Fattore Umano | «Il sovraffollamento tortura inaccettabile»
Su Tempi l’intervista di Ubaldo Casotto all’avvocato Carlo Federico Grosso: «Stipare 22mila persone in prigione oltre le 45mila di capienza regolamentare è una barbarie». Il legale, già vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura spiega perché ha firmato l’appello a Napolitano del professor Pugiotto
[…]
Professore, lei ha sottoscritto una lettera aperta al presidente della Repubblica che chiede il suo intervento con un messaggio alle Camere per la drammatica situazione delle carceri italiane dove sono stipati quasi 67mila reclusi…
Ventimila in più rispetto al dovuto. Cifra sulla quale il ministero ha operato una singolare distinzione tra “capienza regolamentare”, per cui parla di 22mila persone di troppo, e “capienza tollerabile”, che non sarebbe stata ancora raggiunta, ci sarebbe posto per altri 2mila detenuti. E francamente è questa distinzione a essere intollerabile. La capienza regolamentare è la capienza che un carcere può sopportare in maniera civile, 22mila persone oltre questa soglia costituiscono una stortura inaccettabile, perché stipare in carcere un numero così elevato di persone che non ci possono stare evidentemente è già di per sé una forma di quasi tortura.
Il 40% dei detenuti, oltre 26mila persone, è in carcere in attesa di una condanna definitiva, il 20% di chi è dietro le sbarre non ha ancora avuto neanche un processo di primo grado, si tratta di circa 13mila persone. Non pensa che si potrebbe intervenire almeno su questi?
Io credo che effettivamente un intervento su questa tipologia di detenuti potrebbe decongestionare in parte le carceri. Ma c’è un problema: è difficile in astratto e a priori trovare e imporre dei limiti alla custodia cautelare, perché questo istituto è un po’ legato alle vicende concrete della criminalità in Italia. Si possono fare dei calcoli di massima, però non è certo a mio avviso questa la via maestra per risolvere il problema. Anche perché ho l’impressione che cambiare le regole della custodia cautelare sia difficile è complesso e non credo che il nostro Parlamento troverebbe agevolmente un punto di accordo politico su questo profilo.
Forse è un problema di prassi nell’applicazione concreta delle regole esistenti. Si potrebbe partire da qui?
Sì, questo è possibile. Ma io credo che sia molto difficile, da un lato, verificare nella sostanza i contenuti di questa prassi e, in secondo luogo, più difficile ancora cambiare la prassi se non si modifica la disciplina. Sostanzialmente ogni vicenda giudiziaria è affidata a un pubblico ministero e a un gip: il pm chiede la custodia cautelare e il gip la concede o la rifiuta. Dopo di che ogni pm è assolutamente indipendente e a maggior ragione anche ogni gip, che non può in nessun modo essere condizionato dall’esterno da un qualche livello superiore: modificare la prassi implica cambiare la mentalità dei magistrati, ma questo è un processo lungo, ci vogliono anni, e non è un modo per risolvere “oggi” il problema drammatico delle carceri.
Non crede che la custodia cautelare sia troppe volte usata per fini non propri?
Per ottenere confessioni o dichiarazioni utili all’accusa? Non sono in grado di rispondere in modo assoluto. In base alla mia esperienza posso dire che qualche volta l’impressione che l’istituto fosse usato in maniera assolutamente disinvolta c’era, altre volte era usato in maniera assolutamente corretta, anche visto dalla parte di noi avvocati. È difficile riuscire a quantificare. Ripeto, altro è modificare le regole a cui i magistrati devono attenersi, altro è sperare in improbabili cambiamenti della prassi. Non escludo che questo possa avvenire, ma non in tempi rapidi, mentre la situazione attuale esigerebbe un intervento in grado di liberare un numero di posti – carcere molto elevato con un provvedimento di rapidissima applicazione. Ecco perché io credo che l’amnistia e l’indulto siano molto probabilmente l’unico modo concreto e praticabile in questo momento per risolvere, almeno temporaneamente, il problema. Dico temporaneamente anche perché, se si utilizzasse questi due strumenti, è chiaro che dovrebbero essere subito accompagnati da riforme strutturali, in modo da evitare che l’affollamento si ripeta, perché storicamente è sempre successo così: dopo due anni si tornava ai numeri precedenti. Amnistia e indulto non sono la soluzione, sono un provvedimento tampone per uscire dalla situazione drammatica attuale. Poi bisogna pensare in grande, fare una riforma di struttura, altrimenti non si risolvono i problemi.
Per i difensori dell’amnistia non è vero che le carceri si riaffollano perché chi è uscito torna subito a delinquere…
In questo hanno ragione, chi riempie le carceri molte volte non è recidivo, non ha cioè goduto dei provvedimenti di clemenza. Ma questo rende ancora più evidente la necessità di intervenire con riforme di struttura. Bisogna che il Parlamento si decida ad affrontare il problema con una serie di interventi coordinati tra loro in modo da incidere sui diversi aspetti che possono influire sulla popolazione carceraria: ulteriori depenalizzazioni, ampliamento delle forme di esecuzione fuori dal carcere… Non posso certo essere qui esaustivo, ma da anni noi penalisti stiamo ragionando su questi temi e abbiamo un quadro articolato dei possibili modi di intervenire.
Nell’appello al presidente della Repubblica si denuncia anche la “non ragionevole” durata dei processi. Pensa che anche qui si possa intervenire d’urgenza?
La durata irragionevole dei processi è un dato di fatto assolutamente inequivocabile del nostro paese. I livelli di intervento possibile sono numerosi. Innanzitutto bisogna agire su norme di diritto penale sostanziale, cioè riducendo il numero dei reati, liberando così la magistratura penale ordinaria di una parte considerevole di processi per fatti minimali che fanno perdere tempo, e, in secondo luogo, attraverso una più razionale organizzazione del personale giudiziario. Io ho l’impressione che l’organizzazione dei processi non sia sempre volta all’efficienza, molte volte è condizionata dalle cattive abitudini di qualche giudice e degli avvocati. In terzo luogo bisogna intervenire su una serie di dettagli che consentono agli avvocati di utilizzare espedienti formali per ottenere rinvii. Noi facciamo, ovviamente, il nostro mestiere, ma questo è un sistema che deve essere radicalmente cambiato.
Lei non crede che certe lungaggini, non degli avvocati, ma dei magistrati, siano anch’esse da deplorare, soprattutto quando ci sia di mezzo la libertà delle persone? Due giorni per decidere di respingere una richiesta di revoca degli arresti cautelari e quaranta per depositare le motivazioni, facendo così slittare il ricorso, non le sembrano due dati sproporzionati tra loro?
Dipende dalle complessità della motivazione. Certo, si può anche qui cercare di sveltire, svincolando il giudice – come propongono alcuni – da motivazioni troppo certosine e complete. Io sono contrario, perché la motivazione è anche garanzia per l’imputato; il magistrato ha l’onere, dovendo motivare, di mettere bene in fila e ragionare sugli elementi a carico, se non dovesse farlo il rischio di una giustizia sommaria aumenterebbe.
In Italia, tra giustizia penale e civile sono pendenti circa 11 milioni di processi, uno ogni cinque abitanti. Anche attuando riforme strutturali, come è possibile smaltire questo pregresso?
Se si fanno amnistia e indulto il problema è automaticamente risolto, certi processi possono essere decisi in pochi minuti. È un dato storico per la giustizia italiana: prima della riforma che ha introdotto maggioranze qualificate per questi provvedimenti, nel nostro paese c’era un’abitudine assolutamente scorretta dal punto di vista di una politica criminale che però risolveva questi problemi. Tra amnistie e indulti praticamente ogni due o tre anni nei fatti si depenalizzava tutta la giustizia minore. I reati le cui pene, fatte salve le eccezioni sempre previste, rientravano nei tre anni di reclusione massima non erano più sottoposti a processo, la giustizia penale minore era di fatto non applicata e i tribunali avevano molto meno da lavorare.
Lei pensa che Giorgio Napolitano accoglierà l’appello e si rivolgerà alle Camere con un messaggio? Vede, conseguentemente, un clima in cui amnistia, indulto e le conseguenti riforme possano prendere avvio?
Che cosa farà il capo dello Stato non lo so. So però che in questi ultimi anni ha sempre dimostrato grandissima attenzione al problema delle carceri, intervenendo più di una volta. È possibile, dunque, che recepisca la nostra istanza, è abbastanza probabile che comunque una risposta ci sia. Detto questo, francamente, non credo che le forze politiche, estremamente divise sul tema dell’amnistia e dell’indulto, possano facilmente trovare un accordo per una maggioranza qualificata soprattutto adesso che siamo vicini alle elezioni. La gran parte dell’opinione pubblica chiede pene severe e posizioni inflessibili e non sarebbe favorevole a provvedimenti di clemenza temendo una ricaduta sull’ordine pubblico e sulla criminalità diffusa; e i politici sono molto sensibili all’opinione pubblica. Penso che il presidente prenderà iniziativa, ma è difficile che il Parlamento, pur sollecitato, reagisca in tempi rapidi, sicuramente non sarà rapido nell’affrontare il tema della riforma strutturale a meno di un anno dalle elezioni; per quella bisognerà attendere la nuova legislatura.
Media e politici hanno una responsabilità grave, lei non ritiene che l’opinione pubblica in materia sia male informata?
Certo che è male informata, e di fronte a queste decisioni ha la reazione istintiva di chi non conosce tutti gli aspetti della problematica. Ma un processo di informazione e di educazione è lento. C’è una cosa estremamente importante che bisognerebbe far capire a tutti: il carcere di per sé non risolve i problemi, nemmeno quello della difesa sociale delle persone, sarebbe quindi più efficace utilizzare misure diverse dal carcere per contrastare determinati aspetti della criminalità.