Archivio di luglio 2012
Fattore Umano | «Il sovraffollamento tortura inaccettabile»
Su Tempi l’intervista di Ubaldo Casotto all’avvocato Carlo Federico Grosso: «Stipare 22mila persone in prigione oltre le 45mila di capienza regolamentare è una barbarie». Il legale, già vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura spiega perché ha firmato l’appello a Napolitano del professor Pugiotto
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Professore, lei ha sottoscritto una lettera aperta al presidente della Repubblica che chiede il suo intervento con un messaggio alle Camere per la drammatica situazione delle carceri italiane dove sono stipati quasi 67mila reclusi…
Ventimila in più rispetto al dovuto. Cifra sulla quale il ministero ha operato una singolare distinzione tra “capienza regolamentare”, per cui parla di 22mila persone di troppo, e “capienza tollerabile”, che non sarebbe stata ancora raggiunta, ci sarebbe posto per altri 2mila detenuti. E francamente è questa distinzione a essere intollerabile. La capienza regolamentare è la capienza che un carcere può sopportare in maniera civile, 22mila persone oltre questa soglia costituiscono una stortura inaccettabile, perché stipare in carcere un numero così elevato di persone che non ci possono stare evidentemente è già di per sé una forma di quasi tortura.
Il 40% dei detenuti, oltre 26mila persone, è in carcere in attesa di una condanna definitiva, il 20% di chi è dietro le sbarre non ha ancora avuto neanche un processo di primo grado, si tratta di circa 13mila persone. Non pensa che si potrebbe intervenire almeno su questi?
Io credo che effettivamente un intervento su questa tipologia di detenuti potrebbe decongestionare in parte le carceri. Ma c’è un problema: è difficile in astratto e a priori trovare e imporre dei limiti alla custodia cautelare, perché questo istituto è un po’ legato alle vicende concrete della criminalità in Italia. Si possono fare dei calcoli di massima, però non è certo a mio avviso questa la via maestra per risolvere il problema. Anche perché ho l’impressione che cambiare le regole della custodia cautelare sia difficile è complesso e non credo che il nostro Parlamento troverebbe agevolmente un punto di accordo politico su questo profilo.
Forse è un problema di prassi nell’applicazione concreta delle regole esistenti. Si potrebbe partire da qui?
Sì, questo è possibile. Ma io credo che sia molto difficile, da un lato, verificare nella sostanza i contenuti di questa prassi e, in secondo luogo, più difficile ancora cambiare la prassi se non si modifica la disciplina. Sostanzialmente ogni vicenda giudiziaria è affidata a un pubblico ministero e a un gip: il pm chiede la custodia cautelare e il gip la concede o la rifiuta. Dopo di che ogni pm è assolutamente indipendente e a maggior ragione anche ogni gip, che non può in nessun modo essere condizionato dall’esterno da un qualche livello superiore: modificare la prassi implica cambiare la mentalità dei magistrati, ma questo è un processo lungo, ci vogliono anni, e non è un modo per risolvere “oggi” il problema drammatico delle carceri.
Non crede che la custodia cautelare sia troppe volte usata per fini non propri?
Per ottenere confessioni o dichiarazioni utili all’accusa? Non sono in grado di rispondere in modo assoluto. In base alla mia esperienza posso dire che qualche volta l’impressione che l’istituto fosse usato in maniera assolutamente disinvolta c’era, altre volte era usato in maniera assolutamente corretta, anche visto dalla parte di noi avvocati. È difficile riuscire a quantificare. Ripeto, altro è modificare le regole a cui i magistrati devono attenersi, altro è sperare in improbabili cambiamenti della prassi. Non escludo che questo possa avvenire, ma non in tempi rapidi, mentre la situazione attuale esigerebbe un intervento in grado di liberare un numero di posti – carcere molto elevato con un provvedimento di rapidissima applicazione. Ecco perché io credo che l’amnistia e l’indulto siano molto probabilmente l’unico modo concreto e praticabile in questo momento per risolvere, almeno temporaneamente, il problema. Dico temporaneamente anche perché, se si utilizzasse questi due strumenti, è chiaro che dovrebbero essere subito accompagnati da riforme strutturali, in modo da evitare che l’affollamento si ripeta, perché storicamente è sempre successo così: dopo due anni si tornava ai numeri precedenti. Amnistia e indulto non sono la soluzione, sono un provvedimento tampone per uscire dalla situazione drammatica attuale. Poi bisogna pensare in grande, fare una riforma di struttura, altrimenti non si risolvono i problemi.
Per i difensori dell’amnistia non è vero che le carceri si riaffollano perché chi è uscito torna subito a delinquere…
In questo hanno ragione, chi riempie le carceri molte volte non è recidivo, non ha cioè goduto dei provvedimenti di clemenza. Ma questo rende ancora più evidente la necessità di intervenire con riforme di struttura. Bisogna che il Parlamento si decida ad affrontare il problema con una serie di interventi coordinati tra loro in modo da incidere sui diversi aspetti che possono influire sulla popolazione carceraria: ulteriori depenalizzazioni, ampliamento delle forme di esecuzione fuori dal carcere… Non posso certo essere qui esaustivo, ma da anni noi penalisti stiamo ragionando su questi temi e abbiamo un quadro articolato dei possibili modi di intervenire.
Nell’appello al presidente della Repubblica si denuncia anche la “non ragionevole” durata dei processi. Pensa che anche qui si possa intervenire d’urgenza?
La durata irragionevole dei processi è un dato di fatto assolutamente inequivocabile del nostro paese. I livelli di intervento possibile sono numerosi. Innanzitutto bisogna agire su norme di diritto penale sostanziale, cioè riducendo il numero dei reati, liberando così la magistratura penale ordinaria di una parte considerevole di processi per fatti minimali che fanno perdere tempo, e, in secondo luogo, attraverso una più razionale organizzazione del personale giudiziario. Io ho l’impressione che l’organizzazione dei processi non sia sempre volta all’efficienza, molte volte è condizionata dalle cattive abitudini di qualche giudice e degli avvocati. In terzo luogo bisogna intervenire su una serie di dettagli che consentono agli avvocati di utilizzare espedienti formali per ottenere rinvii. Noi facciamo, ovviamente, il nostro mestiere, ma questo è un sistema che deve essere radicalmente cambiato.
Lei non crede che certe lungaggini, non degli avvocati, ma dei magistrati, siano anch’esse da deplorare, soprattutto quando ci sia di mezzo la libertà delle persone? Due giorni per decidere di respingere una richiesta di revoca degli arresti cautelari e quaranta per depositare le motivazioni, facendo così slittare il ricorso, non le sembrano due dati sproporzionati tra loro?
Dipende dalle complessità della motivazione. Certo, si può anche qui cercare di sveltire, svincolando il giudice – come propongono alcuni – da motivazioni troppo certosine e complete. Io sono contrario, perché la motivazione è anche garanzia per l’imputato; il magistrato ha l’onere, dovendo motivare, di mettere bene in fila e ragionare sugli elementi a carico, se non dovesse farlo il rischio di una giustizia sommaria aumenterebbe.
In Italia, tra giustizia penale e civile sono pendenti circa 11 milioni di processi, uno ogni cinque abitanti. Anche attuando riforme strutturali, come è possibile smaltire questo pregresso?
Se si fanno amnistia e indulto il problema è automaticamente risolto, certi processi possono essere decisi in pochi minuti. È un dato storico per la giustizia italiana: prima della riforma che ha introdotto maggioranze qualificate per questi provvedimenti, nel nostro paese c’era un’abitudine assolutamente scorretta dal punto di vista di una politica criminale che però risolveva questi problemi. Tra amnistie e indulti praticamente ogni due o tre anni nei fatti si depenalizzava tutta la giustizia minore. I reati le cui pene, fatte salve le eccezioni sempre previste, rientravano nei tre anni di reclusione massima non erano più sottoposti a processo, la giustizia penale minore era di fatto non applicata e i tribunali avevano molto meno da lavorare.
Lei pensa che Giorgio Napolitano accoglierà l’appello e si rivolgerà alle Camere con un messaggio? Vede, conseguentemente, un clima in cui amnistia, indulto e le conseguenti riforme possano prendere avvio?
Che cosa farà il capo dello Stato non lo so. So però che in questi ultimi anni ha sempre dimostrato grandissima attenzione al problema delle carceri, intervenendo più di una volta. È possibile, dunque, che recepisca la nostra istanza, è abbastanza probabile che comunque una risposta ci sia. Detto questo, francamente, non credo che le forze politiche, estremamente divise sul tema dell’amnistia e dell’indulto, possano facilmente trovare un accordo per una maggioranza qualificata soprattutto adesso che siamo vicini alle elezioni. La gran parte dell’opinione pubblica chiede pene severe e posizioni inflessibili e non sarebbe favorevole a provvedimenti di clemenza temendo una ricaduta sull’ordine pubblico e sulla criminalità diffusa; e i politici sono molto sensibili all’opinione pubblica. Penso che il presidente prenderà iniziativa, ma è difficile che il Parlamento, pur sollecitato, reagisca in tempi rapidi, sicuramente non sarà rapido nell’affrontare il tema della riforma strutturale a meno di un anno dalle elezioni; per quella bisognerà attendere la nuova legislatura.
Media e politici hanno una responsabilità grave, lei non ritiene che l’opinione pubblica in materia sia male informata?
Certo che è male informata, e di fronte a queste decisioni ha la reazione istintiva di chi non conosce tutti gli aspetti della problematica. Ma un processo di informazione e di educazione è lento. C’è una cosa estremamente importante che bisognerebbe far capire a tutti: il carcere di per sé non risolve i problemi, nemmeno quello della difesa sociale delle persone, sarebbe quindi più efficace utilizzare misure diverse dal carcere per contrastare determinati aspetti della criminalità.
Il processo “Iva Telefonica” va in vacanza
Si riprende il 25 settembre. La fine della fase dibattimentale prevista per il 29 ottobre. Sfilata di Fiamme Gialle a difesa di Luca Berriola. Il tenente colonnello Bertini: «Non era possibile autoassegnarsi un incarico»
Ultima seduta prima della pausa estiva del processo per l’“Iva Telefonica” che si celebra presso la Prima Sezione penale del Tribunale di Roma presieduto da Giuseppe Mezzofiore. La mattinata è stata caratterizzata dall’audizione di una parte dei testi chiamati a deporre dalla difesa del maggiore della Guardia di Finanza Luca Berriola. Sul banco dei testimoni sono così comparsi diversi rappresentanti delle Fiamme Gialle: il colonnello Montella, il tenente colonnello Bertini, il maresciallo Centrella più l’appuntato scelto Livio Capparella.
Il tenente colonnello Bertini, nel 2003-2004 responsabile del nucleo di polizia valutaria, è stato all’epoca il superiore diretto dell’allora capitano Berriola. La testimonianza dell’ufficiale si è concentrata sull’organizzazione del lavoro del nucleo, con particolare riguardo alla divisione degli incarichi, alla tracciabiliità della consultazione delle indagini e all’eventuale possibilità di «autoassegnazione» di incarichi da parte di uomini del reparto. Bertini è stato drastico: non esisteva possibilità di «autoassegnazione, in quanto la distribuzione degli incarichi veniva assegnata attraverso un meccanismo piramidale rigido, dal colonnello comandante in giù». «Ogni ingresso nel sistema informatico – ha infine precisato Bertini – era destinato a lasciar traccia sia se effettuato da un ufficiale che da un subalterno».
Il PM Giovanni Bombardieri ha poi prodotto due segnalazioni relative alla CMC, relative al 2004 ed al 2005. Ma nel 2005 né Bertini né Berriola appartenevano più al reparto. Per quanto riguarda il dossier del 2004, dall’archivio elettronico risulta che il fascicolo non fu mai assegnato alla competenza di Bertini o di Berriola.
È stata poi la volta del colonnello Montella, nel 2006-2007 responsabile del nucleo tutela dei mercati. All’ufficiale è stato chiesto di ricordare in particolare di una serata trascorsa al ristorante Filadelfia. In quella circostanza, secondo la ricostruzione del PM, Berriola avrebbe incontrato e salutato Gennaro Mokbel. Il colonnello Montella ha precisato di non ricordarsi particolari degni di nota di quella che fu una normale cena di lavoro tra colleghi. Il colonnello Montella ha anche confermato l’ottima valutazione che a suo tempo diede quale superiore in merito al rendimento e al comportamento del maggiore Berriola.
Terza testimonianza, quella del maresciallo Centrella, anche lui membro del nucleo tutela mercati, alla dipendenza diretta di Berriola. In quella veste i due furono protagonisti di una trasferta di servizio, il 16 e il 17 agosto del 2006, a Montecarlo. In quell’occasione, ha precisato il maresciallo, lui e Berriola hanno lavorato assieme senza soste. Il maresciallo non ha mai lasciato la compagnia di Berriola nel corso della missione.
L’appuntato scelto Livio Capparella, che ha svolto all’epoca, tra l’altro, anche mansioni di autista ha risposto alle domande sulle abitudini di Berriola e all’impiego del mezzo, sempre utilizzato per soli motivi di servizio.
In precedenza si era esaurita la lista dei testi “civili”, addotti dalla difesa di Berriola per dare testimonianza dello stile di vita dell’ufficiale, coerente con un tenore di vita in linea con l’incarico e lo stipendio del rappresentante delle Fiamme Gialle. L’ultima testimonianza in tal senso è stata resa da un vicino di casa di Frascati, il signor Barbabietola.
La ripresa del procedimento sarà occupata dagli ultimi testi prodotti dalla difesa del maggiore Berriola e da quelli convocati da Massimo Micucci e Paolo Colosimo. La prima udienza autunnale si terrà il 25 settembre prossimo. Seguiranno, il 27 ed il 28 settembre, i testi chiamati a deporre da Gennaro Mokbel.
Il processo proseguirà poi ad ottobre: il giorno 8 compariranno i testi di Francesco Fragomeli, Silvio Fanella e Manlio Denaro oltre a quelli di Aurelio Gionta e Riccardo Scoponi. Il giorno 15 sarà la volta dei testi chiamati da Giorgia Ricci e Antonio Ricci. Nelle udienze successive, fissate per il 18-19 ottobre, appariranno i testi di Carlo Focarelli seguiti, il giorno 23, da quelli di Giovanni Gabriele e Giuseppe Cherubini. Il calendario prevede, infine, due udienze fissate per il 23 e il 29 ottobre per eventuali recuperi.
Entro la fine di ottobre, quindi, dovrebbe esaurirsi la fase dibattimentale. Dopo di che si passerà alla discussione.
Berriola: Nessun reddito segreto dietro la mia casa
Inizia la sfilata dei testi chiamati dalla difesa del maggiore. Davanti al giudice agenti e periti immobiliari della zona di Frascati. Il 17 luglio la deposizione di ufficiali della Guardia di Finanza
Con l’audizione dei testi chiamati a deporre dal maggiore della Finanza Luca Berriola è iniziata l’ultima fase del dibattimento del processo per l’“Iva Telefonica” prima della pausa estiva. La difesa di Berriola ha ieri convocato, davanti al Collegio della Prima Sezione penale del Tribunale di Roma, presieduta da Giuseppe Mezzofiore, diversi operatori immobiliari dell’area di Frascati, con l’obiettivo di dimostrare che il tenore di vita e gli investimenti dell’ufficiale delle Fiamme Gialle erano perfettamente correnti con il suo reddito. Hanno così deposto il geometra Stefano Bordon, che ha curato la ristrutturazione della casa di Berriola, e gli agenti immobiliari Allessandro Pellegrini e Claudio Rossi. Ha completato la sfilata dei testi l’impiegato della presidenza del Consiglio Angelo Maiali.
Nella prossima udienza, l’ultima di luglio, in programma per martedì 17, compariranno davanti alla Corte, in qualità di testi chiamati a deporre dalla difesa di Luca Berriola, alcuni ufficiali della Guardia di Finanza colleghi del maggiore.
«La mia collezione d’arte? Solo copie o litografie»
Si è concluso l’esame di Gennaro Mokbel. Al centro delle domande la candidatura Di Girolamo e i “tesori” dell’imputato. «Mai avuto un ristorante». Giovedì i testi chiamati dal maggiore Berriola
Si è conclusa ieri, al processo per l’“Iva Telefonica” in corso presso la Prima Sezione del Tribunale di Roma, presieduta da Giuseppe Mezzofiore, la testimonianza di Gennaro Mokbel, secondo gli inquirenti il personaggio al vertice dell’associazione a delinquere al centro dell’indagine. Mokbel ha risposto sia alle domande del PM Giovanni Bombardieri che a quelle del suo legale, Ambra Giovene. Nella stessa sede si è anche concluso il controesame del Pubblico ministero.
Nel corso dell’udienza è stato esaminato soprattutto l’aspetto politico della vicenda, culminato nella candidatura a senatore di Nicola Di Girolamo, maturata a Roma ma poi consolidata con un’intensa attività di lobby in Calabria, tra cene e incontri politici sul territorio. Mokbel, che ha sostenuto l’opinione che altri imputati sarebbero riusciti a salvare buona parte del patrimonio, ha tenuto a precisare di non essere mai stato proprietario di un ristorante. A proposito della sua collezione di oggetti d’arte che, secondo l’accusa, sarebbe stata costituita per riciclare i proventi illegali delle sue attività. Mokbel ha precisato di essere un appassionato d’arte ma ha fatto presente che la sua collezione, costituito in gran parte da riproduzioni o opere grafiche, non è certo di grande valore.
Si è concluso così l’esame di un teste-chiave dell’inchiesta. La prossima udienza, in programma per il 12 luglio, vedrà la sfilata dei testimoni chiamati a deporre dal maggiore della Guardia di Finanza Luca Berriola.
Fattore Umano | «Una questione di prepotente urgenza»
«Signor Presidente della Repubblica, se non ora, quando? Se non così, come?». Lettera aperta al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di Andrea Pugiotto, docente di Diritto Costituzionale Università di Ferrara, sull’emergenza giustizia e carceri
Tra le prime adesioni: docenti universitari e 13 Garanti dei detenuti, professori universitari, i Garanti dei detenuti, il direttore del settimanale Tempi, Leo Beneduci (Osapp), Ornella Favero (Ristretti Orizzonti), Patrizio Gonnella (Associazione Antigone), Eugenio Sarno (Uilpa penitenziari). Ecco il testo della lettera.
Signor Presidente della Repubblica,
ci rivolgiamo a Lei quale primo garante della legalità costituzionale del nostro ordinamento, con la massima fiducia in un Suo immediato ricorso al potere di messaggio alle Camere, affinché il Parlamento eserciti finalmente le proprie prerogative per dare una contestuale risposta, concreta e non più dilazionabile, sia alla crisi della giustizia italiana che al suo più drammatico punto di ricaduta, le carceri.
1. «Crisi», nella sua etimologia, è sinonimo di cambiamento. Indica un momento di passaggio tra una maniera di essere ad altra differente. É il presupposto obbligato per una rinascita. «Crisi» è discernimento tra un prima e un dopo. É stato Lei, Signor Presidente, a denunciare lo stato di crisi della giustizia italiana, parlando di «punto critico insostenibile cui è giunta la questione, sotto il profilo della giustizia ritardata e negata [...] e sotto il profilo dei principi costituzionali e dei diritti umani negati per le persone ristrette in carcere, private della libertà per fini o precetti di sicurezza e di giustizia». Più di recente, è stata la seconda carica dello Stato, il Presidente del Senato, a fare eco alla Sua denuncia scrivendo pubblicamente – a nome della Istituzione che rappresenta – di una «tragedia senza fine delle carceri italiane» che «rappresentano anche un atto di accusa, inquietante e insopprimibile, per tutta la classe dirigente e per tutte le istituzioni democratiche» accomunate nella categoria di «traditori di un precetto sacro e inviolabile» qual è l’art. 27, 3° comma, della Costituzione italiana. Sia Lei che il Presidente del Senato avete espresso tali denunce nell’esercizio delle Vostre alte funzioni istituzionali, rivolgendoVi (anche) all’opinione pubblica, moderna configurazione del popolo sovrano. Altrettanto hanno fatto, con analoghe prese di posizione pubbliche, organi apicali dell’ordinamento della giustizia italiana quali il Presidente della Corte costituzionale, il Primo Presidente della Corte di Cassazione, il Presidente della Corte dei Conti. Siamo persuasi e autenticamente preoccupati per quanto descritto dalle Vostre parole. Ecco perché, in spirito di leale collaborazione – come la Costituzione impone nelle relazioni tra tutte le componenti dello Stato – sentiamo il dovere di chiedere a Lei di investire del problema il Parlamento, formalmente e con la massima urgenza, chiamandolo così ad una pubblica assunzione di responsabilità.
2. Trasformare la crisi della giustizia e delle carceri in una opportunità di cambiamento strutturale è, per il Parlamento, un vero e proprio obbligo costituzionale. Lo è, innanzitutto, sotto il profilo della cessione di sovranità che l’Italia ha volontariamente compiuto aderendo al Consiglio d’Europa ed al suo sistema di giustizia sovranazionale. La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo vede l’Italia reiteratamente condannata per le sistematiche violazioni dell’art. 6 CEDU, sotto il profilo della durata non ragionevole dei suoi processi. Analogamente, sono già più d’una le condanne dell’Italia per l’accertata violazione dell’art. 3 CEDU, sotto il profilo delle condizioni inumane e degradanti cui sono stati costretti in carcere alcuni detenuti. Tutto questo già si traduce in una attuale violazione della Costituzione italiana. Il suo riformato art. 117, 1° comma, impone ora al legislatore nazionale il rispetto «dei vincoli derivanti [...] dagli obblighi internazionali» anche pattizi. E la giurisprudenza della Corte costituzionale assume la normativa CEDU nell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo a parametro di giudizio nel sindacato di costituzionalità della legislazione nazionale. Le condanne a Strasburgo, specie quando seriali, sono dunque il segnale di una Costituzione violata. C’è di più. La durata eccessiva dei procedimenti giudiziari in Italia è considerato, in ambito CEDU, un problema oramai strutturale di persistente gravità cui le autorità italiane – da almeno venti anni – sono sollecitate a porre globalmente rimedio: la prima risoluzione in tema, adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, risale al 1992; l’ultima è del 2011. Ed è proprio In considerazione dell’assenza di miglioramenti tangibili nell’amministrazione della giustizia italiana – e del ripetersi delle condanne dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo – che il Comitato dei Ministri ha ritenuto necessario istituire un meccanismo specifico di monitoraggio. Lo stesso orizzonte si profila, in ambito CEDU, per le condizioni delle carceri italiane. Con riferimento alle decine e decine di ricorsi pendenti ed in attesa di trattazione, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha richiesto al Governo italiano di fornire tutti i dati concernenti le condizioni di detenzione dei ricorrenti, il numero di reclusi in ogni carcere, le ore d’aria di cui possono fruire, la capienza massima degli istituti penitenziari. Il rischio è che anche in questo settore – come già accaduto sul versante dei tempi biblici della giustizia nazionale – venga accertata una sistematica violazione convenzionale da parte dell’Italia, riconducibile a uno specifico difetto “strutturale” del suo sistema normativo interno. Non basta. In ragione dell’eccesso di ricorsi pendenti a Strasburgo contro l’Italia per violazione del diritto ad un equo processo in tempi ragionevoli, è lo stesso sistema giurisdizionale CEDU a rischiare la paralisi. Lo ha denunciato di recente con parole nette il Segretario Generale del Consiglio d’Europa: «L’Italia è uno dei maggiori responsabili dell’arretrato [della Corte EDU] a causa della lentezza eccessiva dei procedimenti giudiziari nel Paese. Il danno collaterale degli arretrati è quello di bloccare il normale funzionamento della Corte EDU, che non è mai stata intesa come corte di ultima istanza per sistemi giudiziari incapaci di proteggere internamente i diritti umani» [Comunicazione all’Assemblea Parlamentare di Strasburgo, 23 gennaio 2012]. Analoga denuncia era già stata formulata ufficialmente dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa («cette situation constitue une menace sérieuse pour l’efficacité du système de la Convention et de la Cour européenne») con l’ingiunzione rivolta all’Italia di porvi rimedio [Decisione della Delegazione del Comitato dei Ministri, 2 dicembre 2011]. In questo modo, Signor Presidente della Repubblica, la violazione della legalità costituzionale si rivela malattia non solo recidivante ma insidiosamente contagiosa. Una peste italiana.
Concluso l’esame di Mokbel
Ai PM: mai conosciuto O’Connor e Dines, con Berriola una semplice frequentazione. E ancora: nessun «voto di scambio» su Di Girolamo. Il 10 luglio al via il controesame
Nessun rapporto con famiglie della ‘ndrangheta di Capo Rizzuto, quindi nessun «voto di scambio», ma solamente un appuntamento politico-elettorale, in presenza dell’avvocato Paolo Colosimo e di Nicola Di Girolamo, in seguito eletto senatore. Così Gennaro Mokbel ha risposto alle domande del PM Bombardieri in merito all’incontro avvenuto nel 2008 nel paese del crotonese con Franco Pugliese, già condannato a 4 anni e 8 mesi lo scorso luglio 2011 dal GUP Massimo Battistini per vari capi di imputazione fra cui la «minaccia volta ad impedire il libero esercizio del diritto di voto».
Con l’udienza di ieri, davanti ai giudici della Prima Sezione penale del Tribunale di Roma presieduta da Giuseppe Mezzofiore, si è concluso l’esame di Gennaro Mokbel, secondo gli inquirenti il personaggio al vertice dell’associazione a delinquere al centro del processo per l’“Iva Telefonica”.
Le domande del PM Bombardieri si sono inoltre concentrate sui rapporti di Mokbel con il Maggiore della GdF Luca Berriola, su come lo avesse conosciuto, quando lo avesse incontrato e se conoscesse le sue funzioni all’interno della GdF. Mokbel ha risposto di averlo incontrato in alcune occasioni, ad esempio presso il circolo Tiro a volo a Roma o al ristorante capitolino Filadelfia, sostenendo però che si è sempre trattato di incontri occasionali, legati a rapporti di semplice frequentazione.
In merito ai rapporti con l’avvocato Paolo Colosimo, Mokbel ha confermato di conoscerlo da molto tempo, ma di averlo sempre, e solo, «inquadrato» come il legale di Fabio Arigoni.
Infine, Mokbel ha affermato di non aver mai conosciuto Edward Dines e Anthony O’Connor, cittadini inglesi, coinvolti nella parte dell’inchiesta sul riciclaggio. Altrettanto di non aver mai conosciuto Eugene Gourevitch, cittadino americano di origine kirghiza, coinvolto – secondo i PM – nel finanziamento dell’operazione “Traffico Telefonico”.
Il 10 luglio al via il controesame.
In aula Parisse e Di Genova
Davanti ai giudici due testi a difesa di Zito. Il 5 luglio riprende l’esame di Mokbel
È stata un’udienza breve, quella di ieri, al processo per l’“Iva Telefonica” dedicata ad ascoltare due testi a difesa dell’ingegner Bruno Zito, l’ex dipendente Fastweb incaricato da metà novembre 2002 di gestire i rapporti con il cliente CMC, società di Carlo Focarelli, in relazione all’operazione Phuncard.
Chiamati in aula, davanti ai giudici della Prima Sezione Penale del Tribunale di Roma presieduta da Giuseppe Mezzofiore, l’allora responsabile marketing di Fastweb Stefano Parisse e Augusto Di Genova, anch’egli dipendente presso l’unità marketing.
Rispondendo alle domande di PM e avvocati, Parisse ha ricostruito il proprio ruolo in azienda e ha anche chiarito di aver ricevuto in un’occasione il rapporto sul business Phuncard, elaborato da Zito, e averlo «smistato» ai diretti superiori di allora: l’amministratore delegato Emanuele Angelidis, il direttore generale Alberto Trondoli e il direttore commerciale Lorenzo Macciò.
Parisse ha poi aggiunto che il livello dirigenziale nel quale operava Zito era quello nel quale venivano elaborati i contenuti di business simili a Phuncard e che, in effetti, in quella circostanza lo stesso Zito poté operare da “pivot” dell’operazione.
Infine, alla domanda della difesa su chi avesse il potere di firma, Parisse ha risposto di non ricordarlo dopo i tanti anni trascorsi dall’operazione ma che, per saperlo, è sufficiente leggerlo sul contratto.
Di diverso contenuto la testimonianza di Augusto Di Genova, il quale ha confermato di aver saputo da Zito del suo desiderio di avviare un business nel campo del WiMax e, in proposito, avendo lavorato in precedenza in società di consulenza per le tlc, di averlo messo in contatto con alcuni imprenditori, senza però che da tali contatti nascesse nulla. Di Genova ha aggiunto di non aver mai saputo, in seguito, di un viaggio ad Hong Kong da parte dello stesso Zito, in relazione al possibile avvio di una start up nel campo WiMax, finanziata da Carlo Focarelli.
Prossima udienza il 5 luglio per il termine dell’esame di Gennaro Mokbel e il probabile inizio del controesame.