Fattore Umano | Capodanno a Rebibbia


Roberto Giachetti, deputato PD, racconta la notte del 31 dicembre nel carcere di Rebibbia con Marco Pannella, tra 1735 detenuti (il doppio dei posti disponibili). Perché «nessuno si senta escluso»



È l’una e cinquanta circa, Fabrizio coriaceo agente del G8 di Rebibbia si toglie il gusto di una domanda che, si vede, ha sulla punta della lingua da quando Pannella è entrato per visitare il suo reparto: «Scusi onorevole ma a lei ad 82 anni con tutto quello che ha fatto chi glielo fa fare di stare qui a quest’ora il giorno di Capodanno?». Eggià è la domanda che si legge sul voto di tutti coloro che assistono ai suoi sopralluoghi come “consulente” (il paradosso è che lui che conosce tutte le carceri d’Italia, che ha passato una parte della sua vita lì dentro, come ospite e come ‘ispettore, ma sempre per scelta, non essendo più “onorevole” può entrare solo come assistente di un parlamentare), nei penitenziari italiani.



La risposta sarebbe semplicissima se fosse possibile mostrare cosa accade nella “comunità” quando Marco vi entra, se fosse possibile far ascoltare il concerto poliglotta di parole di Amicizia che si leva non solo quando compare ma anche semplicemente quando dall’ultima cella del lungo corridoio viene percepito il timbro indistinguibile della sua voce e che lui alza ad arte per far si che «nessuno si senta escluso». Occorrerebbe poter vedere il linguaggio del suo corpo quando incontra i figli della Comunità, la sua Comunità.


Persino gli agenti accolgono con un filo di sorpresa ma con sincera gratitudine i suoi abbracci, le sue carezze, i suoi baci e vi corrispondono con fierezza, senza un briciolo di imbarazzo. Simile, ma al tempo stesso molto diverso, quello che accade con i detenuti. E non importa se rinchiusi in cella, o liberi di girare nei reparti. La scena è sempre la stessa: è uno di loro. Un amico, un fratello, un padre, un’icona, un simbolo, una realtà, una certezza, una speranza. E per lui, che per scelta, per necessità, per sventura (nessuno lo saprà mai davvero) non ne ha mai avuti, quelli sono i suoi figli. E li tratta proprio così: li abbraccia, li bacia, li carezza, li prende in giro, li rimprovera, li incalza, li rinfranca, li istiga alla lotta nonviolenta. In qualunque momento del giorno o della notte, quando entri in qualsiasi padiglione, non appena si sparge o si sente la sua voce la comunità si sveglia, si eccita, si agita, prende vita. Braccia che escono dalle sbarre per il bisogno di un contatto fisico che non è solo un saluto, è un di più di umanità, è il primo linguaggio universale per bianchi, neri, gialli, giovani, vecchi, delinquenti incalliti, innocenti sicuri (per quando un giudizio dopo anni gli riconoscerà questa verità). Lingue, dialetti, semplicemente voci di ogni parte del mondo intonano, implorano, invocano, ordinano tre sole parole «Marco vieni qui». Pochi si sorprendono piacevolmente per poter vedere e parlare direttamente con quella voce che conoscono solo attraverso le frequenze di Radio Carcere, la stragrande maggioranza, italiani, somali, spagnoli, boliviani, albanesi, rumeni, kossovari, jugoslavi, cinesi, marocchini, messicani, peruviani, lo conoscono, l’hanno gi visto più volte, magari quando erano in qualche altro carcere, lo salutano come si fa con un amico che stavamo aspettando, che sapevamo dovesse arrivare. Nessuna sorpresa. Una sola condivisa consapevolezza: «sei l’unico che si ricorda di noi, che fa qualcosa per noi, che non si vergogna di noi». Ed è proprio così. Lui è uno di loro. Sembra ormai avere assorbito nel corpo, nel tempo, quella condizione che gli consente di interagire con i loro problemi, con le loro speranze o disperazioni, con le loro attese o frustrazioni, come se fosse un vecchio ergastolano uscito dopo decenni per anzianità ma che sa che la sua vita è con quella gente.


Sono le 20.25 davanti al cancello di entrata a Rebibbia c’è ad accoglierci il dirigente del corpo Luigi Giannelli. Un uomo semplice, che ha iniziato questo mestiere tanti anni fa (30 se non erro) e che comanda in questa notte gli agenti dislocati nei vari reparti. Doveva staccare alle 24.00, è rimasto con noi fino alla fine, fino a che non è arrivato il taxi di Marco, fino alle 3. E alle 7.30 riattaccava: «lo faccio perché è un piacere», così motiva la sua “trasgressione” anche verso la famiglia che lo attendeva per salutare il nuovo anno. Un primo dato: nel complesso di Rebibbia sono reclusi 1735 detenuti, il doppio dei posti disponibili, vi lavorano circa 500 agenti, la metà di quanti previsti in pianta organica. Per spiegare i lavoro di queste persone basta utilizzare la parola di uno dei detenuti nei confronti del corpo degli agenti “eroi” e non è il giudizio di un singolo. È un coro unanime; è incredibile come i primi a riconoscere la straordinarietà e responsabilità di questi servitori dello Stato siano proprio i detenuti. Giannelli ci porta nella sala della mensa (per una precaria della ditta di appalto per la mensa in pochi minuti si chiude il mondo degli occupati e si schiude quello dei disoccupati: licenziata). Qui ascoltiamo il discorso di Napolitano, parliamo con gli agenti presenti non solo delle condizioni del carcere ma anche della crisi che sta attraversando il Paese, salutiamo il personale e partiamo per la nostra visita. Prima tappa il G12 (reparto alta sicurezza), i detenuti con maggiori problemi giudiziari sono disposti uno per cella, molti sono impegnati in attività di vario tipo a livello culturale, punta di diamante il teatro ed hanno formato una vera compagnia teatrale chiamata simpaticamente Liberi Artisti associati, ma c’è anche chi, nonostante le difficoltà burocratiche studia e da esami per raggiungere una laurea in economia, come il boliviano Edgar Malver, si laureerà presto a Tor Vergata.


Nel corridoio affianco i detenuti con meno anni di detenzione sulle spalle vivono in 4 o 5 nelle celle e si dedicano ai lavori di diversa natura nei vari laboratori del carcere. Alle 10.45 siamo al G8 il reparto dove sono i detenuti comuni, molti i attesa di giudizio. Anche qui parliamo a lungo con il personale di polizia penitenziaria dal quale apprendiamo che anche a Rebibbia la percentuale di stranieri è elevatissima circa il 40% e che molto alta è anche la detenzione per reati legati alla tossicodipendenza. Insieme al costante apprezzamento per gli agenti di custodia raccogliamo lamentele diffuse per il peso della burocrazia che non di rado incide anche pesantemente sulla popolazione detenuta ed in particolare sui limiti e le carenze che si determinano dal lavoro dei magistrati di sorveglianza. Se nel G12 abbiamo ricevuto in dono dai detenuti cannoli siciliani, fette di panettone e di pandoro, al G8 Pannella ottiene in dono un preziosissimo “Antico Toscano” oltre a ripetute richieste di brindisi che, per non rifiutare, hanno rischiato di mettere a dura prova la nostra tenuta alcolica! In questo reparto che ospitò anche la detenzione di Franco Califano è recluso Totò Cuffaro a seguito della sentenza del Tribunale di Palermo. È cordiale e contento come tutti i detenuti della visita, parliamo un po’ di politica del passato: Parri, Dossetti, De Gasperi, Sturzo, Gobetti… ci annuncia l’imminenza dell’uscita del suo libro Il candore delle cornacchie di cui ci spiega anche la curiosa origine e ci parla del suo impatto con il carcere, dei suoi pregiudizi iniziali e della scoperta di una “Comunità” di grande valore. La parola “Comunità” torna sempre, è il concetto chiave per tutti coloro che hanno a che fare con il carcere ed ognuno se ne sente parte e cerca di fare qualcosa per renderla il più vivibile possibile.


Mentre proseguiamo nella visita per le celle del G8 si cominciano a sentire i primi botti… è mezzanotte fuori si scatenano i raptus pirotecnici, qui tra le sbarre di Rebibbia c’è compostezza; i cori e gli applausi nei confronti di Pannella sono gli unici rumori di un capodanno che diversamente non sarebbe stato diverso da tutti gli altri giorni. Mentre passiamo tra le celle del G8 provoco Pannella facendogli notare che tra i detenuti c’è un a netta prevalenza di tifosi della Roma nei confronti di quelli della Lazio. Lui ribadisce che da troppi anni non gli piace più il calcio e tra lo stupore e lo smarrimento di tutti noi recita uno per uno i nomi della formazione della Lazio del 1943. Ci guardiamo tutti un po’ spiazzati e dubbiosi ma con la consapevolezza che rimarrà tutto un mistero perché nessuno di noi sarà mai in grado di confermare o smentire!!!!!


Per andare al G13 si deve uscire da un edificio e attraversare un cortile sul quale affacciano altri padiglioni; fa un freddo becco e ad un certo punto si sente distintamente una voce: «Pannè viecce a trova pure a noi, semo der G9»! Sono le 00.21 e capisco che “la notte è ancora piccola per noi”. Se è vero come è vero che nelle facce di tutti noi, agenti e sottoscritto, si cominciano a percepire i segni della stanchezza, lui va avanti come un ragazzino che si è appena svegliato! Arriviamo al G13; è il braccio dei detenuti in 41bis (i più gravi reati associativi) e qui capisci che è davvero difficile marcare quale sia il confine tra la detenzione e la tortura. Lo so non è politicamente corretto dirlo. Parliamo di soggetti accusati o condannati di stragi e dei delitti più atroci, ma il regime al quale sono sottoposti è difficile non considerarlo uno strumento di tortura e per di più crescono i dubbi, anche tra il personale di custodia, sulla sua effettiva efficacia. Quando parliamo con questi detenuti si fa fatica anche ad ascoltarli hanno un filo di voce, li si vede attraverso uno spioncino rettangolare di pochi centimetri, sembra davvero inimmaginabile vederli come autori di tanta crudeltà… anche queste sono le contraddizioni che può vivere solo chi ha la “fortuna” di vedere il carcere.


È quasi l’una di nuovo sul cortile gelido prima di rientrare nella stanza degli agenti del G8, tappa forzata prima di varcare la soglia dell’ultimo padiglione di reclusi. Ma c’è una sorpresa: io l’ho chiamata la pausa “rancio”. Gli agenti ci hanno obbligato ad una pausa per bere un bicchiere con loro e mangiare la ciambella ciociara. Si comincia a parlare della “Comunità”, dei suoi problemi e dei suoi valori e poi di tutto: di Monti, dei banchieri, della meritocrazia, degli immigrati, dell’Europa e del Mondo. Alla fine di un duetto indescrivibile nella sua umanità tra Fabrizio (giovane agente, dal carattere bello tosto, non a caso abruzzese) e Pannella (che in quanto a carattere inutile parlarne, abruzzese – come noto – anche lui), guardo l’orologio e vedo che segna 1.55. E d’un tratto capisco che si è svolto un evento nell’evento: siamo riusciti a “sequestrare” per 30 minuti gli agenti nella loro casa!


Sono le due ed entriamo nell’ultimo Padiglione il G9 (quello dal quale ci aveva chiamato un detenuto mentre eravamo in cortile. È il padiglione dei Precauzionali, cioè quelli accusati o condannati per reati a sfondo sessuale, pedofilia o ex appartenenti alle forze dell’ordine). Il responsabile del padiglione alla domanda sulla situazione del momento risponde con un efficacissimo termine in uso tra gli agenti: «onorè qui so tutti accappottati», cioè stanno tutti dormendo! C’è chi può pensare che per Pannella la risposta sia sufficiente? Illuso. Comunque si procede. Perché? Qualcuno può domandarsi. Già ma perché mi domando. La risposta arriva a momenti. Non si può apprezzare se non acquisendola nelle sue due articolazioni: la parola e i gesti. Pannella passa cella per cella, aprendo gli spioncini e fissando il buio dentro le celle, aspetta qualche secondo se qualcuno manifesta qualcosa e poi, preso atto che riposano, richiude lo spioncino e si dirige verso la cella successiva.


È un comportamento che si ripete per ognuna delle decine di celle del reparto. Mi ha colpito moltissimo questo atteggiamento; sembrava letteralmente una mamma che controlla, attenta a non svegliarli, che i figli stiano dormendo, che vada tutto bene. Poi c’è la parola. La risposta che Pannella da all’agente di custodia per spiegargli perché nonostante siano tutti “accappottati” lui ci passa ugualmente: «sa non importa che dormano e che non mi vedano, l’importante è che domani anche loro che non mi hanno visto sappiano che sono passato anche da loro, che ci sono stato». Ecco si ritorniamo al concetto iniziale, forse esagero, ma la sensazione che io ricevo è che per lui questi sono proprio figli ai quali non risparmia l’umanità che si riversa nei confronti dei figli e non scappa da quella che questi producono in noi. Abbiamo finito, stiamo per uscire… Ma da una cella si sente una voce fioca, quasi accennata… Pannella si gira, va verso la cella, bisbiglia un po’ con il ragazzo. Torna verso di noi e dice «è sveglio solo perché ha una forte otite, ma poi mi ha detto che è anche sieropositivo». Abbiamo finito. Dai cancelli aperti con le grosse chiavi degli agenti a presidio dei reparti siamo passati al rumore classico dei cancelli elettronici che portano alla portineria. Riguadagnamo i telefonini, Pannella chiama un taxi «aho so Marco venite a prendermi a Rebibbia». Ci salutiamo, ci abbracciamo e ci baciamo con Giannelli e nei tre gesti non c’è nulla di formale.


Io mi avvio verso la moto. Sono le 3. Fa un freddo cane. E mentre cammino sul vialone mi volto in dietro e penso: «abbiamo rimboccato le coperte a tutti. Buon anno, ci sta proprio bene!».


Lascia un Commento

Newsletter
Iscriviti alla newsletter di silvioscaglia.it




ebook il caso scaglia

Perché un blog?

“Questo Blog è dedicato alla figura di Silvio Scaglia, imprenditore ed innovatore, protagonista di start up (Omnitel, Fastweb, Babelgum) oggi impegnato in nuove sfide come il rilancio de La Perla, marchio storico del made in Italy. E' un luogo di informazione e di dibattito per tutti gli stakeholders (dipendenti, collaboratori, clienti) ma anche comuni cittadini che hanno seguito le vicende in cui Scaglia, innocente, si è trovato coinvolto fino alla piena assoluzione da parte della giustizia italiana.” - Stefania Valenti, Chief Executive Officer Elite World