Archivio di maggio 2010
J’ACCUSE/ Scaglia e il caso Fastweb, un esempio di malagiustizia da “studiare”?
Vi proponiamo in versione integrale questo articolo di Sergio Luciano da ilsussidiario.net
Questo nostro Paese ha un suo destino particolare, per il quale spesso le iniziative giuste vengono prese dalle persone sbagliate, e non vanno in porto a causa dell’inadeguatezza dei propri promotori. È il caso della riforma della giustizia che, fin quando sarà propugnata da un governo guidato da Silvio Berlusconi, rischia di non veder mai la luce, lasciando la magistratura italiana in una posizione di inefficiente strapotere, che si risolve in una serie di gravissimi disservizi, continui arbitrii e complessivo crollo di credibilità.
Berlusconi però, in materia, anche se la dice giusta non è credibile: non lo è persino tra alcuni dei suoi stessi grandi elettori. Peccato: perché la malagiustizia è una vera piaga nel cuore del Paese, che ha perso la certezza del diritto sia in sede civile che penale.
Uno dei temi di critica contro i magistrati che Berlusconi, personalmente, pur nel suo feroce quindicennio di polemica con la categoria non aveva ancora toccato, è quello dell’abuso della carcerazione preventiva. C’era stato più che un dibattito un tormentone di dibattito, rigorosamente sterile, tra il ‘92 e il ‘95, negli “anni d’oro” di Tangentopoli, ma nulla era cambiato nell’ordinamento.
Di fatto, i giudizi sommari che, sulla documentazione istruttoria raccolta dai pubblici ministeri per chiedere l’arresto di un imputato o il commissariamento di un’azienda, vengono espressi dal Giudice per le indagini preliminari o, successivamente, dal Tribunale del Riesame, appaiono sempre giudizi psicologicamente e anche tecnicamente subalterni a quelli già espressi dal pm, che quindi di solito si vede accogliere le proprie richieste.
Nel corso di Mani Pulite divenne chiaro a tutti e fu oggetto anche di infinita letteratura pubblicistica il criterio profondamente estorsivo che queste misure cautelari seguivano: “Io ti arresto, tu ti spaventi e collabori, ammettendo le tue colpe e, meglio ancora, chiamando qualcun altro a corredo”.
Ecco: nel caso di Silvio Scaglia, Mario Rossetti e di almeno alcuni altri fra i numerosi indagati dell’inchiesta sulle asserite evasioni dell’Iva con riciclaggio che sarebbero state commesse da Telecom Sparkle e da Fastweb, la letale discrezionalità, la totale autoreferenzialità e l’arrogante aggressività dei pm, nell’assoluta supremazia su Gip e Riesame, sono emerse in tutta la loro chiarezza.
Di fatto, un’inchiesta avviata nel 2007, con un primo giro di interrogatori che non avevano condotto assolutamente a nulla, è stata rianimata dopo tre anni. La tempistica, e la visibilità data agli arresti, ha fatto pensare a tutti che la Procura di Roma cercasse un proprio momento di gloria, di pubblicità, quasi a prescindere dalla concretezza degli addebiti.
Gravissima impressione, certo non comprovata né comprovabile, eppure fondata sul fatto che i meccanismi e le entità delle colpe commesse non sono mai stati chiari all’opinione pubblica, e che poi di fatto gli imputati eccellenti, primo fra i quali Scaglia, non hanno mai ammesso il benché minimo addebito. A dispetto del “torchio” carcerario.
Inoltre, con Scaglia i pm romani si sono trovati di fronte a un osso duro. Psicologicamente molto solido, determinato fino all’inverosimile, Scaglia non s’è spostato di un millimetro dalla linea difensiva semplice e radicale che aveva scelto fin dall’inizio: quella della completa estraneità a ogni addebito.
Finalmente, dopo 87 giorni, lo hanno rimesso in libertà, anche se con ambiti strettissimi di azione. Ma attorno al suo caso – e purtroppo già meno attorno a quello di Mario Rossetti, che di Scaglia in eBiscom-Fastweb era stato direttore finanziario senza responsabilità personali sulla parte commerciale, su cui s’è concentrata l’inchiesta – è nato finalmente un polverone. Che potrebbe sortire qualche conseguenze politica e legislativa. Già, perché perfino i mille “signori Rossi” estranei alla strana vicenda, ma ad essa incuriositi hanno constatato che:
1) I fatti addebitati a Scaglia sono antecedenti alla sua uscita da Fastweb, quindi dopo l’interrogatorio del 2007, l’imprenditore avrebbe avuto tutto il tempo (e le risorse, anche economiche) per tacitare possibili testimoni, inquinare le prove, cancellarle eccetera;
2) Quando gli è stato inviato il mandato di arresto, Scaglia – anziché restare dov’era, in un altro continente – ha preferito spontaneamente presentarsi al pm, rientrando in Italia con un volo privato dall’Oriente: che “pericolo di fuga” legittimava una simile, lineare condotta?
3) Quanto alla reiterazione del reato, Scaglia non poteva perpetrarla, nemmeno se avesse voluto, perché all’interno dell’azienda dal 2007 non contava più nulla. E nella nuova impresa che dirige, Babelgum, si poteva eventualmente instaurare controlli preventivi, senza per questo far fuori lui…
Mancando tutte e tre le condizioni per l’arresto, allora perché? E che gioco nascondeva questa mossa estrema? Pubblicità, sicuramente: perché quello di Scaglia era l’unico nome “altisonante” in un’istruttoria che per il resto, anche in Telecom, coinvolgeva soltanto delle seconde file; e poi pressioni psicologiche.
Ora, le questioni aperte sono due: la prima è quella di metodo, sull’abuso della carcerazione preventiva. Scaglia, amato magari da pochi ma noti e stimato da tanti, ha avuto attorno a sé un movimento d’opinione che ha mosso gente come Umberto Eco o Pierluigi Celli, inducendoli a scrivere la loro testimonianza di stima e la loro incredulità sugli addebiti in un blog vivacissimo lanciato on-line poche settimane dopo l’arresto; e c’è poi stata la saggia iniziativa della moglie, Monica, di scrivere una lettera aperta al presidente della Repubblica, invocandone l’intervento chiarificatore, che di fatto c’è stato.
Solo grazie a questo eccezionalissimo concorso di consenso Scaglia ha rivisto casa sua; e non a caso ha fatto sapere di voler creare, con i suoi tanti soldi, una Fondazione per aitare chi si trovasse nelle sue stesse condizioni senza avere le risorse per difendersi da solo.
C’è poi una questione di merito, ed è l’incosistenza delle accuse: ma su questo è bene far parlare i tempi, pur biblici, con cui la magistratura giudicante si pronuncerà.
Il punto nodale resta però un altro: ed è l’irresponsabilità dei magistrati, a fronte dei devastanti danni esistenziali che generano quando sbagliano. Un referendum sulla responsabilità civile dei giudici, che vent’anni fa prescrisse al legislatore di stabilire appunto l’obbligo dei magistrati di pagare i danni dei loro errori, è rimasto lettera morta.
Mentre è regola costante che, ad esempio, un medico ospedaliero che sbagli, debba pagare i danni alla sua vittima. O un autista dell’Atm che investa il pedone paghi di tasca sua e, eventualmente, rimettendoci il posto. Ma quel che è peggio, neanche la carriera dei giudici risente dei loro errori: il fatto che un pubblico ministero, che richieda il rinvio a giudizio di 100 inquisiti, veda accogliere dai Gip il 100% o il 10% delle sue richieste, non influisce sulla sua carriera; il fatto che i rinviati a giudizio vengano condannati al 100% o al 10% non influisce sulla sua carriera; insomma, che lavorino bene o male, i giudici vanno avanti lo stesso.
Nel ’93, l’allora presidente dell’Eni Gabriele Cagliari venne arrestato per tangenti. Per lui fu un gravissimo trauma. Si aggrappò con la forza della disperazione alla speranza di essere trasferito agli arresti domiciliari. Era la fine di luglio, il pm Fabio De Pasquale aveva in mano la richiesta degli avvocati di Cagliari, primo fra tutti Vittorio D’Ajello. Racconta D’Ajello che De Pasquale promise di valutare la richiesta di scarcerazione entro un determinato giorno; e che per di più – ma questa era un’interpretazione dell’avvocato – che si era mostrato favorevole ad accoglierla.
Alla vigilia della data indicata, a D’Ajello che cercò il giudice risposero in cancelleria che se n’era andato in vacanza e che sarebbe tornato a fine agosto. L’avvocato non potette che riferire la circostanza al detenuto. Il quale all’indomani si soffocò nelle docce con un sacchetto di cellophan stretto attorno alla testa. E morì. Fabio De Pasquale è ancora pubblico ministero a Milano, e ha sostenuto l’accusa nel processo a David Mills e a Silvio Berlusconi.
REPUBBLICA: Reati, titoli e foto impunite
“Dai furbetti del quartierino a Fastweb. Senza intercettazioni reati impuniti”. Così titola “Repubblica” uno dei tanti servizi contro il disegno di legge sulla disciplina delle intercettazioni telefoniche.
In realtà, nel servizio si parla solo delle telefonate tra Gennaro Mokbel e l’ex senatore Nicola di Gerolamo. Non si fa cenno a intercettazioni, che non esistono, che riguardino direttamente od indirettamente la persona dell’ingegner Silvio Scaglia.
Potrebbe essere una superficiale, ma non per questo meno colpevole, svista del titolista, portato a confondere la “frode carosello” con il caso Fastweb. Ma, in realtà, la confusione è assai più grave: a corredo del servizio, infatti, compaiono le foto di Giampiero Fiorani e di Stefano Ricucci, quali “testimonial” dell’inchiesta sui furbetti del quartierino.
Ma chi ti sceglie “Repubblica” per illustrare i dialoghi telefonici sulla “spartizione del cucuzzaro”, per usare il gergo dello stesso Mokbel? Ma è chiaro, la foto dell’ingegner Silvio Scaglia con la seguente didascalia: “l’inchiesta su Fastweb (nella foto l’ex ad Silvio Scaglia) va in porto con l’ascolto delle telefonate”.
Dal che un ignaro lettore può legittimamente dedurre che:
1) Scaglia è stato colto con le mani nel sacco grazie alle intercettazioni;
2) Esiste un legame diretto tra le attività della mala romana e i “colletti bianchi”.
E’ grazie a questa superficialità che si possono tenere in vita, davanti all’opinione pubblica, teoremi giudiziari che non hanno avuto il sostegno di uno straccio di fondamento, nonostante le limitazioni alla libertà personale dell’ingegner Scaglia (recluso agli arresti in val d’Ayas) e di Mario Rossetti, ancora a Rebibbia dopo 88 giorni.
Cari colleghi, complimenti: è così che si costruiscono i “mostri”. Tanto, ad insultare chi è alla gogna, non si corre alcun pericolo: foto e titoli sono destinati a restare impuniti.
Rassegnarsi? Ma anche no!
“Il tribunale del riesame si riserva di decidere sull’istanza di scarcerazione presentata dai legali di Silvio Scaglia. Intanto i giorni passano”.
Così scrive Alberto Mingardi sul Riformista ricordando che “Scaglia, che subisce il divieto assoluto di comunicare con l’esterno, la libertà può solo annusarla nell’aria frizzante della val d’Ayas”. Con il passare del tempi, cresce anche il rischio che su questa storia di straordinaria ingiustizia cali la cortina del silenzio, nonostante l’emergenza sia tutt’altro che finita.
E l’articolo riaccende i riflettori su due aspetti inquietanti: la detenzione di Mario Rossetti e la fidejussione di 10 milioni richiesta a Silvio Scaglia “per lasciarlo andare in val d’Aosta”. Mingardi si occupa, in particolare, della storia di Mario Rossetti, l’ex direttore finanziario di Fastweb ancora detenuto a Rebibbia ormai da 87 giorni. Mingardi riprende le informazioni già diffuse dal nostro blog, definito “ormai rassegnato diario informatico” (urge una rettifica, non siamo per niente rassegnati) : a Rossetti è stato sequestrato tutto. Tutti i conti correnti. La sua famiglia, la moglie e tre bambini, si trova in una situazione di grande difficoltà.
“Ma la cosa più incredibile che si apprende dall’avvocato di Rossetti, Lucio Lucia, è che il suo assistito è stato sì protagonista di un interrogatorio, ma il 13 aprile scorso. Poi, basta. Più nulla”.
“Da più di un mese Rossetti è in galera a far la muffa. Non viene usato dai magistrati per comprendere meglio lo svolgimento dei fatti. Pensare che possa inquinare le prove è ridicolo, visto che non lavora in quell’azienda da quattro anni”.
Per quanto riguarda la fidejussione richiesta a Scaglia, Mingardi rileva che “sembra un dettaglio trascurabile, a parte l’entità della somma. Ma non lo è. Gli hanno chiesto, di fatto, un pedaggio. Come al Monopoli.”.
“E’ normale – si chiede Mingardi – che ben prima che cominci il processo esistano già condanne così certe da poter pretendere, nei fatti, un anticipo della pena? Che impressione danno casi di questo tipo che coinvolgono direttamente la business community agli investitori stranieri? La presunzione d’innocenza è diventata un guscio vuoto?”.
In attesa di una risposta è importante non rassegnarsi. Mai.
Lasciate ogni speranza
“Lasciate ogne speranza voi ch’intrate” (Dante, Inferno, canto III)
Stime, soltanto stime, e perlopiù approssimative. Funziona così la giustizia in Italia, fra tanti quasi e all’incirca. Prendete i processi civili pendenti in primo grado. Quanti sono? Vai a saperlo. E quelli penali? Vai a saperlo. Ci sono stime, certo, ma gli unici dati davvero attendibili (o quasi) li offre nientemeno che la European Commission for the Efficiency of Justice. Peccato che risalgano al 2006.
Ebbene la stima di allora era di 3.687.965 (sì, avete letto bene: oltre tre milioni e mezzo) processi civili in primo grado pendenti in Italia, contro i 544.751 della Francia e poco più del doppio (1.165.592) per la Germania.
E la loro durata? Una media di 507 giorni, contro i 262 della Francia. Ma non è tutto: perché se si legge la relazione sui dati forniti dal Ministero di Grazia e Giustizia si scopre che nel 2009 la stima (sempre e solo stime…) dei giorni schizza a 985 giorni. Insomma, poco meno di tre anni, solo per il primo grado.
E il penale come sta messo? Sempre secondo la European Commission nel 2006 c’erano 1. 204.151 di casi gravi pendenti in Italia, contro i 287.223, ad esempio, della Germania.
Si potrebbe supporre che tutta questa “inefficienza” nasca dalle scarse risorse destinate al settore. Ma non è così. Infatti, secondo i dati forniti dal Ministero nel 2009 si è speso l’1,45 per cento del bilancio dello Stato (pari a 7,325 miliardi di euro) fra Organizzazione giudiziaria e Amministrazione penitenziaria. Sono pochi o sono tanti?
Il confronto è meglio farlo con il cosiddetto Pil “pro capite” (ma bisogna ritornare ai dati del 2006, dopo non si sa). E in base a questo, il dato era pari allo 0,26% in Italia, allo 0,35% in Germania e allo 0,17% in Francia. In modo tale da far concludere alla European Commission che la spesa destinata alla giustizia nel nostro paese “si colloca entro la fascia dei paesi europei comparabili”.
E per concludere un dato che ha qualcosa di agghiacciante: il numero dei detenuti. Al 30 febbraio 2010 la stima del Ministero (sempre e ancora una stima) era di 66.692 persone, di cui 30.184 imputati e di essi addirittura 15.241 (quindicimiladuecentoquarantuno) in attesa di giudizio di primo grado.
Original photo by Valentina Photography
I famigliari dei manager Sparkle si rivolgono al Presidente
Anche i famigliari dei manager di Telecom Italia Sparkle in carcere a Rebibbia da 86 giorni nell’ambito dell’inchiesta sulla “frode carosello” hanno deciso di appellarsi al Capo dello Stato, imitando l’esempio della signora Monica Aschei, moglie dell’ingegner Silvio Scaglia, attualmente agli arresti domiciliari, sotto un regime estremamente restrittivo, nel comune di Ayas.
I famigliari dell’ex amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle, Stefano Mazzitelli, e dei manager Massimo Comito e Antonio Catanzariti, si rivolgono al Quirinale con una lettera pubblica in cui sottolineano di aver nutrito sempre la convinzione che “la nostra fiducia estrema nella giustizia avrebbe vinto”. I tre manager, al pari dell’ex direttore finanziario di Fastweb, Mario Rossetti, sono ancora sottoposti al regime di custodia cautelare.
“Ma ora – si legge nel documento riportato da Repubblica – Le scriviamo perché il carcere cautelativo sta diventando una vera tortura giudiziaria: Stefano Mazzitelli non è più in carica dal novembre del 2009 e fuori dall’azienda dal febbraio 2010. Massimo Comito e Antonio Catanzariti sono stati licenziati dopo gli arresti. I pm hanno carte raccolte in tre anni di lavoro investigativo. Nei loro conti sequestrati e nelle indagini raccolte per rogatoria in tutto il mondo non è risultato un solo euro che potesse essere ricondotto a truffe, tangenti o qualsiasi atto dell’inchiesta”.
Di qui, “senza voler entrare nel merito dell’inchiesta che li riguarda perché la loro innocenza dovrà essere dimostrata ai giudici competenti” i famigliari si domandano la ragione di una custodia cautelare di queste misure preventive. Una prassi che non è certo giustificata dalla lettera e dallo spirito della legge ma che getta, davanti alla comunità internazionale, un’altra ombra sull’efficienza e l’equità della macchina e della giustizia italiana.
Come si legge sul supplemento Plus de Il Sole 24 Ora “Silvio Scaglia si è fatto 82 giorni di carcere preventivo. Negli Usa chi sbaglia paga molto duramente. Dopo il processo”.
Di gatti e topi
Si può giocare al gatto e al topo con la libertà delle persone? Non si può, non si dovrebbe potere, ma “è sport amato e praticato dalla nostra cultura della giurisdizione”, scrive Guido Compagna sul Foglio. Puntuale la risposta dell’Elefantino: “Ricordo sedici anni fa un decreto firmato da un onesto ministro liberale, Biondi, e magistrati felloni che lo boicottarono, e un popolo bischero che lo sputacchiò: il suo contenuto era semplice, non puoi usare la custodia cautelare in carcere per estorcere confessioni, dal momento che la Costituzione non prevede la tortura”.
Già, la Costituzione non prevede la tortura, ma tant’è, da troppi anni la galera viene utilizzata come strumento di “ravvedimento”. Peccato che a doversi ravvedere non siamo mai i pm (o i gip che si mettono in scia). Non importa che il principio di responsabilità (banalmente: se sbagli paghi), valga per i medici che lasciano le pinze nelle pance o i poliziotti dalla pistola facile. Per la magistratura non vale. Eppure sarebbe una riforma a costo zero, mica male in tempi di cordoni stretti. E permetterebbe di dare una pagella a chi può decidere “preventivamente” sulla libertà dei cittadini.
Come ha scritto anche Sergio Luciano su “Italia Oggi”, Silvio Scaglia, è stato scarcerato (ovvero “murato vivo” ai domiciliari, si potrebbe aggiungere) perché secondo i pm “avrebbe reso dichiarazioni più dettagliate rispetto a quelle del primo interrogatorio”. Una motivazione smentita però dagli avvocati del fondatore di Fastweb “ attestati da sempre sulla linea dell’assoluta innocenza (quindi: che c’è da dettagliare)”. Forse, adombra Luciano, dalla prigione “i pm si aspettavano qualcosa di più”. Ma, come si legge anche dagli interrogatori, la difesa non si è spostata di un millimetro: Scaglia è innocente. E ai pm sono rimaste mosche in mano.
Ma torniamo alla domanda: se certe accuse si rivelano una bolla di sapone, c’è un bonus malus per chi ha preso fischi per fiaschi? No, non c’è. Giuliano Ferrara sul Foglio conclude amaro: “Il decreto fu abbandonato dal governo di cui facevo parte, miseramente, e da allora nulla è cambiato”. Tutto vero, tutto giusto, ma qualcosa è cambiato: in peggio però.
Il tribunale del riesame si “riserva di decidere”
Ancora un nulla di fatto, ancora un po’ di tempo. Il Tribunale del riesame in sede d’appello, presieduto dal giudice Giuseppe d’Arma, si è infatti “riservato di decidere” (e tuttora si è in attesa) sul ricorso all’istanza di scarcerazione presentata dagli avvocati di Silvio Scaglia, già bocciata il 18 marzo scorso.
All’udienza, tenuta mercoledì 19 maggio, erano presenti il procuratore aggiunto della Procura di Roma Giancarlo Capaldo e i due pm Francesca Passaniti e Giovanni Bombardieri. Il tribunale ha ascoltato la richiesta dei legali del fondatore di Fastweb che hanno ribadito l’insussistenza dei requisiti di legge per la carcerazione preventiva (assenza di pericolo di fuga, di inquinamento probatorio e di reiterazione del reato), mentre la Procura ha sottolineato come il gip Aldo Morgigni abbia già attenuato le misure di custodia tramite il passaggio agli arresti domiciliari.
Silvio Scaglia “murato” dentro casa
Dalla prigione alla clausura. Totale.
La libertà vigilata di Silvio Scaglia, un giorno dopo il suo arrivo nella residenza obbligata in Val di Ayas sa ben poco di libertà. L’ordinanza emessa dal gip Aldo Morgigni, infatti, prevede che l’ingegner Scaglia stia “dentro le mura”.
Ovvero, come ha spiegato alla moglie Monica il sottufficiale dei carabinieri che ieri pomeriggio ha fatto visita nella baita di montagna, Scaglia non può nemmeno affacciarsi al balcone. O, tantomeno, godere (si fa per dire) della proverbiale “ora d’aria” concessa ai detenuti. Non è una limitazione da poco per Scaglia; il suo stato di salute infatti, essendo cardiopatico, impone attività fisica quotidiana, cosa che Scaglia era riuscito in qualche maniera a fare anche in carcere. Oltre a mantenere un rapporto con l’esterno tramite gli avvocati. Cosa oggi esplicitamente proibita dalle disposizioni dei magistrati.
Per carità, meglio una prigione in casa, tra i propri libri e la musica preferita e, soprattutto, la possibilità di poter vedere i propri cari. Ma la sensazione è che la prima preoccupazione degli inquirenti sia di vietare la parola ad un imputato cui, dopo 82 giorni di carcere, continua ad essere negata libertà di muoversi e di comunicare. L’unica eccezione al regime di assoluto isolamento resta una linea telefonica a servizio ridotto che permette solo le chiamate al medico del posto.
Si deve prendere atto, insomma, che il gip ha voluto dare agli “arresti domiciliari” un’interpretazione alla lettera: l’ingegner Scaglia, dopo 82 giorni di carcere, resta agli arresti. Anzi, al punto di vista della comunicazione, è più blindato di prima. Ma probabilmente è questa la prima preoccupazione del magistrato cui evidentemente non garba che si accendano le luci su una situazione di ordinaria ingiustizia.
Monica Scaglia: Un po’ provato ma è una quercia
«Fisicamente l’ho trovato molto bene, ha perso un paio di chili, ma erano anni che li voleva perdere. Moralmente invece l’ho trovato abbastanza provato, però è una quercia, è uno difficile da scalfire».
E’ quanto ha dichiarato Monica Aschei, moglie di Silvio Scaglia, rispondendo alle domande di alcuni giornalisti davanti alla casa di Antagnod, piccola frazione di Ayas vicino a Champoluc in Val d’Aosta, dove il fondatore di Fastweb dovrà trascorrere il periodo di arresti domiciliari.
«Adesso speriamo - ha aggiunto la moglie - che passando un po’ di tempo assieme si riprenda. Abbiamo tre mesi di arretrato di chiacchiere. Lui ha voluto sapere tanto dei bambini perché non può telefonare e quindi non può parlare con loro che sono rimasti a casa a Londra».
Silvio Scaglia infatti, sulla base delle restrizioni decise dal gip, non potrà comunicare in alcun modo con l’esterno, le linee telefoniche sono state bloccate così come i collegamenti internet.
Nell’abitazione Scaglia potrà leggere “Abbiamo molti libri quassù”, ha precisato la moglie. Compreso quello che gli hanno fatto avere dal suo staff “Le poesie alla Luna”, insieme a una bottiglia di champagne italiano. Nel pomeriggio è anche arrivato un omaggio floreale.
Verso sera è intanto attesa l’udienza d’appello sulla sentenza del Tribunale del riesame che il 18 marzo scorso aveva negato la scarcerazione di Silvio Scaglia. Il tribunale si riunirà per decidere anche su altri due indagati. I legali di Scaglia hanno chiesto di allentare il provvedimento fortemente restrittivo dei “domiciliari”, in considerazione del ruolo imprenditoriale che svolge.
Nella sua casa di famiglia ad Antagnod Silvio Scaglia ha deciso che raccoglierà idee e fatti in un memoriale che potrà essere utile alla sua linea difensiva. “Questa sera – ha concluso Monica Scaglia – gli preparerò la polenta con la fontina, come mi ha chiesto».
L’avvocato di Mario Rossetti: In attesa della decisione dei magistrati
“Siamo in attesa della decisione dei magistrati sull’istanza presentata per la scarcerazione del dottor Mario Rossetti”.
L’avvocato Lucio Lucia, difensore dell’ex direttore finanziario di Fastweb, è fiducioso che presto, forse nel giro di giorni se non di ore, il suo assistito possa ottenere la libertà provvisoria ed uscire dal carcere di Rebibbia. Ma è altrettanto consapevole che questi sono momenti delicati, in cui non resta che attendere, con pazienza, il parere di pm e gip. Cosa che, del resto, sia Rossetti che la sua famiglia fanno da mesi.
In quali condizioni si trova la famiglia del suo assistito?
“A Mario Rossetti è stato sequestrato tutto, a partir dai conti correnti necessari per la sopravvivenza quotidiana. La famiglia si trova, dal momento del suo arresto, in condizioni di estrema difficoltà. Faccio presente che il dottor Rossetti ha tre figli: il più piccolo ha solo due anni”.
E’ nato dopo i fatti contestati, quindi?
“Non solo. Il dottor Rossetti, a differenza dell’ingegner Scaglia, non ha potuto dimettersi dal consiglio di Fastweb, perché ne era uscito tre anni e mezzo fa. Il suo rapporto di lavoro in qualità di direttore finanziario era cessato quattro anni fa”.
Quel rapporto di lavoro è costato, per ora, quasi tre mesi di detenzione.
“Confidiamo di essere vicini alla svolta. Questo perché il dottor Rossetti ha risposto con spirito collaborativo a tutte le domande che gli sono state poste nel suo interrogatorio del 13 aprile”.
E da allora che è successo?
“Non sono a conoscenza, ovviamente, degli sviluppi dell’attività di indagine. Ma per quanto riguarda Rossetti non gli è stato chiesto nulla di più”.
Non resta che pazientare, dunque. Consapevoli che i tempi della giustizia penale non giocano a favore delle garanzie prestate ai cittadini. Basti, al proposito, pendere atto che l’udienza della Cassazione che dovrà esaminare il ricorso sulla carcerazione di Rossetti (e probabilmente degli altri indagati) è stato fissato per il prossimo 23 giugno, quasi quattro mesi dopo l’arresto del manager.