Fattore Umano | Un docu-film per “parlare di carcere”
L’obiettivo è «offrire una seconda possibilità e dare dignità a chi ha commesso un reato», spiega la regista Laura Fazzini. Che chiede anche un piccolo contributo economico. Con un clic
Spesso le idee più belle nascono facendo una domanda alla persona giusta. Siamo a fine 2010, alla presentazione milanese del libro scritto da Ilaria Cucchi per denunciare la tragica vicenda di suo fratello Stefano. Durante il dibattito con il pubblico una giovane regista e fotografa chiede cosa potesse fare la società per arginare violenze simili. La risposta fu «parlare di carcere». Laura Fazzini accoglie subito l’invito e, pochi mesi dopo, decide di cercare di raccontare le nostre “galere”. Inizia così il suo viaggio in compagnia di due colleghi di Torino (Elia Agosti, montatore e Luca Gaddini, videomaker).
Il punto di partenza è un articolo della Costituzione, il 27, che fissa tra i vari commi il principio di “umanizzazione della pena” e rieducazione del condannato. Quello di arrivo, la cella. Per verificare con la videocamera se e come quei principi costituzionali sono realmente messi in durante il percorso penale. Laura ha così diretto la registrazione delle testimonianze dei detenuti, degli agenti di polizia penitenziaria, dei direttori e dei volontari per realizzare un docu-film che vuole smuovere le coscienze e portare a riflessioni profonde.
Cosa comporta vivere giorni tutti uguali trascorsi in una cella sovraffollata e senza sfoghi? Il carcere è una zona franca della città dove rinchiudere il male? Il percorso rieducativo favorisce realmente il reinserimento del detenuto?
Un anno di ricerche e di attesa prima di partire. Poi la scelta delle carceri che – come spiega Laura – non è stata casuale: quello di Bollate perché «è stato costruito in base al dettato costituzionale», la Giudecca perché ospita donne madri con figli, Rebibbia perché ha un reparto per tossicodipendenti e sieropositivi, e l’Ucciardone perché «doveva chiudere per carenza di organico e mancata ristrutturazione ma rimane aperto per necessità».
Le difficoltà si sono subito presentate e sono state molteplici. Primo tra tutti «il peso psicologico di entrare negli istituti, senza strumenti per delimitare lo shock», racconta Laura. E le lungaggini burocratiche non hanno certo aiutato: «ci hanno fatto aspettare 8 mesi per avere le autorizzazioni per riprendere all’interno delle carceri», ricorda. Otto mesi che hanno contratto il tempo a disposizione per scegliere le persone da intervistare e conoscere a fondo le difficili condizioni detentive.
Ma nonostante tutto il risultato è arrivato. 50 persone intervistate tra cui 28 detenuti. Un contributo importantissimo che dà a tutti noi la possibilità di prendere coscienza delle numerose carenze di diritti garantiti. Come quello delle attività trattamentali (un investimento di 20 centesimi al giorno a detenuto, ndr). «A Rebibbia Nuovo Complesso – spiega Laura – su 1800 uomini solo 300 lavorano e di questi pochissimi sono assunti da cooperative esterne». Per non parlare dei corsi scolastici «obbligatori, voluti dallo Stato, ma spesso sono solo elementari e superiori». Un grande spreco in termini di efficacia rieducativa della detenzione perché – come ricorda Laura – «i detenuti che lavorano si sentono fortunati, credono che il lavoro sia una fortuna e non un diritto». Il documentario (trailer) mette in luce i motivi di questo “malfunzionamento” anche tramite la voce di direttori e responsabili delle aree trattamentali che denunciano due grandi mancanze: la parte economica, che costringe a chiudere i rapporti con le cooperative (nel 2012 non sono stati stanziati soldi per la legge Smuraglia, ndr.) e la parte relazionale con l’esterno, che sempre con più fatica riesce ad entrare dentro le mura. «In più – sottolinea Laura – c’è una differenza abissale tra nord e sud, tra Bollate che ospita cooperative aiutate dalla legge regionale e l’Ucciardone, che non ha ancora la presenza stabile dell’Asl, benché la riforma del 2008 metta come obbligo il presidio sanitario negli istituti».
“Art. 27”, nel ricordare l’omonimo dettato costituzionale, ha due scopi: didattico e informativo. «Vogliamo portarlo nelle scuole e nelle carceri – spiega Laura – per parlare di cosa siano i diritti e doveri dei detenuti». Per «dare alla società che si sta formando un’idea di cosa dovrebbero essere le carceri e di quello che sono in realtà». E far capire che la volontà del legislatore nel 1946 fu di «dare una seconda possibilità, dare dignità a chi ha commesso un reato».
Ambizioni alte che fanno perno sulla sensibilità della gente. A partire dalla raccolta dei fondi necessari per produrre il docu-film. A inizio marzo, infatti, gli ideatori hanno incluso il loro progetto nella piattaforma di Eppela.com, un sito italiano di crowdfunding. «Pensavamo che, con una buona pubblicità tra amici e interessati al tema, si potesse raggiungere con una certa facilità la somma stabilita», spiega la regista. Purtroppo, nonostante gli sforzi e il costante supporto dell’Associazione Antigone, che ha seguito anche le numerose trasferte promozionali in giro per l’Italia, la raccolta fondi non raggiunge la metà della cifra necessaria per la distribuzione del documentario. L’obiettivo è di 3mila euro. Il 5 giugno scade la possibilità di partecipare al finanziamento del progetto. L’appello, dunque, è ancora aperto: «Noi vorremmo solo che i cittadini dessero un contributo, qualora interessati, per costruire un progetto comune su una parte della Costituzione, su una parte della società». Chi volesse far parte della squadra di Art. 27 con un contributo (la cifra minima è di 5 euro) può accedere alla pagina della donazione su Eppela.
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