Archivio di settembre 2012
In aula i testi di Mokbel
L’udienza di ieri del processo “Iva Telefonica” ha visto sfilare di fronte al Collegio della Prima Sezione penale del Tribunale di Roma presieduto da Giuseppe Mezzofiore i testi chiamati dalla difesa Mokbel. Al centro del dibattimento l’analisi di alcuni aspetti relativi al progetto Alleanza Federalista e alla campagna elettorale dell’ex senatore del PdL Nicola Di Girolamo, eletto nella circoscrizione estera Europa
In aula Francesco Capalbo che all’epoca dei fatti si occupava del progetto politico di Alleanza Federalista che ha ricostruito la nascita dell’iniziativa politica e degli incontri avvenuti al ristorante romano “Filadelfia” il cui proprietario, secondo la Procura, era Gennaro Mokbel.
Sul banco dei testi sono sfilati anche due funzionari dell’allora consolato italiano a Bruxelles: il signor Aldo Mattiussi, che era responsabile dell’Aire, il registro per gli italiani all’estero, e Filomena Ciannella, che era a capo della cancelleria consolare presso l’ambasciata d’Italia a Bruxelles. Entrambi sono stati sentiti per chiarire alcune «anomalie» legate all’acquisizione della residenza all’estero di Di Girolamo (necessaria per l’iscirizone nelle liste elettorali per la candidatura nei collegi esteri). Particolari che, secondo l’accusa, si divergevano dalla prassi amministrativa con cui l’ex senatore era riuscito ad arrivare alle elezioni. Una procedura che secondo quanto ricostruito dalla Procura era iniziata «secondo prassi» attraverso l’allora responsabile effettivo di questi servizi (la signora Ciannella) per essere poi perfezionata con l’intervento «anomalo» di Mattiussi, deleagato invece agli archivi notarili.
Sentito in aula anche l’onorevole Marco Zacchera, dimessosi dal Parlamento per svolgere le sue funzioni di sindaco a Verbania. Zacchera è stato ascoltato in merito ai suoi rapporti con l’ex senatore Di Girolamo perché, all’epoca dei fatti, più precisamente nel 2006, era capo del Dipartimento Italiani nel mondo di AN e quindi responsabile della candidatura nei collegi esteri. Zacchera ha riferito di aver stilato l’elenco dei candidati senza alcuna pressione esterna. Elenco che inizialmente non conteneva Di Girolamo. Il suo nome fu infatti inserito in un secondo momento su suggerimento di Stefano Andrini a seguito del “buco” lasciato dalla cancellazione di un altro candidato. Di Girolamo aveva un ottimo curriculum vitae, conosceva la realtà degli italiani all’estero, era un avvocato affermato. Tutto regolare e Zacchera non si oppose. I risultati – ha commentato in aula il sindaco di Verbania – sono arrivati grazie alla campagna elettorale svolta da Di Girolamo.
A chiudere la sfilata dei testi Carla Tagliaferri, allora segretaria nella sede romana di Alleanza Federalista e Giovanni Bonanno, titolare di una gioielleria nella Capitale. La signora Tagliaferri ha dato conto su domande della difesa sull’effettiva «ordinaria» attività politica del circolo e di Di Girolamo che – secondo quanto descritto dalla teste – spediva numerose buste con messaggi elettorali in tutta Europa. Bonanno ha risposto invece in merito alle ragioni della cessione della sua attività a Marco Massoli e Marina Bongiorno (madre di Giorgia Ricci).
Prossima udienza fissata per l’8 ottobre. In aula i testi chiamati dalle difese Colosimo, Scoponi, Gionta e un residuo dei testi di Berriola.
Dissequestrati i beni di Mazzitelli e Comito
Da oggi la revoca del provvedimento per i due ex top manager di TIS
I due ex top manager di Telecom Italia Sparkle, rispettivamente l’ex AD Stefano Mazzitelli e l’ex Responsabile Commerciale per l’Europa Massimo Comito, hanno potuto rientrare quest’oggi in possesso dei loro beni, messi a suo tempo sotto sequestro preventivo.
La revoca del provvedimento, disposta già nel luglio scorso in sede di appello dal Tribunale del riesame riguardo alla posizione di Mazzitelli, e oggi nel caso di Comito dal Collegio dei giudici della Prima sezione penale di Roma, presieduto da Giuseppe Mezzofiore, trova fondamento – spiega il legale dei due manager, avv. Fabrizio Merluzzi – «nel fatto che non c’è traccia di profitti personali che gli imputati abbiano ricavato dai reati loro contestati né che i beni vincolati possano considerarsi frutto di reimpiego dei proventi degli stessi». Una notizia positiva, dunque, per Mazzitelli e Comito, «a ulteriore conferma – sottolinea ancora Merluzzi – dell’emergere dell’estraneità dei due dirigenti di TIS ad attività truffaldine o di complicità di ogni tipo».
Colleghi e superiori in campo per Berriola. «È corretto e leale»
Il processo per l’“Iva Telefonica” è ripreso con i testi dell’ufficiale della GdF. Nessun mistero dietro la cena al “Filadelfia”. Il 28 settembre in aula le testimonianze chieste dai difensori di Gennaro Mokbel e Giorgia Ricci
Una sera di novembre del 2007, il senatore Bruno Erroi, il Tenente Colonnello Carlo Luciano e il Colonnello Michele Dell’Agli andarono a cena con il maggiore Luca Berriola al ristorante Filadelfia di Roma il cui proprietario, secondo la Procura, era Gennaro Mokbel. Ieri i tre testi, di fronte al Collegio della Prima Sezione penale del Tribunale di Roma presieduto da Giuseppe Mezzofiore, hanno testimoniato che: si trattò di una comune riunione conviviale; il conto fu regolarmente pagato dai commensali; probabilmente la cena non fu organizzata dal maggiore Berriola.
È uno dei passaggi-chiave dell’udienza con cui ieri è ripreso il processo per l’Iva telefonica con l’audizione dei testi di Berriola non ascoltati prima della pausa estiva. Diversi ufficiali delle Fiamme Gialle hanno testimoniato sulla correttezza professionale del maggiore: il generale Antonio Maria Rubino, sotto cui Berriola ha prestato servizio nel 2006/07; il collega Carlo Luciano, che ha lavorato al fianco dell’imputato al reparto Tutela Mercati; il Colonnello Lucandrea Buffoni, collega del maggiore al reparto Tutela Finanza Pubblica dal 2008 al 2010.
L’udienza si è conclusa con l’audizione del primo teste prodotto dalla difesa dell’avvocato Paolo Colosimo. L’esame delle testimonianze proseguirà l’8 ottobre (assieme ad altri testimoni di Berriola). Prima però ci sarà, il 28 settembre, la sfilata delle testimonianze prodotte da Gennaro Mokbel e Giorgia Ricci.
“Iva Telefonica”, riparte il processo
Tutti i testi ascoltati entro ottobre. Si riprende domani con le deposizioni chieste dai difensori di Berriola, Colosimo e Micucci. Si proseguirà il 28 con i testimoni di Mokbel
Si riparte. Dopo la pausa estiva riprende il processo per l’“Iva Telefonica” che si celebra davanti alla Prima Sezione penale del Tribunale di Roma. Davanti al Collegio presieduto da Giuseppe Mezzofiore si concluderà l’audizione degli ultimi testi chiamati a deporre dalla difesa del maggiore della Guardia di Finanza Luca Berriola. Nell’udienza del 18 luglio erano stati sentiti il colonnello Montella, il tenente colonnello Bertini, il maresciallo Centrella più l’appuntato scelto Livio Capparella.
Convocati per domani anche i testi citati dalla difesa di Massimo Micucci e di Paolo Colosimo. Si proseguirà con i testi convocati dalla difesa di Gennaro Mokbel. Il calendario prevedeva a questo scopo due udienze, il 27 e il 28 settembre, ma il Tribunale è già stato informato che i testimoni non potranno presentarsi il 27. Non è escluso, perciò, che l’udienza possa saltare.
Il processo proseguirà l’8 ottobre quando sfileranno davanti al collegio i testi di Francesco Fragomeli, Silvio Fanella e Manlio Denaro oltre a quelli di Aurelio Gionta e Riccardo Scoponi. La “coda” delle testimonianze si esaurirà nell’udienza del giorno 15 assieme alla deposizione dei testimoni di Giorgia Ricci e Antonio Ricci. Nelle udienze successive, fissate per il 18 e il 19 ottobre, toccherà ai testi di Carlo Focarelli seguiti, il giorno 23, da quelli di Giovanni Gabriele e Giuseppe Cherubini. Il calendario prevede, infine, due udienze fissate per il 23 e il 29 ottobre per eventuali recuperi dei testi.
Si esaurirà così la sfilata dei testi e, a partire dal 13 novembre, potrà cominciare la discussione finale in cui prima il Pubblico ministero, poi i difensori formuleranno e illustreranno le rispettive conclusioni.
Fattore Umano | Severino: più lavoro ai detenuti
Il ministro a Padova: «Siamo impegnati sul rifinanziamento della legge Smuraglia». E apre alle forme di pena alternative al carcere
«Non sono molto brava a fare promesse però posso dire che c’è un impegno molto serio per il rifinanziamento della legge Smuraglia». Ha esordito così il ministro Severino nel suo intervento di ieri all’incontro sul tema del lavoro come elemento di recupero del detenuto presso l’Università di Padova.
«Il progetto lavoro-detenuti – ha spiegato – merita una riflessione e un impegno seri». Anche perché – ha ricordato il ministro parlando ancora della cosiddetta legge Smuraglia (finanziata annualmente con 4,6 milioni di euro l’anno, ormai insufficienti) – «è stata l’unica forma di attivazione del lavoro carcerario che ha introdotto un modo di lavorare nel carcere utile non solo per i detenuti ma anche per il reinserimento sociale e per le imprese». Niente assistenzialismo o pietismo, dunque, bensì un serio impegno nel mettere a disposizione fondi per questo progetto.
Il ministro della Giustizia Paola Severino ha incontrato anche alcuni imprenditori durante la sua visita nelle due sedi carcerarie a Padova dove il consorzio di cooperative Coop Rebus impiega circa 200 detenuti. Per questi imprenditori – ha raccontato la Severino – «il lavoro in carcere non significa più intrattenere i detenuti per il tempo necessario a tenerli lontani dalla cella, ma abituarli a un lavoro utile, ad un lavoro per il futuro, ad un lavoro che sia già nella società».
Un altro tema toccato dal guardasigilli è stato quello del cronico sovraffollamento carcerario. La ricetta per superare questo problema «è un mix di elementi – ha spiegato –: abbiamo già avuto la legge salva carceri che ha cominciato a produrre qualche effetto perché vi sono stati tremila ingressi in meno relativamente al fenomeno delle porte girevoli». Senza dimenticarsi la questione delle misure alternative alla detenzione, definite dal ministro «il vero modo per affrontare il problema del carcere».
Perché il carcere, ha concluso il ministro, è l’estrema ratio, l’ultima risorsa in questo Paese cui si ricorre «quando gli altri tipi di pena non funzionano». Ma per la Severino ci sono anche «casi in cui si potrebbe ricorrere alla messa in prova e per reati minori potrebbe addirittura evitare il processo e la detenzione».
Fattore Umano| Le stoviglie della speranza
Il bilancio della «Grande battitura della» promossa dai Radicali. Per mezz’ora i detenuti di quasi 90 carceri hanno picchiato sulle sbarre delle celle. Anche perché il numero dei “ristretti” è di nuovo risalito a 67.000
«Suoneremo così le nostre campane», aveva annunciato Marco Pannella alla vigilia della «Grande battitura della speranza». E le campane sono risuonate forti, chiare e numerose. A Catania, Cosenza, Roma Rebibbia e Regina Coeli. E ancora, a Poggioreale, Lecce, Cagliari Buoncammino e Trento, e poi a San Vittore, Genova, Venezia, Bologna e in parecchie decine di altre carceri, ben 89 le adesioni giunte da tutte le regioni di Italia.
Già, perché migliaia di detenuti giovedì 30 agosto scorso hanno battuto con le stoviglie le sbarre delle proprie celle, nello stesso istante e per mezz’ora, trasformando così una forma di protesta tra le più tradizionali dell’immaginario carcerario in un messaggio pacifico e collettivo di speranza. Un messaggio che si è levato da quelle che il leader radicale ha definito le «nuove catacombe della democrazia e della giustizia».
La speranza dunque resiste e trova spazio perfino lì dove di spazio ce n’è pochissimo e, talvolta, basta soltanto per respirare. E dove persino lo stare in piedi è un tempo da contrattare con altri detenuti che, nel frattempo, devono stare in branda, perché lo spazio non basta per tutti.
La popolazione detenuta, nonostante le promesse e gli “interventi” normativi realizzati, è infatti tornata a sfiorare quota 67mila, mentre la capienza regolamentare (ma non necessariamente effettiva) non supera i 45mila posti. E sebbene il ministro ne abbia annunciati 11mila in più con la costruzione di nuovi padiglioni e istituti, non c’è traccia di assunzioni di nuovo personale. Insomma il piano di edilizia carceraria sembra destinato ad innalzare solo altre cattedrali nel deserto. Ammesso che poi si arrivi a costruirle davvero.
Ciò di cui c’è realmente bisogno, invece, sono misure rapide e incisive per uscire dallo stato di illegalità in cui versano le patrie galere e l’intera macchina della giustizia. Schiacciata dal peso di milioni di procedimenti arretrati.
Secondo i radicali è l’amnistia la sola strada da percorrere per un ritorno immediato alla legalità; e per restituire un po’ di credibilità al nostro Paese, ripetutamente condannato dalla Corte europea dei diritti umani proprio a causa del malfunzionamento della giustizia. Mentre a Strasburgo, sommersi da oltre mille ricorsi di singoli detenuti, i giudici si apprestano a emettere nei confronti dell’Italia una sentenza pilota per denunciarne le carenze strutturali in materia di carceri.
Anche per questo i reclusi d’Italia hanno risposto all’appello del leader radicale. Per invocare il rispetto della legge da parte di uno Stato che punisce loro per averla violata. E al tempo stesso fugge, come un latitante qualunque, dalle proprie responsabilità.
Fattore Umano | La finanza scommette sui social bond: profitti al 13%
Se il progetto fa scendere il numero dei recidivi
Una soluzione ignobile? Oppure una geniale quadratura del cerchio? L’opinione pubblica americana si è divisa sul patto tra Goldman Sachs ed il comune di New York, su impulso del sindaco, il finanziere Michael Bloomberg.
In estrema sintesi, la banca d’affari ha dato il via alla creazione dei «social impact bond», ovvero un’emissione da parte della banca di titoli in tutto e per tutto simili ai Bot o ai Btp. Stavolta, però, i fondi raccolti (9,6 milioni di dollari) non serviranno a finanziare il debito pubblico ma saranno messi a disposizione di un programma di rieducazione dei giovani ex detenuti rilasciati dalle carceri della Grande Mela. Si tratta di accompagnare il reinserimento dei ragazzi nella società, con l’obiettivo di ridurre il tasso di recidiva altissimo soprattutto nei quartier più a rischio. Ma attenzione: non si tratta di semplice beneficenza, comunque utile a ricostituire la reputazione assai acciaccata della banca d’affari. Ancora una volta, come sempre accade quando si ha a che fare con i Paperoni sulle due rive dell’Oceano, spunta il dio denaro.
Il comune, infatti, restituirà l’intera somma a Goldman Sachs nel caso che il tasso di recidiva dei detenuti scenda almeno del 10 per cento. In questo caso, è la spiegazione del sindaco, il miliardario Michael Bloomberg (che ha messo nell’iniziativa quattrini parcheggiati nel suo fondo personale per le opere di bene), la società farà comunque un ottimo affare. E se la recidiva scenderà ancor di più? Aumenteranno i guadagni di Goldman Sachs, ma con un tetto massimo di 2,1 milioni di dollari, pari al 13%. In caso di fallimento, comunque Goldman rischia di perdere 2,4 milioni di dollari, noccioline per una banca d’affari di quelle dimensioni.
L’idea, una miscela di filantropia e di speculazione, è piaciuta anche allo Stato del Massachussetts. «In questo modo – spiega George Overholser, gestore del fondo no profit Thid Sector – riusciremo a finanziare programmo di prevenzione, i primi che vengono tagliati in epoca di emergenza finanziaria. La formula vincente deve render conto di scelte conservative dal punto di vista fiscale ma progressiste sul piano dell’assistenza».
Che dire? La miscela fa rabbrividire: giocare con la vita delle persone utilizzando criteri di calcolo degni dei listini di Borsa dà un senso di razzismo e di mancato rispetto per la dignità personale. Dietro le sbarre ci sono uomini, non numeri. Il rischio è che, per far tornare la contabilità, gli uomini dei mercati ricorreranno a scorciatoie di vaio genere. Peggio ancora, la moneta di Goldman Sachs minaccia di cacciare ai margini i volontari che da sempre s’impegnano sul fronte della riabilitazione.
Ma, in certi casi, più delle parole contano i fatti. I «social impact bond» portano comunque quattrini in un’area di bisogno destinata, con la crisi del welfare, ad un’endemica carestia di fondi. Ben vengano questi quattrini anche se non è il caso di accettarli a scatola chiusa. Ma se Mediobanca vuole imitare il cugino d’America, faccia pure.
Va detto che, del resto, il piano Goldman Sachs/New York non è il solo. Il taglio dei fondi pubblici (-16% nello Stato di New York rispetto al 2008) ha costretto un po’ ovunque gli amministratori ad accelerare sulla strada dei Social-impact bond.
Il primo esperimento si è tenuto nel Regno Unito, alla prigione di Peterborough, nel 2010. Con buoni risultati sia sociali che di reddito. Il tasso di recidiva dei 3mila ex carcerati è sceso del 7,5%, grazie ai programmi sociali attivati dal programma. Gli investitori, in questo caso la Rockefeller Foundation e la Fondazione inglese Esmée Fairbairn, hanno così potuto intascare una ricca cedola, pari al 13% del capitale investito. Ora il progetto si estenderà ad altri casi in Usa: oltre al programma quadriennale di New York, che avrà per palcoscenico la prigione maschile di Rikers Island e a Boston, test verranno effettuati a Los Angeles e nella contea di Cuyahoga, in Ohio.