Archive del 2011

Vincino: “Il peso di un’ordinanza”

 

Il commento di Vincino all’intervista a Stefano Mazzitelli pubblicata ieri dal blog


Fattore Umano | Stefano Mazzitelli: «Il carcere? Un impatto devastante»

 

L’ex Ad di TIS racconta al blog il trattamento subito da “presunto innocente”: «È mai possibile – dice – arrivare al colloquio di garanzia col Gip senza l’assistenza di un avvocato, con davanti un’ordinanza di 2000 pagine e un fascicolo di 200.000?». «Devo ringraziare – aggiunge – il sostegno dei compagni di cella e le guardie. E poi gli amici e i conoscenti che mai hanno dubitato di me»




Dottor Mazzitelli, dopo un anno agli arresti, com’è stato svegliarsi da persone libere?

È difficile descrivere le emozioni che si provano nel riacquistare la libertà dopo 12 mesi di improvvisa privazione fisica e mentale di tutto ciò che hai, o che fai, anche delle cose più banali. È un po’ come rinascere, soprattutto mentalmente. Si comincia per gradi, dagli affetti che incontri appena uscito e verso i quali hai un approccio fisico, tattile, poi le cose quotidiane. Ancora oggi, dopo un mese di vera libertà ho sensazioni nuove ogni giorno. Purtroppo, si resta in uno stato di ansia latente: sei sempre fra il presente ed il passato, fra il sogno e l’incubo. L’aspetto confortante è constatare che a poco a poco ci si “riabitua” alla libertà: sembra un concetto un po’ folle ma è così.


Che ricordi restano?

Per trovare risvolti positivi in una simile vicenda bisogna scavarsi dentro profondamente e non è facile. Io lo faccio tutti i giorni ma non ho ancora trovato risposte. Innanzitutto, ed è un dato incredibile, ricordo tutto con una memoria fotografica sorprendente, dico veramente tutto; potrei descrivere ogni istante di quei momenti con precisione assoluta. Voglio anche aggiungere che nel mio caso, come in quello di altri, si tratta di persone incensurate quindi c’è un problema personale ma anche diciamo così “intellettuale” per chi nel sistema ha vissuto in maniera specchiata per 50 anni. Ribadisco, non è solo un concetto etico che può sembrare personale e fine a se stesso, ma anche giuridico che si chiama “presunzione di innocenza” e “incensurati”. Con il tempo, la riflessione e gli affetti magari tutto si normalizzerà, ma certamente la storia non si cancella e credo sia anche giusto così.


La sua esperienza del carcere?

Il primo impatto è devastante, ti ritrovi in un ambiente chiuso e soffocante; l’isolamento è qualcosa di terrificante che genera reazioni, credo, anche chimiche; non puoi appellarti a nulla, non hai contatti, non sai cosa succede, nessuno ti informa di niente. Chiudono anche la porta esterna blindata e si è tagliati fuori dal mondo; dopo un paio di giorni gli altri detenuti, in specie i lavoranti, ti offrono un caffè la mattina e durante il rancio si preoccupano che mangi, insomma ho trovato grande solidarietà; devo aggiungere che per me ci sono voluti 9 giorni per andare in cella con gli altri; a quel punto, in qualche modo, si ricomincia a vivere, con persone che ti manifestano da subito, nella maggior parte dei casi, affetto e cortesia. Ti aiutano, consigliano e stimolano: ecco quello è stato un sollievo enorme. Anzi vorrei approfittare per mandare un grazie sincero ai miei compagni di cella. Mi ha impressionato la maturità di queste persone, anche giovani, cui ti puoi appoggiare perché si fanno carico dei tuoi problemi, non lo dimenticherò mai. Ho trovato solidarietà anche nelle guardie di custodia, in alcuni casi quasi un’amicizia; sono persone che fanno un lavoro duro, spesso non gratificante. Per questo vanno rispettati e, per quanto mi riguarda, ringraziati. Ci sono molti luoghi comuni sul fatto che gli agenti commettano delle vessazioni. Nei sei mesi di carcere non ne ho avuta diretta esperienza. Certo, ci sono anche esempi negativi, ma in generale no. Le domande, semmai, vanno poste sul “sistema della giustizia”: è giusto il carcere per ragazzi di 20/25 anni condannati per furtarelli, quasi sempre a scopo di droga? A che serve? Che senso ha? Quasi sempre, poi, questi ragazzi vengono rimessi in libertà senza adeguato sostegno. Poi ci sono troppe cose che non vanno: strutture mediche deficitarie e carenti, c’è l’aspetto dei colloqui, limitati e senza privacy, specialmente per coloro che hanno anni di permanenza nella struttura; infine i trasporti che sono davvero allucinanti: perché, mi chiedo? Che ci vuole? Non sarebbe difficile fare meglio. Per questo spero di poter fare qualcosa quando il mio incubo personale sarà finito.


E sui domiciliari?

Qui c’è un discorso personale ed uno giuridico, di sistema. È evidente che i domiciliari rispetto al carcere sono qualcosa di profondamente diverso, il semplice contatto con la famiglia è un sollievo enorme, così come il ritrovarsi in un ambiente conosciuto come la tua casa. Dopo pochi giorni, però, il sollievo svanisce e si tramuta in insofferenza per la costrizione, i controlli notturni, le limitazioni e le paure a cui sottoponi anche chi ti sta vicino. E questo è il discorso personale. Poi c’è l’aspetto giuridico della custodia cautelare: è una brutalità indegna di un paese civile, che andrebbe applicata solo in casi gravissimi e adeguatamente motivati. Non certo il mio caso personale. Anche perché, ed è un aspetto a volte sottovalutato, si riflette sulla capacità di difendersi adeguatamente, per le limitazioni cui sei sottoposto. Ad esempio, in un procedimento della complessità di quello in cui sono coinvolto, è assolutamente necessario l’esame di ingenti mole di carte, di colloqui con gli avvocati, hai bisogno anche della lucidità per dimostrare la tua innocenza: sono tutte cose che il carcere e l’afflizione che comporta rischiano di pregiudicare. Una persona non può arrivare al processo in queste condizioni, si crea un’asimmetria insopportabile fra accusa e difesa. C’è poi un altro aspetto: nel nostro/mio caso ci è stato sequestrato tutto, nonostante l’evidenza che non abbiamo ricevuto nessun utile personale dall’operazione, sia diretto che indiretto; insomma, in questo momento non ho nessuna disponibilità economica e solo grazie all’aiuto di famigliari ed amici riesco a soddisfare le piccole esigenze quotidiane. Pensi solo agli avvocati? Ho la fortuna di avere amici che mi sostengono, ma è una casualità: il sistema non deve e non può consentire questo.


Cosa pensa del suo futuro?

Oggi c’è solo il quotidiano. Ha detto bene l’ingegner Comito sul vostro blog: la sanità mentale richiede di concentrarsi sull’oggi, sul processo, sul recupero del rapporto con la famiglia, sul rassicurare i figli. Si vive in una situazione di temporaneità ed instabilità, legate al processo; cerco di concentrarmi lo stesso: è troppo grande la voglia di dimostrare la mia totale innocenza ed estraneità ai fatti. La delusione è il dover constatare che c’è un sistema brutale, nel quale va pure messo in conto il perverso rapporto fra media e inchieste giudiziarie: un sistema che vive di slogan, che non fa domande, che banalizza i lati umani e tecnici delle vicende, a parte qualche rara eccezione. Poi, nel mio caso, è stato anche alimentato dall’azienda per cui lavoravo che ha fatto pubblico sfoggio di opportunismo. Non è un problema di immagine, ma di equilibrio di valori. La stampa non può rivendicare diritti costituzionali di libertà se poi li usa a scopi puramente commerciali. In questo contesto, il mio futuro ha solo tante domande, ma sono convinto che troveranno adeguata risposta. Ci vorrà tempo e pazienza.


Ha ancora fiducia nella giustizia?

È un tema complicato. La convinzione è che, alla fine, il dibattimento consentirà un corretto esame della situazione; questo mi dà un senso di sollievo, pur in un contesto complesso: il fatto di poter “dibattere”, di potersi esprimere, confutare ed essere ascoltati è importante. Sono stato un anno in silenzio: ho sentito di tutto, dai magistrati inquirenti, dagli organi di polizia giudiziaria, dalla stampa, dall’azienda per cui lavoravo, senza poter esprimere e contestualizzare: insomma, un muro. Il dibattimento, da questo punto di vita, è una liberazione. E non è solo un tema processuale: innanzitutto lo Stato, il legislatore e di conseguenza noi tutti, dobbiamo capire e decidere se vogliamo porre al centro del sistema il cittadino/persona o lo Stato. Sembra scontato, ma purtroppo nel tempo si è spostato il centro verso lo Stato burocratico ed i diritti individuali vengono calpestati. Purtroppo ci si rende conto di questo quando si rimane intrappolati: è mai possibile che si possa arrivare ad un colloquio di garanzia con il GIP senza l’assistenza dell’avvocato, con un’ordinanza di 2000 e più pagine e un fascicolo di 200.000 pagine? Che un’udienza del riesame duri 5 minuti? Che nei fatti venga sconvolto il principio cardine di presunzione di innocenza che dovrebbe essere sacro? Tutto previsto dalla legge, ma è proprio questo il punto: il sistema non offre più garanzie. E non è accettabile dire che il dibattimento alla fine sana tutto, perché ci si arriva in misura sproporzionata fra accusa e difesa con conseguenze anche sul processo e perché il danno fatto alle persone può essere irreparabile.


Qualcos’altro che vuole dire?

Sì, soprattutto un grazie al vostro Blog, così aperto ed attento, grazie agli amici e ai conoscenti che mai hanno dubitato, grazie ai parlamentari e giornalisti che si sono interessati alla mia/nostra vicenda con discrezione senza interferire ma cercando almeno di capire e di porre la persona al centro del problema e una dedica affettuosa ai miei figli ed ai miei cari. La mia unica risposta può essere solo di dimostrare la mia totale estraneità a questa vicenda.


Panorama Economy: “Otto giovani per dare ritmo al paese”


Silvio Scaglia nella lista dei supermanager che potrebbero restituire slancio all’Italia


Otto giovani per dare ritmo al Paese: «quasi tutti escono dalla scuola McKinsey». E c’è anche Silvio Scaglia. È quanto si legge su Panorama Economy nell’ambito dell’inchiesta che il settimanale dedica al “ribaltone” di Trieste che ha visto l’uscita di scena di Cesare Geronzi dalla presidenza delle Generali.


Silvio Scaglia è certamente in ottima compagnia, insieme ad Alessandro Profumo, Paolo Vagnone (neo country manager Italia proprio alle Assicurazioni Generali), Francesco Caio, Vittorio Colao, Mario Greco, Corrado Passera e Matteo Arpe.


Del fondatore di Fastweb, scrive Panorama Economy: «Tra i McKinsey boy è quello che è riuscito meglio sul piano economico, inventandosi da zero – dopo avere gestito da amministratore delegato la Omnitel dal ’95 al ’99 – lo start up di Fastweb, oggi Swisscom, e incassando cedendo le sue quote poco meno di un miliardo di euro».  Aggiunge il settimanale: «Hanno avuto grandi successi professionali, ma in qualche caso hanno pagato l’eccesso di indipendenza e in altri hanno dovuto emigrare. Perché anche loro devono fare i conti con il sistema». Già, pure con quello giudiziario.


1 anno di blog



Il disegno al servizio della verità


A colloquio con Vincino, la matita più puntuta della cronaca



«Il disegno è uno strumento di verità. Per questo è così efficace per aprire qualche squarcio sulla realtà di questo Paese, dove abbondano i lati oscuri». Parla così una delle “matite” più famose (e scomode) del Bel Paese: Vincenzo Gallo, in arte Vincino, la punta più graffiante del blog Silvioscaglia.it che più di tutti ha contributo a squarciare la cortina del silenzio che, dopo il clamore mediatico iniziale, rischiava di inghiottire la vicenda umana e giudiziaria del fondatore di Fastweb.  Come ben sanno i lettori del Blog che hanno avuto modo di vedere una parte dello sterminato lavoro di questo vulcano creativo, pronto a sparare “cartoon” a getto continuo, alimentati da una grande indignazione civile.





Da oggi, il Blog mette a disposizione dei lettori, nella sezione L’angolo di Vincino, un’altra parte di questa produzione artistica e civile, che viene da lontano

Perché quella di Vincino è una vita passata a graffiare, dalle colonne del Male fino alle vignette sul Corriere della Sera e Il Foglio i potenti che, reinterpretati da quel tratto di penna essenziale più che elementare, emergono con le loro debolezze e le loro miserie.  Che si tratti di politici, banchieri, divi tv o, perché no, pure i casi di mala giustizia. «Anzi – replica lui – io, palermitano, nasco come disegnatore con la cronaca giudiziaria. I primi disegni, da ragazzo, li ho fatti ad un processo di mafia che all’epoca fece scalpore: la strage di viale Lazio».


Dalle stragi di sangue ai processi contro i colletti bianchi il passo non è breve. Che cosa ti ha spinto ad affrontare la vicenda di Scaglia che, almeno a prima vista, non si presta ad essere descritta per immagini?

Sono stato felice di poter lavorare, con continuità, attorno a questo caso. Fin dal primo momento ho avuto la sensazione che la storia, così come era stata presentata dai giornali su notizie in arrivo dalla Procura, facesse acqua un po’ da tutte le parti.  A mano a mano che mi informavo, mi convincevo che ci trovavamo di fronte all’ennesimo caso di  macelleria giudiziaria, secondo una tecnica sperimentata negli anni Settanta ed Ottanta con il terrorismo e poi affinata nel corso degli anni: tu metti dentro uno, senza troppi complimenti, nella speranza di raccogliere qualcosa in corso d’opera. Nel frattempo, hai dato in pasto alla macchina mediatica ciò che serve per raggiungere obiettivi che non c’entrano con la giustizia.


Cosa ti ha colpito, in particolare, del processo sull’Iva telefonica?

È clamoroso che un’azienda d’avanguardia, una delle poche fatte interamente da italiani, possa essere decapitata con estrema superficialità da pm che non hanno alcuna competenza specifica. Ancor di più, fa impressione prender atto, passo dopo passo, del degrado di un sistema che, all’apparenza, abbonda di garanzie, ma nei fatti è autoreferenziale. Prendiamo la figura del Gip. Dovrebbe essere terzo, rispetto ad accusa e difesa, ma i pm se lo bevono. E il Tribunale della libertà, poi, te lo raccomando: sembra un ufficio ratifiche. Ecco, io credo che se la riforma della giustizia, qualunque essa sia, non smonterà questi ingranaggi costosi, farraginosi ed inutili, non farà grande strada”.


Ma come si fa a rendere tutto questo con un disegno? Non invadi il campo del giornalista classico, carta e penna o computer?

Ma il disegno è la leva di Archimede dell’informazione! Le potenzialità dell’immagine sono quasi infinite, a differenza della parola scritta. E lo dimostra l’invidia di tanti colleghi consapevoli che l’occhio del lettore, davanti alla pagina, cade prima sulla vignetta che sugli articoli. Il fenomeno è tanto più rilevante nell’era di Internet. Il disegno corre sull’onda del web, è la gazzella dell’informazione.


Già, mentre il giornalista è l’ippopotamo. Non esageri?

La verità è che io sono innamorato del mio mestiere: raccontare la verità attraverso un’immagine è la cosa più bella che ci sia.


La cosa che colpisce di più è che tu, che in realtà te la cavi con pochi tratti di penna, passi ore ed ore nelle aule di giustizia. Posso testimoniare che tu stai seguendo il processo “Iva telefonica” passo dopo passo, senza perderti una battuta. Anzi, sfruttando le pause del dibattimento per studiare i volti, gli atteggiamenti di avvocati ed imputati. Al contrario, di giornalisti in aula se ne vedono pochi.

E fanno male. Perché in quell’aula sfila un pezzo della storia d’Italia.


Addirittura?

Non esagero. Primo, perché è impressionante verificare, giorno dopo giorno, che sulla base di un presupposto fondato sul niente, cioè che qualcuno “non poteva non sapere”, si è tenuta la gente in galera per un anno senza raccogliere nulla di nulla. Il tutto per arrivare ad un maxiprocesso che mobilita una marea di gente, in cui la presenza di Scaglia serve a far da richiamo. Anche questa è l’Italia di oggi, un Paese che è pieno di cose da raccontare.


Con una matita ed un computer.

Bastano per sognare e far sognare. Cose di cui abbiamo grande bisogno di questi tempi.



Udienza 22: slitta al 27 aprile la testimonianza di Laurenti


L’udienza numero 22 del processo sull’“Iva Telefonica” è stata dedicata all’interrogatorio di due testi legati, per ragioni diverse, all’attività di Gennaro Mokbel


Per prima è stata sentita Barbara Murri, che ha riferito dei suoi viaggi per conto dello stesso Mokbel in giro per il mondo, da Panama ad Hong Kong. Si è trattata di una testimonianza molto critica nei confronti di Mokbel, che è intervenuto alla fine protestando la sua amicizia per la teste.


È stata poi la volta dell’agente di polizia Mirko Pontelini che, fuori servizio, effettuava il lavoro di vigilanza per la gioielleria della famiglia Mokbel oltre ad alcuni servizi di scorta e di trasporto.


L’esame del teste più atteso, Maurizio Laurenti, è invece slittato all’udienza del prossimo 27 aprile, l’ultima prima che inizino le testimonianze di poliziotti e finanzieri che hanno effettuato le indagini. Laurenti, titolare della Accord Pacific Limited di Hong Kong, collaboratore ed amico di Carlo Focarelli, è entrato nell’inchiesta con l’accusa di aver riciclato denaro per contro della Globestream di Focarelli.


Vincino: “La crostata tre padelle”

 

Il commento di Vincino all’intervista ad Antonio Catanzariti pubblicata ieri dal blog


Fattore Umano | Catanzariti: «Ti attacchi ai piccoli riti, come scriveva Primo Levi»

L’ex manager di TIS racconta al blog la sua esperienza in carcere: l’avvocato d’ufficio, la biblioteca di Rebibbia, le crostate col “forno del carcerato” e l’amicizia con Silvio Scaglia: «Non lo avevo mai conosciuto – ricorda – ed era vietato parlarsi, ma gli altri detenuti mi dicevano: Aho’, certo che l’amico tuo è ‘na gran brava persona”»



Dottor Catanzariti, ha voglia di raccontare il suo arresto?

La prima sensazione è stata quella di vedersi crollare il mondo addosso, improvvisamente. Le Forze dell’Ordine sono arrivate a casa mia all’alba, erano in tanti, come se invece di una persona onesta, vissuta sempre del proprio lavoro, dovessero catturare un pericoloso mafioso. Mi furono consegnati degli enormi tomi che li autorizzavano, in sostanza, a frugarmi in casa, impedirmi di sentire chiunque, compreso il difensore per cinque giorni e, soprattutto, privarmi della libertà. A quel punto ho anche appreso che perfino la telefonata ai propri congiunti, in questi casi non è un diritto ma una chance “unica”: se li trovi “al primo tentativo” bene, altrimenti, come è successo a me, in carcere non hai nemmeno una “seconda possibilità” per chiamarli: saranno loro che, con l’angoscia nel cuore e confidando nel buon senso di qualche giovane carabiniere, dovranno “ricostruire” la tua sorte.


Ma avrà avuto un avvocato?

Non avevo un avvocato. Non ho mai avuto bisogno di un penalista nella mia vita. Ricordo ancora il giorno dell’udienza di convalida: mi trovo accanto un difensore d’ufficio che, con un ben magro stralcio della corposa ordinanza di custodia cautelare e senza avermi mai potuto vedere prima, in uno strano rito “a porte chiuse” (rito camerale, apprenderò poi chiamarsi) mi deve patrocinare. Per fortuna, al termine dell’udienza, mentre in manette venivo scortato via da inflessibili agenti di custodia (qualcuno, ormai era evidente, non mi riteneva così innocuo come io avevo sempre pensato di essere!), i miei familiari da lontano sono riusciti a gridarmi il nome del legale di fiducia da nominare.


Qual è stato l’impatto con il carcere?

Le prime settimane di carcere, come nel “processo” di Kafka, le ho passate, a interrogarmi sul perché mi trovassi precipitato in una situazione del genere. Per accettare la mia condizione e sopravvivere psicologicamente ero costretto ad aggrapparmi a tutto ciò che di “tecnico” mi dicevano i compagni di detenzione; in seguito, quando ho ottenuto l’autorizzazione, mi hanno sostenuto le visite e le telefonate settimanali con i miei cari. Nel tempo, e senza capire come possa essere avvenuta la trasformazione, mi sono ritrovato ad essere io quello che dava forza e sostegno ai “nuovi arrivati” ed a chi, dopo lunghe permanenze in carcere, può comprensibilmente cedere allo sconforto. A quel punto ho compreso che sarei riuscito a resistere a questa durissima prova e che si trattava solo di una questione di tempo. Si trattava di sopravvivere…


In che modo?

La regola aurea è tenere impegnata la mente il più possibile, evitando che la profonda ingiustizia di cui si è vittima alimenti una pericolosa ossessione. Immaginavo come ricostruire la mia vita, i “progetti” da riprendere una volta “fuori”, sia come professionista sia in famiglia, e mi sono rifugiato in una delle mie passioni, la lettura di libri. Nella biblioteca del reparto di Rebibbia le mie continue richieste letterarie, suscitavano perfino la curiosità degli addetti. Poi ci si attacca ai piccoli riti quotidiani: ad esempio, la cura della propria persona, ben descritta da Primo Levi, aiuta a ricordare che sei un uomo e a far trascorrere le monotone ed interminabili giornate. Oltre a questo, mi è stata di enorme aiuto la vicinanza delle persone care e degli amici. Sono davvero grato anche ai molti che, pur non avendomi assiduamente frequentato, non mi hanno fatto mancare la loro stima e solidarietà.


Cosa ha capito del carcere?

Un giudizio generale mi riporta a quello che altri hanno già detto: la mancanza di un progetto coerente dentro le mura che favorisca il recupero e il reinserimento di coloro che sono costretti ad espiarvi una pena. Posso infatti dire che nel reparto dove sono stato rinchiuso per cinque mesi e mezzo, ho anche trovato persone magnifiche tra i detenuti: ricche di umanità, capacità di ascolto e con la forza di vivere con grande dignità l’esperienza carceraria. Detto questo, il carcere e tutto quello che intorno ad esso ruota, è sicuramente un’esperienza che ti cambia. Ti cambia nelle relazioni con il prossimo e nella considerazione che hai di te stesso.


Mai e poi mai un sorriso? Neanche mezzo?

Sì, ho il ricordo di due esperienze curiose che pur tra tante difficoltà sono riuscite a farmi sorridere. Uno dei miei compagni di cella, un vero “mago” della cucina detentiva, mi ha insegnato l’uso dell’ingegnoso “forno del carcerato”: con tre padelle appoggiate una sull’altra, sotto le quali c’erano fornelli da campeggio, riusciva a cucinare delle ottime crostate, mettendo da parte le marmellate distribuite per colazione. Nella padella di mezzo la crostata, poi sopra e sotto altre due padelle per produrre e mantenere l’aria calda. Si faceva a gara per assaggiarne una fetta!


Il secondo episodio?

Riguarda, in qualche modo, l’ingegner Scaglia. Nel periodo di permanenza dell’ingegnere presso Rebibbia, eravamo stati assegnati allo stesso reparto, il G11 sezione B. Io al primo piano e Scaglia al secondo, esattamente sopra di me. Non ci conoscevamo ed essendo stato disposto, per tutti i coimputati, il divieto di incontro, non abbiamo mai avuto la possibilità di “incrociarci” e di scambiarci un saluto. Eppure, non era infrequente che alcuni detenuti, incaricati di mansioni lavorative sui due piani (servire il pranzo, la pulizia del corridoio, la raccolta di rifiuti da riciclare, ecc.), incontrandomi e sapendo che entrambi ci trovavamo a Rebibbia per lo stesso procedimento, mi apostrofavano con battute in romanesco, del tipo: “Aho’, ho visto l’amico tuo”, “Certo che l’amico tuo è ‘na gran brava persona”, oppure “Ho ‘ncrociato l’amico tuo in sala colloqui”. Ad un certo punto ho pensato: “stai a vedere che, senza saperlo, sono diventato un amico di Silvio Scaglia!” Ancora oggi sorrido al pensiero di come avrebbe potuto, a sua volta, aver reagito l’ingegner Scaglia se, incontrando le stesse persone, si fosse sentito dire, con lo stesso romanesco, “Aho’, ho visto qua sotto l’amico tuo, Antonio Catanzariti”. Ecco, questo sì che mi ha fatto sorridere.


“Iva Telefonica”: un tris di testi in una sola udienza


E per il 13 aprile in vista l’esame di sei testi in una volta sola


Udienza 21. Archiviata la deposizione di Giuseppe Crudele, il processo per “l’Iva telefonica” è proseguito con l’esame di alcuni testi, imputati in procedimenti connessi, ascoltati in merito alla posizione del maggiore della Guardia di Finanza Luca Berriola.


Davanti al collegio della Prima Sezione penale dl Tribunale di Roma sono sfilati: l’imprenditore Vito Tommasino, Giovanni Pizzi e Giulio Cordeschi. Gli interrogatori e i controinterrogatori dei tre testi si sono esauriti in poco più di quattro ore.


Ma è probabile che la prossima udienza, in programma il 13 aprile, sarà ancora più sbrigativa. Per quella giornata, infatti, sono stati convocati sei testi. Oltre ai già previsti interrogatori di Barbara Murri, sorella di Augusto (già ascoltato in un’udienza precedente), Marco Iannilli, Maurizio Laurenti e di Fabrizio Rubini si pensa di esaurire in giornata l’esame degli agenti di polizia Mirko Pontelini e di Fabrizio Soprano.


Fattore Umano | Merluzzi: «Imputati, non bestie»


Il Presidente della Camera Penale di Roma e legale dei due ex manager TIS, Mazzitelli e Comito, denuncia le condizioni “disumane” cui è sottoposto Gennaro Mokbel detenuto nel carcere di Civitavecchia: «Se è colpevole lo stabiliranno i giudici – dice – ma è inaccettabile che per arrivare in tempo alle udienze gli sia impedito di mangiare e lavarsi»


 

 

«Non si possono trattare gli imputati come bestie messe sui carri. Se Gennaro Mokbel è colpevole lo decideranno i giudici del Tribunale, ma nel frattempo deve essergli riconosciuto il diritto di potersi difendere con dignità». La denuncia arriva dall’avvocato Fabrizio Merluzzi, legale di Stefano Mazzitelli e Massimo Comito, i due ex manager di Telecom Italia Sparkle coinvolti nel processo sull’Iva Telefonica, che però, in questo caso, precisa che intende parlare in qualità di Presidente della Camera Penale di Roma, dopo che lo stesso Mokbel lo scorso 26 marzo si è lamentato in aula del calendario troppo fitto: «Con dieci udienze al mese, spesso consecutive – ha affermato in una dichiarazione spontanea – non c’è neanche il tempo per lavarsi e mangiare perché le docce del carcere chiudono presto e in carcere si mangia alle 11 e alle 17».


Avvocato Merluzzi, che succede?

Succede che siamo di fronte all’ennesimo scandalo della giustizia italiana, ad un vuoto normativo che toglie dignità alle persone. Il caso di Gennaro Mokbel, al di là di quello che stabiliranno i giudici al processo, non può essere taciuto: quel che gli tocca subire è disumano.


Si spieghi meglio…

Gennaro Mokbel è detenuto nel carcere di Civitavecchia, di conseguenza ogni volta che c’è un’udienza a Roma lo fanno partire alle 7 del mattino senza che abbia il tempo di lavarsi o mangiare. Altrettanto la sera, quando rientra verso le 19, niente doccia e niente cena. Come non bastasse, deve viaggiare su un cellulare diviso in piccole gabbie di 90 centimetri per 50, illuminate all’interno solo da un piccola lampadina. Neanche fosse una bestia. Due settimane fa abbiamo avuto tre udienze in tre giorni e Mokbel per tutti e tre i giorni non ha potuto lavarsi e fare un pasto decente, perché in carcere si mangia alle 11 e alle 17. Pensi che nemmeno i parenti possono passargli un panino durante l’udienza…


Perché parlava di vuoto normativo?

Perché non è colpa dei giudici e nemmeno di chi lo deve trasportare. Il nostro sistema prevede che il giudice abbia la disponibilità del detenuto solo rispetto alla gestione dell’udienza, la scelta del carcere invece la fa il DAP (Dipartimento amministrazione penitenziaria, ndr.). In pratica un giudice può solo sollecitare ma non può ordinare che, ad esempio, Mokbel venga trasferito a Rebibbia.


Quello di Mokbel è un caso isolato?

Niente affatto, è la regola. La cosa che mi ha impressionato è che quando Mokbel lo ha detto in udienza gli agenti non hanno negato. Anzi il caposcorta ha confermato, aggiungendo che a sua volta è costretto ad osservare certe regole. Insomma, giudici e scorte hanno le mani legate. Ma intanto Mokbel il 28 marzo scorso non ha potuto essere presente in Tribunale, dopo essere stato giudicato “non trasportabile” dalla direzione sanitaria del carcere, causa pressione bassissima e svenimenti. Vorrei dirlo senza mezzi termini: non sta a me dire se Mokbel verrà condannato e se la pena sarà severa, ma ora deve avere il diritto di potersi difendere in piena dignità e in piena salute fisica e mentale. È inutile continuare a ripetere che siamo un paese democratico e avanzato se poi si viola la dignità delle persone che si devono difendere nei processi.


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“Questo Blog è dedicato alla figura di Silvio Scaglia, imprenditore ed innovatore, protagonista di start up (Omnitel, Fastweb, Babelgum) oggi impegnato in nuove sfide come il rilancio de La Perla, marchio storico del made in Italy. E' un luogo di informazione e di dibattito per tutti gli stakeholders (dipendenti, collaboratori, clienti) ma anche comuni cittadini che hanno seguito le vicende in cui Scaglia, innocente, si è trovato coinvolto fino alla piena assoluzione da parte della giustizia italiana.” - Stefania Valenti, Chief Executive Officer Elite World