieci anni ed un altro mio Amico, Enzo Tortora, il quale, non a caso, partecipò insieme a Colosimo ed a migliaia di cittadini di ogni estrazione sociale e politica al digiuno a staffetta per la mia liberazione.
Quello che invece mi piace fare, sicuro di essere da Voi ospitato, è proporre due esempi paradigmatici che stanno ben ad indicare quale sia la condizione devastante della sedicente Giustizia.
Buona lettura.
LA PARTE DEl BOIA E’ PAGANTE
Il 18 maggio 1988 Enzo Tortora moriva devastato dal cancro. Vittima della giustizia ingiusta. Arrestato in diretta televisiva, ammanettato come un volgare malfattore sotto gli impietosi flash dei fotografi convocati per l’“occasione”, imputato come camorrista e come spacciatore di droga su mandato di una ciurmaglia di infami – tra i quali spiccavano i nomi di “o’nimale” e de “il bello” ben noti alle cronache criminali della Repubblica pentitocratica –, incarcerato per sette mesi prima di ottenere il “beneficio” degli arresti domiciliari , eletto a Strasburgo da mezzo milione di “camorristi”, venne condannato a dieci anni di reclusione da una Corte di Tribunale che accolse con orgasmo giustizialista il teorema accusatorio. Un’altra ciurmaglia – quella costituita dai cronisti giudiziari – brindò alla “vittoria”…E poi le dimissioni da parlamentare europeo e la sua costituzione ai carabinieri in Piazza Duomo. Ancora arresti domiciliari e ancora linciaggio. Sino alla sentenza di appellò che lo mandò assolto. E poi la morte a 59 anni nella sua casa di Milano.
Niente abbiamo dimenticato e niente dimenticheremo. Nemmeno i ruoli degli inquisitori “in carriera” . Luigi Sansone, il presidente del Tribunale che lo condannò, divenne presidente di sezione della Suprema Corte. Dei sostituti procuratori che avviarono le indagini, Lucio Di Pietro andò a dirigere la DNA mentre Felice Di Persia, dopo un passaggio al Palazzo dei Marescialli, si ancorò alla direzione antimafia di Napoli e ora è Presidente del Consorzio Rinascita del litorale casertano. Diego Marmo, il pm che lo definì nella requisitoria “cinico mercante di morte”, divenne procuratore capo a Santa Maria Capua Vetere.
La parte del boia, per dirla con Shakespeare, è sempre pagante.
UN CASO DI NORMALE “SORVEGLIANZA”
Messo sotto inchiesta e pedinato e spiato per aver dato nel 2006 una notizia riguardante il rapporto tra Piero Fassino e Gianni Consorte in relazione alla scalata alla BNL. La scalata che, per chi conserva una buona memoria, portò Fassino ad esultare rivolgendosi al socio in affari con una battuta, intercettata, rimasta celebre: “Allora Gianni siamo padroni di una Banca!” Il giornalista de “Il Giornale” Gianluigi Nuzzi, autore della rivelazione, venne assoggettato ad una asfissiante, incredibile sorveglianza giustificata – a dire degli inquisitori – dalla ricerca del “corvo” che aveva fatto filtrare la notizia che di certo non gettava buona luce sui comportamenti della nomenklatura diessina. “Dall’alba al tramonto – ricorda oggi Gianluigi Nuzzi – per settimane sono stato pedinato da pattuglie della Guardia di Finanza. Undici finanzieri per seguirmi e fotografare ogni passo, incontro, respiro, cose umane e banali come l’acquisto di una pizza o la consegna di un abito in tintoria”. Noleggio di auto, moto, fotocamere digitali. E ancora cellulari e schede telefoniche, per mesi. E i costi? Dalle fatture risultano migliaia e migliaia di Euro spesi: naturalmente per consentire un buon funzionamento della Giustizia. Alla grande. Alla ricerca del “datore” della notizia criminis. Ricerca nulla.
E però il gip ambrosiano Micaela Serena Curami, nonostante la richiesta di archiviazione del pm, ha deciso che Nuzzi debba essere processato anche senza che sia stato scoperto il suo informatore. Costosa e stretta sorveglianza cui si aggiunge una forzatura della norma che prevede la punizione del soggetto pubblico che rivela la notizia coperta da segreto e non anche del soggetto che la riceve.
Gentile Paolo Signorelli,
grazie per il suo impegno civile.
Ho provveduto a segnalare questo suo post nel blog di un altro civilissimo giornalista del “Giornale” – Stefano Filippi – che ha ritenuto di inserire nel suo blog un appello per l’immediata liberazione dei manager che stanno patendo un’ingiusta custodia cautelare: che sia in carcere o ai domiciliari.
Appello che dovrebbe coinvolgere tutti i benpensanti.
A proposito dell’ABUSO della carcerazione preventiva vorrei mettere in luce anche il caso dell’avvocato Paolo Colosimo,uno dei tanti indagati in questa inchiesta. Paolo Colosimo si e’presentato al cospetto dei Pubblici Ministeri,costituendosi,il 2/03/2010 nel Palazzo di Giustizia. Il 4/03/2010 ha reso l’interrogatorio di garanzia dinanzi al GIP,alla presenza dei P.M. titolari delle indagini preliminari. L’interrogatorio e’ durato quasi 4 ore e l’avvocato Colosimo ha contestato,punto per punto,tutte le accuse,fornendo fatti,elementi e circostanze comportamentali ben precise.A dispetto della sua buona condotta processuale,Paolo Colosimo e’stato tenuto per circa un mese,in isolamento,24 ore su 24,nel Carcere di Regina Coeli e poi trasferito ,in gabbia e ammanettato, presso la Casa di Reclusione di Opera ove e’ stato allocato nel Reparto di Alta Sorveglianza, dedicato a soggetti condannati o ad imputati di gravi reati di mafia. Sono trascorsi oltre 3 mesi ed i Pubblici Ministeri non lo hanno ne’interrogato ne’sottoposto a confronto con altri coimputati.
@alessandra: giusto segnalarlo, anche perché l’esercito dei vessati pare avere le fila molto più folte di quanto s’immagini. Ad un legale chiedo: ma non è possibile fare una class action (o simili) contro questi magistrati, chiedendo l’interdizione dai pubblici uffici fino a pronunciamento di terzo grado? Magari li assolvono, ma per 10 anni mediamente non fanno danni (che non è poco).
Il problema vero è che i magistrati (con la m minuscola!) sono gli unici al mondo a non pagare anche se sbagliano!
Molto interessante anche se il Sig.Scaglia non è il solo ad avere ricevuto “l’ottimo trattamento dalla giustizia italiana!”.Nell’inchiesta ci sono altre persone indagate e che purtroppo non hanno la stessa visibilità del Sig.Scaglia (anzi i loro nomi sono stati pubblicati e quindi già giudicati colpevoli da tutti) e che comunque pagano l’onnipotenza e aggressività dei Pm e Gip i quali chissà forse cercano veramente un momento di gloria e di pubblicità, visto che le indagini sono state avviate nel 2007 senza alcun esito. Sicuramente trattenere in custodia cautelare più di 50 indagati senza la possibilità di arresti domiciliari perchè vi è la possibiltà di inquinameto delle prove è un pò strano? Visto che dal 2007 ad oggi c’era tutto il tempo di inquinare le prove..sempre che ce ne fossero? Quindi ora cosa succede.attendere prego.tutte le persone che in questo momento sono grazie ai pm in alberghi a 5 stelle sono lì ad attendere cosa facciano i nostri magistrati o attendono i loro umori mattutini..e intanto le loro famiglie che sempre grazie al loro metodico lavoro (pm,gip)hanno subito la popolarita’ mediatica,cambiamenti lavorativi,economici ed emotivi.Cosa faranno il giorno in cui”QUESTA PRATICA”,perchè per loro solo questo è,e cosa si sentiranno dire? “stavamo indagando da solo qualche anno?” Morale:loro non pagano eventuali errori,chi era indagato pagherà 2 volte “cornuti e mazziati” Non sarebbe il caso di far provare anche a loro il -5 stelle?
la “colpa” sarà anche di certi magistrati, incompetenti, arroganti, superficiali, privi di scrupoli e chi più ne ha più ne metta. Ma il problema è che il sistema in sé non funziona. Ma, a prescindere dalle carenze fin troppo evidenti della macchina della giustizia (la “g” minuscola è voluta!), ci vogliamo interrogare sul ruolo della “libera stampa”? Ricordatevi le prime pagine dei giornali di tre mesi fa e vi renderete conto che molti di coloro che si affacciano alla materia giudiziaria non fanno altro che amplificare le “verità” delle Procure, incapaci di eseguire una critica tecnica su testi che pur sono loro forniti in anticipo da compiacenti manine. Ecco, una stampa libera, dopo le veline e le parate del primo giorno, sarebbe andata a leggersi il provvedimento di custodia cautelare e, con un minimo di libertà di pensiero, si sarebbe accorta dell’inconsistenza non solo delle ragioni addotte per sostenere la sussistenza delle esigenze cautelari, ma soprattutto dell’assoluta fumosità dell’impianto accusatorio a carico di Silvio Scaglia, ma anche degli stessi dipendenti di Telecom Sparkle. Ci si sarebbe accorti che il teorema con il quale si cerca di incastrare Silvio Scaglia, “non poteva non sapere”, per altri si trasforma addirittura in “benchè sia provato in atti che non sapeva, doveva comunque sapere”. Teratologia giudiziaria, per la quale uno degli antidoti sarebbe una stampa preparata e non asservita… nemmeno alle Procure!
Il caso di Scaglia e Rossetti dimostra che in Italia si fa ABUSO della carcerazione preventiva. A volte, si ha l’impressione che essa venga usata come forma di pressione sull’indagato.
Il dott.Rossetti è in carcere da 88 giorni. Non lavorava da tempo in Fastweb, quindi non poteva inquinare le prove o reiterare il reato. In più, tutta la stampa ha più volte sottolineato che non è stata trovata alcuna irregolarità sui suoi conti bancari. E allora, perchè 88 giorni di carcerazione preventiva?
Non tocca a me assolvere Rossetti, ma è compito di un GIUDICE. Ecco il punto: si vada a processo, un GIUDICE si esprima sull’innocenza o meno dell’imputato, ma si ponga fine a questa BIZZARRA carcerazione preventiva, che dura ormai da 88 giorni.
Certamente siamo di fronte a un esempio di malagiustizia, l’ultimo di una lunghissima serie.
E, dunque, da studiare insieme ad altri esempi di malagiustizia: alcuni dei quali sembrano film horror.
Ma sono realtà.
Quello che segue è un FATTO: non un’opinione.
A marzo scorso, Lino Jannuzzi ha riproposto nel “Velino” un articolo che scrisse nel 1991, al tempo dell’incendio del teatro Petruzzelli di Bari (oggi ritornato agli onori della cronaca per lo strano lievitare dei costi per la ristrutturazione, aumentati del 150% rispetto alla cifra iniziale).
Ecco l’incipit dell’articolo:
“Carlo Maria Capristo, l’attuale procuratore di Trani, la procura che intercetta le telefonate del presidente del Consiglio e del ministro dell’Interno, è famoso per l’inchiesta che condusse circa vent’anni fa, quando era sostituto a Bari, per l’incendio del teatro Petruzzelli. Convinto che il responsabile dell’incendio fosse l’ex gestore del teatro Fernando Pinto, che fu arrestato, poi scarcerato e infine scagionato e prosciolto, Capristo fece scandalo specialmente per un interrogatorio da lui condotto in un ospedale di Catania a carico di un ammalato terminale di Aids, il musicologo Pierpaolo Stefanelli, che dopo dieci giorni morì. Questo è l’articolo che scrivemmo per l’occasione: (…)”
Indico qui il link
http://www.ilvelino.it/la_memoria.php
però con una raccomandazione: legga l’articolo solo chi è sicuro di avere uno stomaco forte, ma forte!
Vi sono riportate le cosiddette “dichiarazioni” del morente, descrivendo appieno anche la “professionalità” degli inquisitori.
Tra cui un CARTOMANTE (sic), che risultò essere un informatore.
Sintetizzando i passi salienti:
1) Il testimone
“L’uomo ha la testa abbandonata sul cuscino, i capelli bianchi, la barba lunga e incolta, le guance scavate, le occhiaie profonde, le palpebre pesanti, gli occhi smarriti, la bocca semiaperta in un rantolo.”
2) Il primario dell’ospedale
“… Le condizioni attuali [del paziente/testimone - NdT] sono abbastanza gravi, il paziente è entrato in uno stato confusionale legato all’infezione che prevede un interessamento in ambito cerebrale grave definito ‘dementia compless’…”
3) Il pm Capristo (tra l’altro)
“Ma alterna momenti di lucidità… ci saranno delle fasce orarie nelle quali diventa più partecipe… quindi significa che può rispondere o quantomeno tentare di rispondere a qualche domanda (…) Ci stiamo recando nella stanza del paziente Pierpaolo Stefanelli, indagato per i reati di incendio e partecipazione ad associazione a delinquere… data l’urgenza dell’atto da compiersi (…)”.
4) Il perito che sbobinerà la registrazione dell’ “interrogatorio”:
scriverà “incomprensibile” per 34 volte. Trentaquattro.
Osserva Jannuzzi: “Quindici giorni dopo, forte del successo di questo interrogatorio, il dottor Carlo Maria Capristo ha chiesto e ottenuto l’arresto di Ferdinando Pinto, ex gestore del teatro Petruzzelli, con l’accusa di incendio doloso e colposo e di concorso esterno in associazione mafiosa. Pinto è rimasto in galera sedici giorni, finché il Tribunale della libertà ne ha ordinato la scarcerazione per manifesta mancanza di indizi. Mentre Pinto usciva dal carcere, il suo vecchio amico e collaboratore Stefanelli moriva.
5) Il cartomante al processo:
“I magistrati mi hanno portato in quell’ospedale, non per accusare dell’incendio lo Stefanelli (non ci credeva nessuno), ma per indurre il musicologo ad accusare Pinto”.
6) Il processo
Forte anche delle rivelazioni del pentito Salvatore Annacondia (ovviamente, relata refero), Capristo chiese al Tribunale di condannare Pinto a tredici anni di galera.
I tre gradi di giudizio si svolsero in 16 anni. Sedici.
7) Gli avvocati difensori di Pinto (sottolineando una serie di gravissimi comportamenti del magistrato)
“Questo non è il processo a Ferdinando Pinto, questo è il processo al pubblico ministero Capristo”.
8) Epilogo
Il 14 luglio 2005 Pinto fu assolto dall’accusa di aver ordinato l’incendio del Petruzzelli.
Il signor Capristo è attualmente Procuratore di Trani.
Ecco perché dobbiamo esigere RISPETTO da parte dei magistrati.
E pretendere che gli individui inadatti alla funzione vengano licenziati senza pietà.
Altro che carriera per anzianità!
sempre impuniti.. non pagano mai.. anzi.. e fino a quando sarà così colpevoli e innocenti avranno lo stesso motivo per preoccuparsi di certi magistrati (il che è oggettivamente tragico). A rigor di logica, poiché essere innocenti non porta alcun beneficio (nemmeno la relativa presunzione), tanto varrebbe essere colpevoli (che è la logica che sottende certi comportamenti dei magistrati: per il fatto che ti indago sei colpevole). Ergo, si potrebbe dedurre che nel comportamento di certi magistrati si potrebbe configurare il reato di istigazione a delinquere. Se usano loro la legge per i propri fini, potrò farlo io con i sillogismi?!
Nel caso suddescritto non porta alcun beneficio neppure essere MORENTI!
Nel caso di Mario Rossetti non stimola un minimo di riflessione neppure il fatto che esista una famiglia (con figli piccoli) tecnicamente lasciata alla fame.
Nel caso di Silvio Scaglia, il furore giustizialista non è attenuato neppure da condizioni di salute che richiederebbero moto.
E potrei continuare per paginate.
Ma la domanda essenziale è: cui prodest?
Talita.. la domanda l’ho già posta io il 21 maggio commentando la “riserva di decidere” del tribunale.. rivendico palesemente lo “ius primi dictus”.. va che lo dico a Morgigni.. chiedo venia ma siamo talmente alla follia che un tentativo di ironia mi pare necessario.