Archivio di febbraio 2012
Mazzitelli: cinque periti a suo tempo hanno assolto TIS
L’Ex AD di TIS: Anche i nuovi vertici di TI esclusero un possibile rischio fiscale. Giovedì in programma l’interrogatorio di Massimo Comito e Antonio Catanzariti
La Procura della Repubblica, al contrario di quanto chiesto nell’ultima seduta del processo, ha rinunciato ieri a proseguire l’interrogatorio di Stefano Mazzitelli, ex AD di Telecom Italia Sparkle. L’udienza del processo per l’”Iva Telefonica”, ripreso ieri presso la Prima Sezione penale del Tribunale di Roma presieduta da Giuseppe Mezzofiore, ha così registrato solo la prosecuzione del controinterrogatorio del Capitano dei ROS Francesco De Lellis.
Ma l’udienza è anche servita a fare il punto sulle attività che sia in Telecom Italia Sparkle che presso Telecom Italia sono scattate non appena è emerso il rischio di possibili profili di responsabilità fiscale per l’azienda dopo l’avvio delle indagini della Guardia di Finanza. Stefano Mazzitelli ha fatto presente che, oltre alle indagini ed ai controlli interni, l’azienda ha messo a disposizione il materiale a diverse strutture professionali esterne e alla società di revisione del gruppo Telecom (cui nel marzo 2008 è stato riconosciuto un supplemento rispetto al prezzo concordato per la revisione, vista la mole di lavoro supplementare), per verificare l’eventuale rischio di infrazione fiscale. Tutti i periti esterni hanno escluso il rischio che l’azienda potesse essere chiamata a rispondere per un’eventuale “frode fiscale”.
Lo stesso Mazzitelli ha rilevato che il nuovo vertice di Telecom Italia non ha ritenuto nel 2008 (bilancio 2007) di procedere ad accantonamenti o svalutazioni per l’eventuale rischio nonostante in quel periodo avesse proceduto a stanziare «maggiori fondi per rischi vari» nell’ordine di centinaia di milioni, come è consuetudine in occasione di cambi di gestione quando, ed era il caso di Telecom Italia, esistono riserve sufficienti. Anche questa, ha fatto notare l’ex AD di TIS, è una prova che il comportamento dell’azienda era stato considerato regolare, anche nel caso fosse emersa una frode Iva perpetrata da altri soggetti. Eppure, sulla base dello stesso materiale messo a disposizione dalla società ai cinque periti esterni, come ha confermato il Capitano della Guardia di Finanza Luca Meoli, le conclusioni della Procura sono state ben diverse (anche se ricordiamo nella CNR della GdF i dirigenti di TIS non sono stati considerati indagabili per il reato associativo, ndr).
Giovedì il processo continua con la testimonianza di due altri manager di Telecom Italia Sparkle, Massimo Comito ed Antonio Catanzariti. Lunedì, dopo l’ultima parte della testimonianza del capitano De Lellis, toccherà a Rosario e Maria Teresa La Torre, accusati di aver fatto da prestanome per immobili (anche un ristorante) che in realtà farebbero capo a Gennaro Mokbel.
“Iva Telefonica”: domani si riparte
Tribunale di Roma chiuso causa “maltempo”. Slitta a domani l’audizione dell’ex AD di Telecom Italia Sparkle Stefano Mazzitelli
Nella prima parte della sua testimonianza, l’ex AD di TIS ha avuto modo di ricostruire il quadro completo del business del traffico telefonico in ogni suo aspetto, compreso il capitolo dei controlli effettuati dall’interno e dalla casa madre da fiscalisti, Comitati di controllo, verifiche ai sensi della 231 e attività del Collegio sindacale.
L’audizione di Mazzitelli potrebbe concludersi domani in poche ore, come dimostra il fatto che il programma prevede anche la convocazione del Capitano Francesco De Lellis che dovrebbe completare in giornata la sua deposizione. Nel corso della seduta di domani sarà comunicato l’elenco dei prossimi testimoni chiamati a deporre nelle prossime udienze.
Fattore Umano | Chiusura Opg
On. Marino: «Le esigenze di tutela della collettività non possono mai giustificare misure tali da recare danno alla salute del malato, quindi la permanenza negli ospedali psichiatrici giudiziari che aggrava la salute psichica dell’infermo non può proseguire»
La chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari prevista dai nuovo decreto sulle carceri a marzo 2013 è stata giudicata «avventata e irresponsabile da alcuni» e da altri «il frutto acerbo di un mancato confronto con gli esperti del mondo psichiatrico e giudiziario». Commenta così l’On. Ignazio Marino sulle pagine de l’Espresso il recente voto del Senato.
Se la Camera confermerà la proposta di riforma approvata da Palazzo Madama cosa accadrà da qui al 31 marzo 2013? Per il Presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale «gli ospedali psichiatrici giudiziari diverranno ciò che non sono mai stati: veri luoghi di cura. Nuove e diverse strutture al posto delle vecchie, degradate e fatiscenti, che saranno definitivamente chiuse». Negli attuali Opg, secondo i dati della commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio sanitario ripresi da l’Espresso, ci sono circa 1.400 persone di cui più di 900 riconosciute ancora pericolose per sé e per gli altri (saranno loro ad essere trasferite nelle nuove strutture) e 500 circa ritenute «non più socialmente pericolose», pazienti che dovevano per legge già uscire dal circuito degli Opg ma che per mancanza di fondi e varie proroghe hanno visto trasformare il loro diritto in un «ergastolo bianco»). Per loro è previsto il riaffido alle Asl: saranno dimesse e assistite sul territorio dai dipartimenti di salute mentale.
«Al posto degli Opg – spiega il Senatore – sorgeranno piccole strutture da 30 o 40 posti letto, dotate di tutta l’attrezzatura necessaria per l’assistenza ai pazienti, con infermieri, medici, psichiatri ed esperti di riabilitazione che possano finalmente fare il loro mestiere: curare la mente e il corpo. Non è stata sottovalutata, tuttavia, la necessità dì garantire la sicurezza, per cui all’esterno dei centri di cura la sorveglianza sarà assicurata dalla polizia penitenziaria». Tutto ciò sarà realizzabile? «Certamente – risponde il Prof. Giuseppe Armocida, noto specialista psichiatrico-forense –. Come da tempo gli specialisti del settore stanno suggerendo, attraverso istituti che abbiano caratteristiche di efficacia in chiave terapeutica e riabilitativa garantendo comunque i migliori criteri operativi con soggetti per i quali è stata riconosciuta una pericolosità sociale». «Bisogna operare per la difesa sociale – dice – senza applicare le crudeltà di reclusione in istituti nei quali veramente il momento terapeutico e riabilitativo non si scorge, a fronte della dominante condizione carceraria».
Fattore Umano | Tanti detenuti, poco lavoro
In un Dossier di Ristretti le statistiche e proposte di legge in materia di «lavoro penitenziario», dove emerge che le risorse sono scarse, e il diritto-dovere di lavorare per chi è condannato non viene rispettato
«Il lavoro è obbligatorio per i condannati e per i sottoposti alle misure di sicurezza (…)» (art. 20, c. 3, O.P., Legge n° 354 del 1975). L’obbligatorietà del lavoro dei detenuti, elemento cardine del trattamento penitenziario e «strumento privilegiato» diretto a rieducare il detenuto e a reinserirlo nella società, rischia di venire meno.
La causa? La carenza di risorse economiche. Negli ultimi 5 anni, infatti, i fondi messi a disposizione per retribuire i detenuti-lavoratori sono diminuiti del 30,5%. I dati forniti dal DAP parlano chiaro: dai 71.400.000 euro del 2006 ai 49.664.000 euro del 2011. Una diminuzione di risorse che ha portato inevitabilmente alla contrazione della popolazione carceraria lavorante, con la conseguente rinuncia da parte dei detenuti al loro diritto-dovere di lavorare. Lo scorso anno gli “occupati” alle dipendenze di cooperative o imprese esterne rappresentavano solo il 20,4% della popolazione detenuta. E ciò, nonostante le agevolazioni contributive e fiscali per chi assume detenuti introdotte nel 2000 dalla Legge 193, la cosiddetta «Smuraglia» e malgrado la concessione di numerose commesse per la realizzazione di elementi di arredo delle nuove strutture previste dal «Piano Carceri». Insomma, gli sforzi e gli incentivi non sono bastati.
Ma andiamo oltre. Il nostro Ordinamento Penitenziario recita: «Il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato», in accordo con quanto detta l’art. 27 della Costituzione sulla finalità rieducativa della pena. Ed è così. In effetti il lavoro alle dipendenze del DAP viene retribuito avendo come riferimento economico i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro di vari settori, in misura non inferiore ai 2/3 del trattamento previsto nei contratti stessi, così come indicato nell’art. 22 dell’Ordinamento penitenziario. Tuttavia – si legge nel Dossier di Ristretti – «l’adeguamento ai CCNL non è stato più effettuato dal 1994». Sempre per carenza di risorse economiche. «Nel 2006 – si legge – un’apposita Commissione stimava la necessità di una integrazione sui corrispondenti capitoli di bilancio per il solo anno preso in esame di circa 27.345.000 euro. Il mancato adeguamento ai CCNL vigenti ha dato vita ad un contenzioso, in cui l’Amministrazione Penitenziaria è costantemente soccombente, con ulteriori costi a carico della finanza pubblica». Costi che potrebbero essere evitati a favore di un aumento del budget disponibile per aumentare le retribuzioni dei detenuti-lavoratori che da 18 anni sono ferme. E bassissime: un detenuto che presta servizio “domestico” in carcere percepisce mediamente 2.843 euro lordi l’anno (cifra che si dimezza al netto degli oneri previdenziali e del rimborso delle spese di mantenimento in carcere concernenti gli alimenti e il corredo).
Il budget insufficiente assegnato per la remunerazione dei detenuti lavoranti all’interno degli istituti, unito all’incessante sovraffollamento carcerario, ha avuto una ricaduta diretta sulla qualità di vita intramuraria: le attività di manutenzione ordinaria dei fabbricati, i servizi di pulizia e di cucina sono stati tagliati non assicurando più il mantenimento delle condizioni di igiene e di pulizia delle aree detentive. Attività che rappresentano anche la principale fonte di sostentamento per molti detenuti.
Un segnale positivo però c’è stato: l’incremento del numero dei condannati assunti da imprese e cooperative all’interno delle carceri, ammessi al lavoro esterno e semiliberi: dai 2.058 del giugno 2010 ai 2.257 del giugno 2011. Questo dato, però – si legge nella relazione del DAP – tenderà inevitabilmente a contrarsi a causa della riduzione delle risorse economiche.