Archivio di giugno 2010

Il caso Rossetti Lunedì al tribunale del riesame

MA I GIUDICI SONO GLI STESSI DEL PRIMO GRADO


Il caso di Mario Rossetti, ex direttore finanziario di Fastweb, da oltre cento giorni in custodia cautelare, si legge in un editoriale del “Foglio”, è per molti versi identico  a quello dell’ex ad della società, l’ingegner Silvio Scaglia. In entrambe le situazioni , “non sussiste alcuno dei requisiti che giustificano il carcere preventivo: non può reiterare, non può inquinare prove vecchie di anni, non intende fuggire”.


Certo, c’è un’importante differenza tra i due casi: Scaglia ha ottenuto gli arresti domiciliari, seppur in un regime estremamente rigoroso, Rossetti è ancora in carcere.  Ma peraltro esiste un’altra inquietante analogia da rilevare alla vigilia dell’udienza del Tribunale del Riesame che lunedì esaminerà il ricorso dei legali di Rossetti contro la custodia cautelare: il collegio, come già avvenuto per Silvio Scaglia sarà composto dagli stessi giudici del primo grado.


“Un paradosso ed un’anomalia- scrive Il Foglio -  quella di un sistema che consente agli stessi giudici che si sono già pronunciati in un’altra veste (quella del Tribunale del Riesame)   di pronunciarsi sulla stessa materia in Appello.  Lecito dubitare che intendano smentire se stessi”.  L’istituto del Tribunale del Riesame dovrebbe servire ad offrire, per giunta con un doppio grado di giudizio, al detenuto la garanzia di una valutazione di merito “autonoma” rispetto a quella di chi conduce le indagini. “Ma in questo caso – conclude Il Foglio – i margini di tale autonomia sembrano assai ridotti. Una stortura legislativa che fa riflettere”.


Gianni Riotta a silvioscaglia.it: la lunga attesa del processo e’ una pena ingiusta



Anche Umberto Eco, ricorda “Il Sole 24 Ore”,  si è chiesto a suo tempo che senso avesse tenere in prigione Silvio Scaglia. “Ora  viene da dire – continua il quotidiano della Confindustria – perché lasciare in prigione da cento giorni il suo ex sottoposto Mario Rossetti”?.  Domanda più che legittima, alla vigilia dell’attesa udienza del tribunale del Riesame, fissata per lunedì 7 giugno, e senza dimenticare che Scaglia, dopo la scarcerazione, resta agli arresti domiciliari.



Ne parliamo con il direttore del “Sole 24 Ore” Gianni Riotta che, tra l’altro, può vantare una lunga esperienza professionale negli Stati Uniti, “sistema tutt’altro che perfetto ma che in materia di rapidità e di certezza ha molto da insegnarci perché, in casi come questi, la lunga attesa del processo è una pena, ingiusta, in più”.


Direttore Riotta, che idea si è fatta di questa lunga carcerazione preventiva? Non sembra che sia stato tempo dedicato alla raccolta di eventuali prove. O no?

“Mi permetto di citare un altro caso emblematico, quello che riguarda l’amico Ottaviano  Del Turco che venne imprigionato nella primavera del 2009.  Quell’inchiesta ha determinato le dimissioni della giunta, il cambio della segreteria regionale del partito, infine il ribaltone elettorale. Ebbene, ad un anno da quegli avvenimenti Ottaviano Del Turco non è stato nemmeno rinviato a giudizio. E che succede se viene prosciolto? Che cosa raccontiamo agli elettori abruzzesi, vittime di queste decisioni?”


Insomma, si rischia di finire in un vicolo cieco.

“E’ il motivo per cui i cittadini, sia di destra che di sinistra, di pelle non si fidano della giustizia italiana. Al di là delle polemiche politiche nessuno vuole avere a che fare con un sistema che, come sta avvenendo a Mario Rossetti, ti mette dentro e ti lascia in galera per un tempo indefinito.  Lo stesso vale per la giustizia civile: nessuno pensa di poter risolvere una lite, per esempio, di condominio in tempi ragionevoli”.


Direttore Riotta, lei vanta una lunga esperienza negli Usa. Sarebbe concepibile la vicenda di Scaglia o di Rossetti oltre oceano?

“ No. Premesso che quella americana non è certo una giustizia esente da pecche, ci sono almeno due elementi  su cui val la pena meditare. Primo, la rapidità della fase istruttoria. IL caso Madoff è esemplare: accertamento del reato, incriminazione, processo ed immediata condanna. Secondo,  non è concepibile che si aprano, si chiudano e si riaprano i procedimenti  salvo casi eccezionali. Non è possibile, tanto per intenderci, che  dopo un’archiviazione ci sia una fase due, tre o anche quattro. La giustizia americana, ripeto, ha tanti difetti, a partire dal costo della difesa che gioca a favore degli imputati più abbienti rispetto agli altri. Ma ha molto da insegnarci in materia di certezza e di rapidità. Il caso di un cittadino parcheggiato in carcere in attesa di non si sa quale atto d’indagine non è ammissibile. L’incertezza del diritto, come ci insegnano tutte le ricerche in merito, è ormai la prima causa che tiene lontani gli investitori internazionali dal nostro Paese”.


Direttore, si ha la sensazione che l’imputato, soprattutto se non emerge una prova vera della sua colpevolezza, rischi di finire in una sorte di diritto dormiente. O meglio, addormentato. E’ così?

“Mi auguro vivamente che non sia il caso di Mario Rossetti o di Silvio Scaglia. Spero che, anche grazie all’azione di controllo del mondo dell’informazione, la giustizia nei loro confronti  sia rapida.  L’attesa del processo è comunque una pena che viene inflitta all’imputato. Ed è una pena odiosa ed ingiusta soprattutto per chi, poi, verrà assolto. L’inefficienza è comuqnque la pima ingiustizia ”.


In attesa del Tribunale del Riesame. Mario Rossetti vuole solo abbracciare i suoi figli.



Altre ore di attesa difficile per Mario Rossetti, in carcere da più di cento giorni. Lunedì 7 giugno infatti i giudici del Tribunale del Riesame di Roma dovranno decidere in sede d’Appello sul provvedimento del gip Aldo Morgigni che il 15 aprile scorso ha respinto l’istanza di scarcerazione presentata dai legali, dopo l’interrogatorio allo stesso Rossetti da parte dei pm.



La decisione dei giudici potrebbe (condizionale d’obbligo) restituire la libertà all’ex direttore finanziario di Fastweb. Senonchè ad esprimersi sarà lo stesso collegio del primo grado, presieduto da Giuseppe D’Arma, cioè gli stessi magistrati che, sempre in Appello, hanno negato il diritto alla scarcerazione a Silvio Scaglia, mantenendo il regime dei “domiciliari”. Domanda obbligatoria: riuscirà il collegio a decidere senza allinearsi ai desiderata dei pm. Con Scaglia non è accaduto, suscitando le forti proteste degli avvocati Corso e Fiorella, che hanno parlato di decisione “agli antipodi della legittimità”, a proposito di un sistema che consente “agli stessi giudici che già si sono pronunciati in altra veste (Tribunale del Riesame) di pronunciarsi sulla stessa materia sotto un’etichetta diversa (giudici d’Appello)”.


Rossetti, si sa, vuole solamente riabbracciare i suoi figli. Tra l’altro in cella soffre di claustrofobia, accertata dai medici, eppure ha diritto solo a un’ora d’aria al mattino, mentre al pomeriggio gli viene aperta un paio d’ore la porta della cella.


Intanto, sempre in merito alla detenzione abnorme che sta subendo, prende posizione il Sole 24 ore: “si nota che personalità certamente schierate per la cultura della legalità, come Umberto Eco, abbiano espresso posizioni garantiste sulla vicenda”. Aggiungendo: “se sono stati decisi i domiciliari per l’ex numero uno Scaglia perché lasciare in prigione da 100 giorni il suo ex sottoposto, Mario Rossetti?”. Mentre il settimanale Panorama parla dello “strano riesame del caso Scaglia”, ricordando come toccherà ancora “alla Cassazione il 25 giugno pronunciarsi sulla sua richiesta di tornare in libertà”.

Rita Bernardini a silvioscaglia.it: Mario Rossetti è stato adottato dai suoi “concellanei”

E su Rebibbia: “situazione insostenibile”.


“Carmelo Cantone, il direttore del carcere di Rebibbia nuovo complesso, ha avuto una buona idea: è una sorta di tesserino localizzatore con il quale i detenuti possono spostarsi all’interno del penitenziario, senza essere per forza accompagnati. Tanto si sa dove si trovano”. A raccontarla è l’on. Rita Bernardini, dopo l’ultima visita nel penitenziario: “E’ una risposta utile – sottolinea il deputato – alla cronica carenza di organico e al sovraffollamento di Rebibbia, come di tutte le altre carceri italiane, ma purtroppo non è con le alzate d’ingegno che si possono superare i problemi”.



On. Bernardini, il sovraffollamento è di nuovo oltre la soglia di allarme?

Assolutamente sì, gli ultimi dati parlano chiaro a tutti quelli che vogliono capire: in Italia sono attualmente rinchiusi 68.700 detenuti, di cui oltre il 40% in attesa di giudizio. La capienza totale non dovrebbe superare i 45.000. E’ una situazione insostenibile, soprattutto perché non si capisce come si pensa di uscirne: ogni  mese entrano in galera mille persone e ne escono 400. Non vorrei che nei prossimi mesi e con il caldo in arrivo succedesse qualche guaio”.


Teme il peggio?

Non lo so, spero di no, anzi sono abbastanza stupita dell’apparente tranquillità. D’altra parte, una delle reazioni a cui assistiamo è l’impennata dei suicidi: da inizio anno se ne contano 28 tra i detenuti e ben 5 tra gli agenti.


Che fare?

La posizione dei radicali è nota. Quando le cose stanno così, meglio un indulto e un’amnistia, ma siamo rimasti i soli a dirlo. C’è chi preferisce veder prescritti 200mila processi all’anno piuttosto che affrontare la questione. In dieci anni sono andati al macero già 2 milioni di processi. Poi è chiaro che, in una situazione del genere, ai magistrati viene la tentazione di finire solo quelli che vogliono, che offrono maggiore visibilità e magari l’occasione di fare carriera, come accadde con il povero Enzo Tortora.


A Rebibbia lei ha avuto modo di incontrare Mario Rossetti, cosa può dirci?

Dice che è sereno perché sa di essere innocente, ma ciò non toglie che sia stanco e preoccupato. Soprattutto soffre molto la mancanza dei figli, ne ha tre, il più grande ha nove anni. Mi ha raccontato che si era dato la regola di vita di rientrare a casa non oltre le 8 di sera, per stare con loro. Può sembrare poco, ma per un manager molto impegnato…


Ma non li può vedere?

E’ qui il punto: li sente solo al telefono e continuano a chiedergli papà quando torni. Li potrebbe incontrare in carcere, ma non vuole che lo vedano dietro le sbarre. Ci sarebbe una soluzione: a Rebibbia c’è la zona verde, un piccolo parco dove i detenuti incontrano i famigliari, soprattutto i figli. Ma a lui non è concesso, il suo regime molto restrittivo non lo consente. Rossetti è anche credente, cattolico, ma non può neanche andare a messa. Che altro dire.


E come passa il tempo?

Chiede continuamente che gli venga consentito di fare qualcosa, ma c’è poco da fare. Il regime deciso dai magistrati è molto restrittivo. Tra l’altro, soffrendo di una claustrofobia clinicamente accertata dai medici, stare sempre chiuso in cella peggiora la situazione. Ha diritto ad una sola ora di aria al giorno. Gli altri detenuti, che lì si chiamano “concellanei”, lo hanno adottato per farsi scrivere delle lettere o delle piccole richieste. Poi si rivolgono a lui per una altro grande problema: quasi tutti sanno che una volta usciti dal carcere non troveranno niente da fare, così gli chiedono aiuto, per imparare qualcosa o come cercare un lavoro. E si affidano ai suoi consigli, di uomo d’impresa, per avere una speranza. Mi ha ribadito che una volta libero intende prendersi a cuore altri detenuti che si trovano nei guai.

Mario Rossetti: cento giorni

Cento giorni in una cella di venti metri quadri, da dividere in cinque. Un gulag di sovietica memoria? Una prigione afghana o pakistana? Nulla di tutto ciò. Succede invece a Roma, precisamente a Rebibbia, nel carcere della “caput mundi” che ospita (si fa per dire) 1700 persone secondo i dati forniti, nell’Italia dei 68.700 detenuti: un record nella storia della Repubblica.


“Una situazione allo sfascio”, per una struttura che dovrebbe ospitarne 1.200. Ma è questa l’Italia penitenziaria. E fra le storie (tra le tante) quella di Mario Rossetti, raccontata in un articolo dal quotidiano il Riformista.


A Rossetti, scrive Jacopo Matano: “Il combinato disposto con il sovraffollamento ha dato origine a un paradosso: se non avesse scelto di condividere la cella con altri cinque detenuti sarebbe, praticamente, in isolamento”. Come racconta al giornale il deputato radicale Rita Bernardini, in visita il 2 giugno al carcere: “Non può andare a messa, non può frequentare molti dei corsi. E poi non ha diritto di ricevere le visite dei familiari nell’area verde”. Per questo, per non farsi vedere dai figli dietro le sbarre (Giorgio di 9 anni, Luise di 8 e Leone di 2), Mario Rossetti ha detto che preferisce non incontrarli.


A nulla vale per i giudici il fatto, come ricorda il Riformista, che Rossetti sia indagato per “operazioni” che riguardano il 2002-2003”, e che dal 2005 non ricopre più l’incarico di direttore amministrativo e finanziario di Fastweb.


“In Italia – prosegue il racconto di Rita Bernardini – circa la metà dei detenuti sono in attesa di processo. La carcerazione preventiva andrebbe applicata solo in casi eccezionali”. Ma non è così, l’eccezione è diventata la regola.


Sappiamo però che Rossetti, benché provato, non si perde d’animo. E che tra le altre cose, per riempire il tempo, sta aiutando altri detenuti, a scrivere delle lettere e dando conforto. E ha già deciso che anche da libero non dimenticherà tutto quel che ha visto.



Una giustizia malata in molti modi


“Lo abbiamo già scritto e vogliamo ribadirlo con chiarezza”. Inizia così l’articolo che il Corriere della Sera, a firma del vicedirettore Antonio Macaluso, torna a dedicare a Silvio Scaglia: “non spetta ad altri che alla magistratura – scrive Macaluso – stabilire se il fondatore di Fastweb, arrestato mesi fa (98 giorni per l’esattezza ndr.) nell’ambito dell’inchiesta su (tra l’altro) un maxi-riciclaggio da due miliardi di euro, sia colpevole o innocente”. “Poiché, però - aggiunge – il dibattito sul (mal) funzionamento della giustizia e sul perché e sui modi per intervenire è continuo motivo di scontro in sede politica e istituzionale, è anche dai casi concreti che dobbiamo partire”.


Già, partire dai  casi concreti, che possono mettere in luce quanto la “giustizia può essere malata per tanti motivi”.  Che non sono solo quelli su come vengono utilizzate le tante o poche risorse messe a disposizione, ma anche perché “nessuno può asserire che, come in ogni altra categoria professionale, anche in quella della magistratura, non possano esserci distorsioni, incapacità, protagonismi, sconfinamenti”.


Il caso concreto, stavolta, è appunto quello dell’ex fondatore di Fastweb, che  si è messo a disposizione di chi lo accusa, è entrato in carcere, ha avuto dopo oltre 70 giorni di cella il “beneficio” dei domiciliari, salvo che poi, nei giorni scorsi, il Tribunale del riesame gli ha negato, in sede d’appello, la scarcerazione. Secondo gli avvocati di Scaglia una decisione, come riporta il Corriere, “agli antipodi della giurisprudenza di legittimità”. Del resto, sostengono sempre i legali, a decidere che deve restare privo di libertà personale sono state le stesse persone con “altra veste”:  prima come giudici del Tribunale del Riesame, poi con altra casacca, “giudici d’Appello”.


Una stortura che, per quanto prassi ordinaria, fa parte delle tante cose che non vanno nella giustizia. E che spinge, infatti, il vicedirettore del Corriere a sostenere: “ci si lasci pensare che quando si parla di riforma della giustizia, si pensa anche a casi come questi, che aggiungono dubbi ad altri dubbi. Nella (ex) patria della certezza del diritto”.


Purtroppo, è vero, una giustizia può essere malata in molti modi.


Silvio Scaglia rimane agli arresti domiciliari: una decisione agli antipodi della legittimità.

I legali: “E’ innocente e lo dimostreremo in Cassazione”


Una sentenza prevista, ma con risvolti “agli antipodi della legittimità”. Il Tribunale del Riesame di Roma ha respinto l’appello presentato dai legali del fondatore di Fastweb, Antonio Fiorella e Pier Maria Corso, per chiedere la revoca della misura cautelare. Di conseguenza Silvio Scaglia resta agli arresti domiciliari nella casa di famiglia ad Antagnod, in Valle D’Aosta.



La decisione era prevedibile, anche perché il collegio d’appello era presieduto dal giudice Giuseppe D’Arma, lo stesso che si era pronunciato in sede di tribunale del Riesame. E, come rilevano gli avvocati difensori di Scaglia, gli avvocati Piermaria Corso e Antonio Fiorella,“in un sistema che consente agli stessi giudici che già si sono pronunciati in altra veste (Tribunale del Riesame ndr.) di pronunciarsi sulla stessa materia sotto un’etichetta diversa ( giudici d’Appello ndr.) è oltre modo difficile aspettarsi che smentiscano  se stessi!”.



Ma non è questa la ragione per cui i legali parlano addirittura di “giustizia surreale, agli antipodi della giurisprudenza di legittimità”. “Prendiamo atto – spiegano i difensori – che secondo il Tribunale una prova sopravvenuta non può essere esaminata in sede di appello. Il che va in rotta di collisione con la giurisprudenza della Corte di Cassazione”. Oggi, infatti, in sede di appello il collegio giudicante si è richiamato alla propria ordinanza del 17 marzo scorso, per confermare un provvedimento del Gip e un’impugnazione che riguardavano profili diversi. Così “il Tribunale ammette candidamente di non avere esaminato i motivi di appello perché, a suo dire, li aveva già esaminati nella veste del tribunale del Riesame”.


Eppure, la giurisprudenza della Cassazione (vedi, tra le altre, la sentenza della Sezione II Penale del 9 febbraio 2006), ha stabilito che “Nel procedimento conseguente all’appello proposto dall’indagato contro l’odinanza reiettiva della richiesta di revoca della misura cautelare personale, è legittima, in applicazione dei principi del favor libertatis e della ragionevole durata del processo, la produzione di documentazione relativa ad elementi probatori nuovi, preesistenti o sopravvenuti, sempre che… quelli prodotti dalla parte riguardino lo stesso fatto contestato con l’originaria richiesta cautelare … e siano idonei a dimostrare che non sussistono le condizioni e i presupposti della misura cautelare richiesta”. Ovvero, per usare il linguaggio comune, quando si tratta della libertà personale, non è accettabile una sentenza “fotocopia”.


Il risultato finale? “A parte il perdurare della carcerazione di un innocente- concludono i legali –  è rappresentato dalla ricaduta sulla Cassazione di questioni serenamente risolvibili a livello di giudici di merito. Confidiamo che il buon diritto prevalga almeno in Cassazione».


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“Questo Blog è dedicato alla figura di Silvio Scaglia, imprenditore ed innovatore, protagonista di start up (Omnitel, Fastweb, Babelgum) oggi impegnato in nuove sfide come il rilancio de La Perla, marchio storico del made in Italy. E' un luogo di informazione e di dibattito per tutti gli stakeholders (dipendenti, collaboratori, clienti) ma anche comuni cittadini che hanno seguito le vicende in cui Scaglia, innocente, si è trovato coinvolto fino alla piena assoluzione da parte della giustizia italiana.” - Stefania Valenti, Chief Executive Officer Elite World