Archivio di giugno 2012
Fattore Umano | Nessun detenuto resta VIP
Il nuovo libro di Melania Rizzoli con le testimonianze dei reclusi famosi. «Per attirare quante più persone a interessarsi dei problemi carcerari»
«Non è facile scrivere un libro sulle carceri e trovare un editore». È una delle prime considerazioni che si possono ascoltare da Melania Rizzoli, medico, parlamentare del Pdl, moglie di Angelo Rizzoli, autrice di Detenuti (Sperling & Kupfer), un viaggio di “incontri e parole” tra gli istituti di pena italiani. Melania Rizzoli però questo libro è riuscita a scriverlo, e a pubblicarlo, girando in lungo e in largo le carceri la Penisola per raccogliere le storie e alle testimonianze dirette di detenuti (o ex detenuti) “eccellenti”, persone quindi dai nomi noti al grande pubblico.
Storie di galera – si può dire – perché Melania Rizzoli non si pone la domanda se si tratti di persone innocenti o colpevoli. Questo perché, per scelta, il risvolto prettamente giudiziario non fa parte del libro. L’obiettivo non è quello di ribaltare verdetti emessi in aule di Tribunali. Il suo scopo è diverso: è di richiamarci comunque «all’umanità dei detenuti», innocenti o colpevoli che siano o che si dichiarino tali, descrivendo il loro vissuto di persone ristrette, e di scandagliare quel misto di «rabbia, ostilità e disperazione che nelle carceri italiane è sempre nell’aria». Una scelta, quella di intervistare solo VIP, per attirare – come ha dichiarato la stessa Rizzoli: «quante più persone a interessarsi dei problemi carcerari».
Un libro di emozioni, dunque, anche difficili da digerire. Come quando si legge del boss dei boss, Bernardo Provenzano, capo di Cosa Nostra dopo l’arresto di Totò Riina, mandante di centinaia di assassini, oggi vecchio e malato di un tumore in fase avanzata, tuttora in regime di 41 bis, che dice a Melania Rizzoli che la cosa che più gli manca è l’«aria». È lì che viene subito voglia di schierarsi con chi il male dei boss alla Provenzano l’ha subito, e a cui l’aria è stata tolta per sempre, magari con una pallottola o una bomba. Melania Rizzoli lo sa ed è consapevole dello sguardo delle vittime, rispetta quello sguardo, ma aggiunge: «ho cercato di descrivere persone». Ed è questo l’aspetto migliore del libro, quello di evitare di schierarsi sul piano della giustizia, facendoci capire che un conto sono le sentenze, altra cosa è il mondo sommerso nelle carceri, dove la vita reale troppo spesso scorre al di fuori di quella che chiamiamo umanità o, con falsa coscienza, «pena emendativa».
Sfilano così sotto gli occhi dei lettori alcuni volti noti della politica, ex leader finiti nella polvere, come Ottaviano del Turco o Salvatore “Toto” Cuffaro, oppure i nomi di imprenditori di successo, come Francesco Bellavista Caltagirone, rinchiuso lo scorso marzo con l’accusa di «truffa allo Stato», che si chiede perché per lui, ultrasettantenne, non possano valere i paletti previsti dalla legge sulla «custodia cautelare». E ancora, personaggi dello spettacolo e dello star system, da Franco Califano che spiega come la sua salvezza in galera sia stata quella di crescere fin da bambino in un quartiere coatto, al pianto irrefrenabile di Lele Mora, agli autori di delitti di cronaca nera come Michele e Sabrina Misseri, agli ex terroristi, dalla “nera” Francesca Mambro al “rosso” Sergio d’Elia, fino al controverso caso di Adriano Sofri.
Scrive nella prefazione Luigi Manconi, «La verità del libro è che attraverso le sofferenze di uomini illustri o ex tali, si arriva a conoscere la realtà carceraria». Una realtà dove, accanto ai nomi eccellenti, grava un’umanità di quasi 67mila persone, a fronte di 45mila posti disponibili.
Numeri che conviene ripassare: dei 67mila ristretti, non meno del 30% sono tossicomani (oltre 20mila), il 34% sono stranieri (circa 25mila), il 16% appartiene alla criminalità grande o media (poco più di 10mila), il resto sono “scarti sociali”, gente senza dimora, infermi di mente, alcolisti, persone ai margini del sistema, che entrano ed escono dagli istituti di pena anche per la diminuita capacità del Welfare di fare fronte al disagio sociale.
C’è poi un altro dato. Circa il 40%, pari a 26-27mila detenuti, sono detenuti in attesa di giudizio. Ma soprattutto, circa la metà di costoro viene poi assolta. Il conto è presto fatto: le patrie galere, statisticamente parlando, sono in ogni momento affollate da un esercito di 13mila innocenti.
Melania Rizzoli accenna a questi dati, ma si sofferma soprattutto sulle persone. Ne escono quadri dolenti, sofferenti, di persone attaccate ai pochi spazi della vita carceraria, agli affetti famigliari, stordite dall’attesa dei tempi giudiziari. «I detenuti che hanno commesso errori – scrive perciò Melania Rizzoli – convivono con una pena profonda e costante, un tarlo che li rode, una malattia che non li uccide, ma li fa ammalare dentro». E ancora: «ho tentato di denunciare come spesso venga calpestata la dignità dell’uomo e come l’umiliazione della detenzione annulli anche le personalità più forti».
Ne emergono continue piccole confessioni: da Salvatore Cuffaro che dice «finalmente sono ultimo, non più primo», a Bernardo Provenzano che biascica in stretto dialetto «il male è dentro il mondo», a Lele Mora che osserva sconsolato come i tantissimi amici siano «tutti spariti». Alla fine ci si accorge che non esiste il “Carcere dei Famosi”, ma solo il carcere e basta. Perché il carcere, anche per i Famosi, trascolora la vita, fa da cesura, tra un prima e un poi che non s’incontrano.
«Nessun ruolo attivo nelle operazioni tlc»
Così Gennaro Mokbel in aula al PM Bombardieri. «Mi sono limitato – ha aggiunto – a far incontrare Murri e Arigoni con Focarelli»
Nessun ruolo attivo nelle operazioni Phuncard e Traffico Telefonico, se non quello di avere messo in contatto Augusto Murri (ex Broker Management) e Fabio Arigoni (ex Telefox e Telefox International) con Carlo Focarelli (ex CMC).
È quanto dichiarato ieri in aula da Gennaro Mokbel, considerato dagli inquirenti al vertice dell’associazione a delinquere, interrogato dal PM Giovanni Bombardieri nel corso del processo per l’Iva Telefonica che si svolge presso la Prima Sezione penale del Tribunale di Roma, presieduta da Giuseppe Mezzofiore.
In particolare, Mokbel ha sostenuto di essersi limitato a far incontrare i tre protagonisti della vicenda, avendo saputo che avevano progetti imprenditoriali da sviluppare. Salvo poi disinteressarsene e intervenire solamente nel ruolo di “paciere” in presenza di tensioni interpersonali fra gli stessi Murri, Arigoni e Focarelli.
In sostanza Mokbel ha negato di aver mai partecipato attivamente alle varie operazioni Phuncard e Traffico Telefonico, di cui – ha aggiunto – «tecnicamente non sapevo nulla».
Sempre rispondendo alle domande del PM, in un passaggio Mokbel ha aggiunto di aver a un certo punto sospettato «qualcosa che non andava», poiché al termine dell’operazione Phuncard (inizio 2004, ndr.) sia Murri che Arigoni cominciarono a fare una vita dispendiosa, comprando auto e barche di lusso. A un certo punto – ha detto ancora Mokbel – ne ho anche chiesto conto, ma ricevendone solo risposte evasive.
Poco prima del termine dell’udienza il PM Bombardieri ha iniziato a rivolgere a Mokbel domande relative a conversazioni intercettate nelle quali si parlava di indagini in corso. E proprio su questi temi dovrebbe riprendere la prossima udienza fissata per il 14 giugno.
All’esame e controesame di Mokbel verranno anche dedicate le udienze del 25 giugno e del 3 luglio, mentre per il 26 e 28 giugno il calendario rimarrà invariato con in aula alcuni testi a difesa, come già previsto.
«A investitori ed analisti interessava solo il core business»
Gli investors relator di Fastweb: mai una domanda sulle attività no core. E il partner fondatore Gramatica conferma: «Scaglia si occupava delle strategie, non della gestione ordinaria. Ai partner meeting sarà venuto una volta o due»
L’attenzione degli investitori e degli analisti finanziari si è sempre concentrata, nel corso degli anni, sull’andamento e sulle prospettive del “core business” di Fastweb, ovvero le attività tipiche della società tlc, le uniche da cui poter trarre previsioni affidabili sul futuro. Al contrario, la comunità finanziaria non ha mai prestato interesse per le attività “no core”, quali quelle oggetto dell’inchiesta sull’“Iva telefonica”. È questo, in sintesi, il senso della testimonianza di Paolo Lesbo ed Alessandro Petazzi, i due investors relator che, in epoche diverse, hanno accompagnato l’ingegner Silvio Scaglia negli incontri con investitori ed analisti, interessati ad un confronto diretto e periodico con il capo azienda. I due testimoni, comparsi ieri davanti alla Prima Sezione penale del Tribunale di Roma presieduta da Giuseppe Mezzofiore, hanno confermato l’importanza che Scaglia ha sempre attribuito al confronto costante con la comunità degli investitori e degli analisti, indispensabile catena di collegamento con il mercato. Nel corso di questi confronti, è stata la loro testimonianza, sono sempre stati esaminati con scrupolo i programmi di investimento e la loro redditività, oltre agli altri parametri fondamentali con valore predittivo. Al contrario delle voci più volatili, meno significative per l’attività di analisi e investimento. Agli occhi del mercato, dunque, i volumi legati al traffico telefonico o alle Phuncard interessavano poco. O forse per niente.
È stata poi la volta di un altro teste chiamato a deporre dalla difesa di Silvio Scaglia: Ruggero Gramatica, uno dei partner fondatori di Fastweb, già CIO di e.Biscom. Gramatica ha illustrato davanti al PM Francesca Passaniti come era organizzata in quegli anni la società. Il manager ha rilevato come l’impegno di Scaglia fosse concentrato sulle linee strategiche di sviluppo della società, mentre la gestione operativa era concentrata negli “operation committee” e nei “partner meeting” (a cui Scaglia ha partecipato solo in rare occasioni «forse una o due volte») cui in particolare spettava la verifica della rispondenza dei risultati al budget.
Con la testimonianza di Ruggero Gramatica si è conclusa una delle udienze più brevi del processo (circa 90 minuti). La prossima udienza, in programma per giovedì 7 giugno, vedrà protagonista Gennaro Mokbel.
Fattore Umano | Un docu-film per “parlare di carcere”
L’obiettivo è «offrire una seconda possibilità e dare dignità a chi ha commesso un reato», spiega la regista Laura Fazzini. Che chiede anche un piccolo contributo economico. Con un clic
Spesso le idee più belle nascono facendo una domanda alla persona giusta. Siamo a fine 2010, alla presentazione milanese del libro scritto da Ilaria Cucchi per denunciare la tragica vicenda di suo fratello Stefano. Durante il dibattito con il pubblico una giovane regista e fotografa chiede cosa potesse fare la società per arginare violenze simili. La risposta fu «parlare di carcere». Laura Fazzini accoglie subito l’invito e, pochi mesi dopo, decide di cercare di raccontare le nostre “galere”. Inizia così il suo viaggio in compagnia di due colleghi di Torino (Elia Agosti, montatore e Luca Gaddini, videomaker).
Il punto di partenza è un articolo della Costituzione, il 27, che fissa tra i vari commi il principio di “umanizzazione della pena” e rieducazione del condannato. Quello di arrivo, la cella. Per verificare con la videocamera se e come quei principi costituzionali sono realmente messi in durante il percorso penale. Laura ha così diretto la registrazione delle testimonianze dei detenuti, degli agenti di polizia penitenziaria, dei direttori e dei volontari per realizzare un docu-film che vuole smuovere le coscienze e portare a riflessioni profonde.
Cosa comporta vivere giorni tutti uguali trascorsi in una cella sovraffollata e senza sfoghi? Il carcere è una zona franca della città dove rinchiudere il male? Il percorso rieducativo favorisce realmente il reinserimento del detenuto?
Un anno di ricerche e di attesa prima di partire. Poi la scelta delle carceri che – come spiega Laura – non è stata casuale: quello di Bollate perché «è stato costruito in base al dettato costituzionale», la Giudecca perché ospita donne madri con figli, Rebibbia perché ha un reparto per tossicodipendenti e sieropositivi, e l’Ucciardone perché «doveva chiudere per carenza di organico e mancata ristrutturazione ma rimane aperto per necessità».
Le difficoltà si sono subito presentate e sono state molteplici. Primo tra tutti «il peso psicologico di entrare negli istituti, senza strumenti per delimitare lo shock», racconta Laura. E le lungaggini burocratiche non hanno certo aiutato: «ci hanno fatto aspettare 8 mesi per avere le autorizzazioni per riprendere all’interno delle carceri», ricorda. Otto mesi che hanno contratto il tempo a disposizione per scegliere le persone da intervistare e conoscere a fondo le difficili condizioni detentive.
Ma nonostante tutto il risultato è arrivato. 50 persone intervistate tra cui 28 detenuti. Un contributo importantissimo che dà a tutti noi la possibilità di prendere coscienza delle numerose carenze di diritti garantiti. Come quello delle attività trattamentali (un investimento di 20 centesimi al giorno a detenuto, ndr). «A Rebibbia Nuovo Complesso – spiega Laura – su 1800 uomini solo 300 lavorano e di questi pochissimi sono assunti da cooperative esterne». Per non parlare dei corsi scolastici «obbligatori, voluti dallo Stato, ma spesso sono solo elementari e superiori». Un grande spreco in termini di efficacia rieducativa della detenzione perché – come ricorda Laura – «i detenuti che lavorano si sentono fortunati, credono che il lavoro sia una fortuna e non un diritto». Il documentario (trailer) mette in luce i motivi di questo “malfunzionamento” anche tramite la voce di direttori e responsabili delle aree trattamentali che denunciano due grandi mancanze: la parte economica, che costringe a chiudere i rapporti con le cooperative (nel 2012 non sono stati stanziati soldi per la legge Smuraglia, ndr.) e la parte relazionale con l’esterno, che sempre con più fatica riesce ad entrare dentro le mura. «In più – sottolinea Laura – c’è una differenza abissale tra nord e sud, tra Bollate che ospita cooperative aiutate dalla legge regionale e l’Ucciardone, che non ha ancora la presenza stabile dell’Asl, benché la riforma del 2008 metta come obbligo il presidio sanitario negli istituti».
“Art. 27”, nel ricordare l’omonimo dettato costituzionale, ha due scopi: didattico e informativo. «Vogliamo portarlo nelle scuole e nelle carceri – spiega Laura – per parlare di cosa siano i diritti e doveri dei detenuti». Per «dare alla società che si sta formando un’idea di cosa dovrebbero essere le carceri e di quello che sono in realtà». E far capire che la volontà del legislatore nel 1946 fu di «dare una seconda possibilità, dare dignità a chi ha commesso un reato».
Ambizioni alte che fanno perno sulla sensibilità della gente. A partire dalla raccolta dei fondi necessari per produrre il docu-film. A inizio marzo, infatti, gli ideatori hanno incluso il loro progetto nella piattaforma di Eppela.com, un sito italiano di crowdfunding. «Pensavamo che, con una buona pubblicità tra amici e interessati al tema, si potesse raggiungere con una certa facilità la somma stabilita», spiega la regista. Purtroppo, nonostante gli sforzi e il costante supporto dell’Associazione Antigone, che ha seguito anche le numerose trasferte promozionali in giro per l’Italia, la raccolta fondi non raggiunge la metà della cifra necessaria per la distribuzione del documentario. L’obiettivo è di 3mila euro. Il 5 giugno scade la possibilità di partecipare al finanziamento del progetto. L’appello, dunque, è ancora aperto: «Noi vorremmo solo che i cittadini dessero un contributo, qualora interessati, per costruire un progetto comune su una parte della Costituzione, su una parte della società». Chi volesse far parte della squadra di Art. 27 con un contributo (la cifra minima è di 5 euro) può accedere alla pagina della donazione su Eppela.