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É FINITA: SCAGLIA ASSOLTO CON FORMULA PIENA
ANCHE LA CORTE D’APPELLO CONFERMA L’INNOCENZA
La Prima Corte di Appello di Roma ha confermato l’assoluzione con formula piena per Silvio Scaglia, già pronunciata in primo grado nell’ottobre 2013. La sentenza è stata emessa dal Collegio presieduto da Francesco Neri, che ha confermato l’assoluzione anche degli ex manager di Fastweb, Mario Rossetti e Roberto Contin, e di Telecom Italia Sparkle, Stefano Mazzitelli, Massimo Comito e Antonio Catanzariti.
É stata così ribadita la piena innocenza dell’imprenditore, che ha così commentato dopo la sentenza che chiude definitivamente la vicenda: «Sono sempre stato convinto che la mia piena assoluzione sarebbe stata confermata a riprova della mia fiducia nella giustizia e della follia con cui le accuse contro di me e degli altri manager erano state costruite fin dall’inizio».
Le motivazioni dell’assoluzione nelle 1.800 pagine della Corte della Prima Sezione penale del tribunale di Roma: “Non c’è prova del concreto coinvolgimento o della consapevolezza degli illeciti”. “Non è dimostrata né dimostrabile – si legge infatti nella sentenza – la conoscenza di quel portato probatorio formidabile costituito dagli esiti della complessa attività rogatoriale”.
A questo link la sentenza integrale
«Scaglia costretto all’appello: ma perché?»
Sulla carta stampata e su Internet le reazioni all’intervista del fondatore di Fastweb a Il Fatto quotidiano che denuncia: «In italia la corruzione è tantissima ma nessuno lo dice».
L’intervista di Silvio Scaglia a Il Fatto Quotidiano ha acceso i riflettori sulla decisione della Procura di Roma di proporre l’appello contro la sentenza di «assoluzione piena» pronunciata dalla Prima sezione penale del Tribunale di Roma nell’ottobre 2013.
Al proposito LANOTIZIAgiornale.it titola «Dopo l’assoluzione l’ex ad di Fastweb costretto all’appello».
Nel commento di Gaetano Pedullà dal titolo «Un Paese poco garantista» si legge: «Ci sono giorni in cui la cronaca accende un faro su macigni che stanno lì da sempre senza che nessuno se ne accorga. In un Paese dove la corruzione dilaga, l’abuso della carcerazione preventiva è considerato da tanti un male necessario. Poi si scopre che l’imprenditore Caltagirone Bellavista a più di 70 si è fatto sei mesi di carcere per un reato che non sussiste, nel frattempo il suo gruppo è finito in difficoltà e si sono persi centinaia di posti di lavoro. La storia non è isolata e coinvolge potenti e pezzenti, perché se non altro in questo campo l’ingiustizia è democratica».
A proposito del fondatore di Fastweb l’editoriale continua così: «Ieri così persino un giornale definito da molti manettaro come Il Fatto quotidiano ha chiesto a un altro industriale, Silvio Scaglia (assolto in primo grado dopo tre mesi in carcere) cosa ha significato quell’esperienza. La prigione è come la morte per chi ci finisce senza motivo. Il nostro ordinamento in tal senso prevede che la carcerazione preventiva sia usata solo in casi precisi. Le cose però non vanno sempre così. E rispettando sommamente il difficile lavoro dei magistrati è altrettanto intollerabile che in nome della giustizia si commetta tanto spesso la più grande delle ingiustizie: togliere la libertà a un innocente».
Anche Filippo Facci su Libero interviene sulla materia in un corsivo dedicato alle amnesie di opinion maker come Massimo Gramellini. «Ieri – scrive – c’era il caso del manager Silvio Scaglia a cui persino Il Fatto Quotidiano ha lodevolmente dedicato una pagina intera: un anno di detenzione, milioni di euro in spese legali, assolto in primo grado con formula piena».
L’intervista sul Il Fatto Quotidiano di Marco Lillo ha avuto vasta eco su Internet.
Il sito Dagospia l’ha introdotto così: «Scaglia assolto per Fastweb racconta i sui tre mesi da incubo al gabbio tra zingari, lamiere dl tonno e degrado». Dice l’imprenditore: «In Italia la corruzione è tantissima. Ma mi preoccupa che nessuno lo dica. Almeno in Cina l’hanno ammesso… ».
Silvio Scaglia: La giustizia non ci deve dividere | Business, sofferenza e l’umanità dietro le sbarre
L’imprenditore si racconta in un’intervista al Fatto Quotidiano. Il ricorso della Procura? “Me lo aspettavo. Sono certo di essere assolto”. Il piatto di pasta dello zingaro a a Rebibbia.
“Me lo aspettavo. Io sono certo di essere assolto completamente dopo un primo grado così dettagliato ma gli effetti del processo sono molto pesanti”. Silvio Scaglia commenta così, in un’intervista concessa al Fatto quotidiano, la notizia che la Procura di Roma ha deciso di presentare ricorso contro la sentenzia di assoluzione con formula piena pronunciata nell’ottobre 2013 dal Tribunale di Roma.
Ma l’incontro con l’ingegner Scaglia non si è esaurito qui. L’intervista è stata l’occasione per fare il punto sull’esperienza del carcere “momenti durissimi, ma che sarebbe un peccato non averli vissuti” in cui si scoprono, nella maniera più inaspettata, i tratti dell’umanità. “Nel momento più nero della mia vita però lo sportellino della porta blindata si apre e vedo la faccia di un giovane zingaro. Era dentro per furti e mi dice: “amico è stata proprio una brutta giornata oggi per te ma noi ti abbiamo fatto un piatto di pasta”.
Un’esperienza dolorosa ma che, avverte Scaglia, “non mi deve trasformare in un simbolo per una delle fazioni in lotta. Io vorrei che il problema della giustizia e delle carceri si risolvessero senza dividerci. Il primo problema dell’Italia è proprio questa incapacità di fare sistema senza fazioni”.
L’intervista non si esaurisce qui, con un racconto pacato di un’esperienza terribile, tre mesi in cella e nove ai domiciliari, iniziata con una telefonata da Londra.
Parole pacate, nonostante l’esperienza da incubo cominciata in una mattina di febbraio, durante una breve vacanza: “Mio figlio di nove anni si era svegliato con un agente che frugava sotto il letto con il mitra. Mia figlia dice che avrebbero fatto saltare in aria la cassaforte se non le davo la combinazione. C’era un mandato di arresto che mi descriveva come membro di un’associazione a delinquere”.
Ma c’è modo, nel corso dell’intervista di parlare di tlc, uno dei grandi amori dell’imprenditore. “Io non farei un piano dall’alto di tipo governativo… Io lascerei le due reti esistenti, Telecom e Fastweb, in concorrenza tra loro. Non c’è bisogno di un grande piano pubblico per cablare l’Italia ma di società private in concorrenza tra loro che abbiano una struttura azionaria trasparente, senza scatole cinesi”. E del presente, rappresentato dall’investimento ne La Perla: “un’opportunità fantastica. Siamo leader assoluti nel segmento alto dell’intimo e stiamo espandendo l’offerta nel mondo del lusso in tutto il mondo. Produciamo in Europa, in Italia e Portogallo, e vendiamo l’80 per cento all’estero”.
Finisce così l’incontro con Silvio Scaglia, personaggio che di rado si concede ai media: i fatti, del resto, parlano per lui.
I manager di TIS: “Corretti e trasparenti” | Ecco le prove emerse dal processo
Mazzitelli, Comito e Catanzariti non sono coinvolti nelle operazioni fraudolente. Così il Tribunale ha smontato le accuse della Procura.
“Si impone pertanto l’esito assolutorio del giudizio nei confronti di Mazzitelli Stefano e Comito Massimo in ordine ai reati a loro contestati ai capi 6) e 9) di imputazione, perché il fatto non costituisce reato”. Inoltre, “… la prova del mancato coinvolgimento dei medesimi imputati e di Antonio Catanzariti nel sodalizio criminoso descritto al capo 1) della rubrica, costituisce in questo caso, specularmente a quanto già argomentato per i dirigenti Fastweb di cui si è ritenuta l’innocenza, l’ovvio precipitato logico della mancata dimostrazione di quella condotta di consapevole partecipazione alle operazioni fraudolente che nell’ottica accusatoria costituirebbe il substrato della vicenda associativa”.
Così la sentenza della Prima sezione penale del Tribunale di Roma sul cosiddetto Traffico Telefonico ha assolto dalle accuse mosse dalla Procura di Roma i dirigenti di Telecom Italia Sparkle, cioè l’ad Stefano Mazzitelli, Massimo Comito, all’epoca responsabile dell’area Europa, e Antonio Catanzariti (quest’ultimo perseguito per il solo reato associativo), il dirigente preposto al settore carrier sales Italy.
Tali accuse sono state smontate nel processo di primo grado chiuso con una sentenza di 1.800 pagine dopo 3 anni di esaustivo dibattimento e centinaia di testi molti dei quali dell’accusa. Proviamo ad illustrare, in estrema sintesi, alcuni passaggi significativi.
In particolare, la Corte ha preso atto della correttezza dimostrata da Stefano Mazzitelli che “fermo restando il dichiarato rispetto di tutte le procedure interne di verifica e controllo, riteneva indispensabile predisporre linee guida in ordine ai limiti di accertamento e verifica che si potevano richiedere ad un operatore di transito”. In occasione della conclusione dei rapporti contrattuali, inoltre, Mazzitelli, aggiunge la sentenza ”alcun atteggiamento ostruzionistico aveva avuto rispetto agli accertamenti plurimi e di plurima matrice svolti in azienda” e aggiunge, “Un contegno assolutamente trasparente” che “stride in maniera evidentissima con la tesi di un suo coinvolgimento nella vicenda oggetto di giudizio”.
Il Collegio sottolinea che “analogo atteggiamento propositivo e non oppositivo risulta aver connotato la partecipazione dei due coimputati Massimo Comito e Antonio Catanzariti ai medesimi accertamenti e verifiche svolte non solo in ambito aziendale, ma anche rispetto alle attività condotte dalla Guardia di Finanza.”
I controlli di Telecom Italia Sparkle, del resto, si integravano nell’organizzazione di Telecom Italia stessa “caratterizzata dal presidio della casa madre per le funzioni di controllo”. Per quanto riguarda il rischio di restituzione dell’Iva che si era palesato dopo le notizie apparse su Repubblica (23 gennaio 2007) non era stato trascurato neanche l’aspetto della sussistenza di profili responsabilità personale, anche penale, dei dipendenti T.I.S”. L’esito positivo delle verifiche “risultava attestato nei bilanci dell’anno 2007, approvati dagli organi sociali nel 2008 sia di Telecom Italia spa a livello consolidato, sia di Sparkle dove non era stato peraltro previsto alcun accantonamento”. A tutto questo va aggiunta l’assenza di concreti guadagni dall’operazione traffico telefonico sia per Stefano Mazzitelli che per Massimo Comito e Antonio Catanzariti per i quali “non sono stati accertate (ne peraltro contestate) indebite erogazioni di somme da parte dell’imputato Carlo Focarelli”.
E Ancora il tribunale “A questo quadro complessivo di elementi di plurima ed eterogenea matrice convergenti nel descrivere un ruolo inconsapevole degli imputati (ndr Mazzitelli, Comito, Catanzariti) in ordine alla illiceità dell’operazione commerciale intrattenuta all’interno della società T.I.S., va da ultimo aggiunto l’esito totalmente negativo della prova dichiarativa ex art. 210 c.p.p. e del materiale intercettativo”
“Con specifico riferimento all’espletamento della prova dichiarativa nel suo complesso considerata, non sembra potersi minimamente revocare in dubbio il decisivo e fondamentale contributo fornito dalla stessa in ordine ad una interpretazione e chiave di lettura di tutto il poderoso materiale documentale di segno esattamento contrario ed opposto a quello delineato nella prospettazione accusatoria, ma non per questo meno convincente ed esaustiva.”
Da questa somma di rilievi emerge “specularmente a quanto già argomentato per i dirigenti Fastweb di cui si è ritenuta l’innocenza, la prova del mancato coinvolgimento dei tre imputati nelle operazioni fraudolente che nell’ottica accusatoria costituirebbe il substrato della vicenda associativa”
Rossetti in carcere anche se “estraneo ai fatti” | La ricostruzione nella sentenza del Tribunale
“Alla luce di quanto appena esposto e tornando a quella “prova di resistenza” prospettata come indispensabile strumento di valutazione del coinvolgimento degli imputati Silvio Scaglia e Mario Rossetti nella vicenda processuale che ci occupa, ritiene il Collegio come netto sia il giudizio della loro totale estraneità ai fatti”. Il giudizio, netto e inequivocabile, è scritto nella sentenza con cui la Prima sezione del Tribunale di Roma ha respinto le accuse nei confronti sia di Scaglia che dell’ex direttore finanziario di Fastweb, anche lui sottoposto a custodia cautelare, prima in carcere, poi ai domiciliari, in quanto presunti complici di una gigantesca truffa Iva commessa da una banca criminale attraverso la cassa di Fastweb e di Telecom Italia Sparkle.
PHUNCARD: ROSSETTI NON POTEVA SAPERE
Per l’accusa gli “inequivoci elementi probatori a carico dell’imputato Rossetti Mario” sono legati al suo ruolo di CFO della società capogruppo e.Biscom che “presupponeva la perfetta ed approfondita conoscenza del business Phuncard”.
In realtà, nota la sentenza, “solo la completa ricostruzione dei flussi finanziari – come schematizzati dal capitano Meoli – ed il completo e complessivo disvelamento delle fi1ttizie relazioni contrattuali tra le società cartiere artatamente predisposte al fine di giustificare i vari passaggi di denaro, avrebbe potuto ragionevolmente indurre gli imputati a riconoscere valenza sospetta al finanziamento in essere tra fornitore e cliente, come tassello fondamentale della frode carosello”. Questo, però, presupponeva mezzi che non erano a disposizione di Fastweb, tantomeno del direttore finanziario Rossetti. “Una tale portata conoscitiva - si legge – raggiunta dagli inquirenti unicamente grazie agli accertamenti conseguenti ad una complessa ed articolata attività rogatoriale era, in una prospettiva interna all’azienda e sulla base di una ricostruzione ex ante, evidentemente fuori dalle dimensioni dei manager aziendali”.
In particolare, a proposito delle carte prepagate, Rossetti “alcun contatto diretto aveva avuto con i clienti, occupandosi come direttore finanziario di controllo degli aggregati, ossia del monitoraggio del capitale circolante e della verifica che il deficit o il surplus derivante dal capitale circolante fosse coerente al piano industriale”.
TRAFFICO TELEFONICO: L’IMPUTATO FISICAMENTE GIA’ FUORI DALL’AZIENDA
Ancor più sfumata la posizione di Rossetti nell’ambito dello svolgimento dell’operazione Traffico Telefonico. “Da quanto appreso nel corso del suo esame, non senza riscontri anche documentabili e documentati - si legge nella sentenza - l’imputato aveva deciso di Interrompere il suo percorso professionale all’interno dell’azienda in data 15 dicembre del 2005… Se ne deduce, anche solo documentalmente, che egli era fisicamente fuori dalla società, estraneo ad ogni attività operativa in azienda e recettore unicamente delle informazioni e dei dati conoscitivi appresi all’interno del Consiglio di Amministrazione”.
Unico elemento documentale relativo all’operazione Traffico Telefonico è costituito dalla e-mail del 31.01.2005 “a lui non direttamente indirizzata ma di cui era stato destinatario solo per conoscenza”.
Del resto si trattava della presentazione collocata nella fase genetica dell’opportunità commerciale in azienda “da cui era impossibile inferire l’esistenza di elementi di illiceità della transazione e, a fortiori, di dati che portassero a fondare la sua consapevolezza della predisposizione di quanto necessario a realizzare la ”frode carosello“.
NON ESISTE IL REATO ASSOCIATIVO
Per queste ragioni deve “parimenti escludersi la fondatezza della tesi di accusa relativa al coinvolgimento degli imputati Mario Rossetti e Silvio Scaglia nell’associazione a delinquere a loro contestata al capo 1 di imputazione.
I nomi dei due imputati, mai sottoposti ad attività intercettiva, tra l’altro non risultano mai essere emersi neppure “indirettamente” nell’ambito dei colloqui tra i sodali captati sulle altre utenze controllate, in cui non sono mai neppure citati nel corso delle migliaie di conversazioni registrate”.
Il reato associativo non c’è. Roberto Contin assolutamente estraneo ai fatti a lui contestati.
“Si impone, pertanto, l’esito assolutorio del giudizio a carico dell’imputato, di cui risulta acclarata l’assoluta estraneità ai fatti associativi a lui contestati, per non aver commesso il fatto”.
Così la Corte della prima sezione penale del Tribunale di Roma ha stabilito la piena innocenza di Roberto Contin, responsabile dell’area Large Account di Fastweb, rispetto alle accuse di complicità, assieme ai vertici aziendali di Fastweb, nella realizzazione di “una delle più grosse truffe in materia di Iva” compiuta da una banda criminale.
La sentenza, emessa dopo un lungo processo (dal 23 novembre 2010 al 17 ottobre 2013) che ha registrato 147 udienze e centinaia di testimonianze, ha così contestato le conclusioni della Procura che dalle dichiarazioni rese da Giuseppe Crudele aveva “enucleato gli elementi di prova granitica della responsabilità degli odierni imputati”. In realtà, rileva la sentenza emessa dal Tribunale a fine ottobre “l’istruttoria dibattimentale ha fornito la prova granitica del fatto che nessuno tra coloro che ebbero ad operare all’interno delle varie aree funzionali di Fastweb, ciascuno in relazione ai propri ruoli operativi, ebbe a percepire l’esistenza di quelle macroscopiche atipicità che fondano il giudizio di penale responsabilità ipotizzato dall’accusa”.
LE PROVE DELL’EVIDENTE ESTRANEITA’ DEL MANAGER
Per quanto riguarda in particolare Contin, cui era stata contestata unicamente la partecipazione all’associazione a delinquere aggravata dalla trasnazionalità, è emersa la sua “evidente estraneità” ai fatto contestati. “Le dichiarazioni rese dal Contin – si legge ancora – appaiono convincenti e sono corroborate dalla complessiva ricostruzione della vicenda emersa dal dibattimento”.
In particolare “convincente è innanzitutto la dichiarata mancata consapevolezza della presenza del Focarelli dietro l’operazione traffico telefonico…circostanza può ritenersi addirittura documentalmente provata alla luce di quella e-mail inviata da Carlo Focarelli a Giuseppe Crudele (“domani ci sono anche io a pranzo, cerca di non far venire R.C. a pranzo cosi parliamo“) spiegata da quest’ultimo, in modo davvero poco convincente, come la conseguenza dei pregressi rapporti conflittuali tra i due”.
“Altrettanto convincente - si legge ancora – la dichiarata assenza di un ruolo concretamente operativo dell’imputato nel concreto svolgersi della relazione commerciale…mentre non è irrilevante l’aspetto dell’assenza di un concreto profitto derivato dall’operazione”.
Ulteriore aspetto inconciliabile con tesi di una partecipazione del Contin nella compagine associativa descritta al capo 1 di imputazione è la mancata selezione del Crudele, nell’ipotesi accusatoria suo sodale, nella rosa dei candidati alla dirigenza.
A completare il quadro, infine, contribuiscono le affermazioni rese dallo stesso capitano Meoli della Guardia di Finanza (l’ufficiale della Guardia di Finanza che ha guidato le indagini, ndr) che ha rilevato come “dalla complessiva attività di indagine svolta non erano emersi flussi finanziari oggetto di indagine che lo riguardassero, né una qualunque forma di partecipazione a una qualsiasi società della filiera”.
NESSUN CONTATTO CON FOCARELLI
Infine, dalle intercettazioni cui Contin è stato sottoposto, “non è stata captata nessuna telefonata di rilievo, né in termini di conversazioni né, finanche, di contatti personali (neppure via e-mail) con alcuno dei sodali, men che mai con Carlo Focarelli”.
Di qui l’esito assolutorio del giudizio a carico dell’imputato, di cui risulta acclarata l’assoluta estraneità ai fatti associativi a lui contestati al capo 1 di imputazione, per non aver commesso il fatto.
Ecco perché Scaglia è innocente | Un anno fa la sentenza che ha scagionato l’imprenditore
Le motivazioni dell’assoluzione nelle 1.800 pagine della Corte della Prima Sezione penale del tribunale di Roma: “Non c’è prova del concreto coinvolgimento o della consapevolezza degli illeciti”. “Non è dimostrata né dimostrabile – si legge infatti nella sentenza – la conoscenza di quel portato probatorio formidabile costituito dagli esiti della complessa attività rogatoriale”.
A questo link la sentenza integrale
Un anno fa, il giorno 17 di ottobre, il collegio giudicante della prima sezione penale del tribunale di Roma presieduta da Giuseppe Mezzofiore, ha assolto con formula piena l’ingegner Silvio Scaglia e gli altri manager di Fastweb e di Telecom Italia Sparkle coinvolti nel processo per l’Iva Telefonica. Nel corso dell’inchiesta lo stesso Scaglia è stato sottoposto a custodia cautelare prima a Rebibbia (90 giorni) poi agli arresti domiciliari, nonostante avesse fatto immediato rientro in Italia dall’estero dopo aver avuto notizia del mandato d’arresto.
A pochi giorni dal primo “compleanno” della sentenza, frutto di 147 udienze in 35 mesi (dal 23 novembre 2010 al 17 ottobre 2013), il Blog rivisita le motivazioni alla base dell’assoluzione dell’ingegner Scaglia, assieme ad alcuni flash che emergono dalla sterminata mole documentale e testimoniale vagliata dal Collegio prima di giungere al verdetto. 1.800 pagine in cui viene smontata l’ipotesi, mai provata, del presunto collegamento tra il manager e i protagonisti di una truffa Iva maturata nell’ambito della malavita organizzata.
La sentenza, oltre a ripagare (per quanto possibile) i danni subiti da Scaglia e da altri cittadini onesti, è la dimostrazione che, per fortuna, la Giustizia può ancora trionfare.
SMONTATO IL TEOREMA DELL’ ACCUSA
Le accuse della Procura partivano “dall’asserita esistenza di un’associazione a delinquere tra manager di società e grossi gruppi criminali grazie ai quali è stata possibile la realizzazione di una delle più grosse truffe in materia di Iva”. In sintesi, i criminali, sia nel caso delle Phuncard che del Traffico Telefonico si sarebbero serviti delle casse delle società di telecomunicazioni Fastweb e Telecom Italia Sparkle per “avere la liquidità necessaria per determinare il carosello e dal canto loro alcuni manager si sarebbero serviti delle operazioni fittizie per raggiungere obiettivi di fatturato, ricavi e margine funzionali a quello che viene definito abbellimento di bilanci”.
PERCHE’ SCAGLIA E’ INNOCENTE
1) SCAGLIA E’ ESTRANEO AI FATTI
Dopo aver esaminato le operazioni, il Collegio ha espresso un “netto giudizio sulla totale estraneità ai fatti degli imputati Silvio Scaglia e Mario Rossetti”. “Non è dimostrata né dimostrabile – si legge nella sentenza – la loro conoscenza di quel portato probatorio formidabile costituito dagli esiti della complessa attività rogatoriale”. In particolare, per quanto riguarda le Phuncard (attività di intermediazione di carte prepagate con un codice che avrebbe dovuto consentire all’acquirente il diritto di accesso a contenuti digitali) “l’attenta analisi di tutte le emergenze dibattimentali non consente di ritenere che l’utilizzazione nella dichiarazione Iva dagli stessi predisposta, approvata e sottoscritta relativa all’anno 2003 delle fatture emesse da CMC s.r.l. e Web Wizard s.r.l. sia stata supportata dalla consapevolezza della fittizietà dell’intera transazione”.
Di qui la “doverosa assoluzione dell’imputato al capo 2 di imputazione (dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti n.d.r.), perché il fatto non costituisce reato”.
2) LA SOCIETA’ NON POTEVA SCOPRIRE LA TRUFFA
Nella sentenza si prende atto, tra l’altro, che le società non avevano a disposizione gli strumenti necessari per smascherare la truffa: “in effetti solo la completa ricostruzione dei flussi finanziari – come schematizzati dal capitano Meoli – ed il completo e complessivo disvelamento delle fittizie relazioni contrattuali tra le società cartiere artatamente predisposte al fine di giustificare i vari passaggi di denaro, avrebbe potuto ragionevolmente indurre gli imputati (e, in generale, i vertici dell’azienda) a riconoscere valenza sospetta al finanziamento in essere tra fornitore e cliente, come tassello fondamentale della frode carosello. Ma una tale portata conoscitiva, raggiunta dagli inquirenti unicamente proprio grazie agli accertamenti conseguenti ad una complessa ed articolata attività rogatoriale era, in una prospettiva interna all’azienda e sulla base di una ricostruzione ex ante, evidentemente fuori dalle dimensioni dei manager aziendali”.
Al proposito, tra l’altro, la Corte rileva “l’assoluta coincidenza e coerenza tra le deposizioni rese da Silvio Scaglia e Mario Rossetti rispetto a quanto è stato riferito da tutti i testi escussi” mentre non può in alcun modo assurgere al rango di prova la “sensazione” espressa da Micheli Francesco”, a proposito dell’incidenza di Scaglia nelle decisioni relative a tutte le operazioni commerciali.
Per quanto riguarda la decisione di proseguire il commercio delle Phuncard, la sentenza fa del resto notare che “non può considerarsi indifferente … la circostanza che sia Carlo Micheli, mai neppure sfiorato dal sospetto di complicità nell’ambito delle complesse e articolate attività di indagine compiute, il soggetto che del tutto spontaneamente propone di proseguire, a valle del parere Rossi, con l’operazione commerciale nel mese di agosto, ma anche colui che suggerisce la modifica dell’oggetto sociale, consentendo in concreto la prosecuzione dei rapporti con CMC nel secondo segmento temporale dell’operazione.
3) SCAGLIA NON POTEVA SAPERE
La sentenza contesta poi l’assunto della Procura per cui Silvio Scaglia, in virtù della posizione di assoluto vertice in azienda, non poteva non sapere. Al contrario, dopo aver citato perizie e consulenze che hanno sottolineato “l’assoluta irrilevanza delle attività no core nella prospettiva degli investitori e, in generale, del mercato finanziario” nella sentenza si rileva che la partecipazione di Scaglia alla vita di Fastweb “nel corso dell’operazione traffico telefonico era stata minima, circostanza comprovata dall’assenza di qualsivoglia contributo (e-mail, comunicazioni anche telefoniche) negli aspetti decisori della vicenda”.
Per queste ragioni, il Tribunale ritiene che non sia stata raggiunta la prova della sua penale responsabilità in ordine al reato di infedele dichiarazione IVA contestato ai capi 5 e 8 di imputazione, essendo totalmente carente la prova della sussistenza dell’elemento soggettivo.
Infine, va esclusa la fondatezza dell’accusa di associazione a delinquere per gli imputati Mario Rossetti e Silvio Scaglia a loro contestata al capo 1 di imputazione.
I nomi dei due imputati, si legge ancora, non risultano mai essere emersi neppure “indirettamente” nell’ ambito dei colloqui tra i sodali captati sulle altre utenze controllate, in cui non sono mai neppure citati nel corso delle migliaie di conversazioni registrate. E’ rilevante, inoltre, il fatto che “neanche dagli imputati di reato connesso, che tanto peso hanno avuto nella ricostruzione complessiva della vicenda, sono derivate dichiarazioni accusatorie nei confronti dei due imputati”.
A questo link è possibile scaricare la sentenza completa.
A colloquio con Vincino
Il «Disegnatore a difesa» torna sul Blog per raccontare la sua esperienza di romanziere da Tribunale… e per augurare a tutti voi buone feste!
Vincino, come mai hai deciso di aderire alla causa di Scaglia?
Perché fin dal primo momento ho avuto il sentore che ci fosse qualcosa di ingiusto. Ho voluto essere il testimone di quello che stava accadendo. Ma mi sono anche divertito. Ho disegnato me stesso nella parte del «disegnatore a difesa»: è stato come essere immerso in un teatro comico ed ho osservato i riti, ascoltato il linguaggio ed ero quasi sempre (purtroppo) l’unico rappresentante tra i narratori di “pubblico servizio”. Diciamo che facevo il supplente della stampa. Un po’ per senso del dovere, ma anche per bisogno, perché non mi piace costruire il mio lavoro sulla base dei racconti altrui. Sono un grande osservatore e mi documento molto. Voglio vedere di persona, per capire al meglio e tutto. Poi narro con il disegno. Come facevo mentre ero studente di Architettura quando passavo le mie giornate nelle chiese e nei palazzi per osservare la gente e carpire le loro storie. Per capire e far capire agli altri.
A processo concluso, cosa ti è rimasto della tua esperienza di “Disegnatore a difesa”?
Proprio l’altro giorno ho ripreso in mano i taccuini con i miei schizzi sul processo “Iva Telefonica”. Riguardando i disegni prodotti in 2 anni e mezzo su 90 blocchi ho scoperto una cosa: ho disegnato tantissimo i PM ma molto anche il Presidente con un’espressione arrabbiata, stufa, quasi annoiata. I miei appunti disegnati in tempi diversi rivelano un presidente che non capiva in che processo era capitato. Lo story board del processo rappresenta una radiografia psicologica di ogni personaggio presente in Tribunale: se avessi rivisto tutti i miei disegni il giorno prima della sentenza avrei tranquillamente potuto scommettere che i manager telefonici imputati sarebbero stati assolti dal Collegio giudicante. Non ho mai visto il presidente convinto dai PM. Il ritratto che già emergeva dai miei taccuini è quello di un Tribunale attento. Disegnare in un Tribunale è un lavoro stupendo che consente di dar forma ed espressione ai profili psicologici dei personaggi, momento per momento. Leggere attentamente nell’animo del potere e raccontare: alla fine è questo il lavoro da romanziere di un disegnatore.
Ti hanno assegnato il VI Premio Bruno Leoni per la tua battaglia civile a difesa di Silvio Scaglia e della situazione delle nostre carceri. Per il tuo essere un «happy warrior» mai stanco di combattere arroganza intellettuale e pregiudizi”. Cosa ha significato per te questo riconoscimento?
È stata una piacevolissima sorpresa. Mi avevano invitato a partecipare alla cena del Premio, non sapevo nulla. Ho apprezzato moltissimo non solo quanto mi è stato assegnato ma soprattutto la motivazione. Mi considerano un “happy warrior”, sono così di natura. Il disegno, più della parola, è uno strumento in grado di rendere “happy” il racconto, per me non può essere uno strumento di odio. Non riesco ad odiare neppure quando disegno una persona maligna. Io racconto l’umanità nella sua massima espressione. Come potrei odiarla?
Cosa non avresti mai voluto dover disegnare?
Mi è successo… e non l’ho disegnata.
L’intervista a Mario Rossetti su TEMPI.IT: «Quello che mi è capitato non dovrebbe accadere a nessuno»
«Ho passato 100 giorni in galera da innocente perché “non potevo non aver capito”»
L’ex CFO di Fastweb, dopo l’assoluzione, rilascia un’intervista a Francesco Amicone. E alla domanda sul funzionamento o meno della giustizia italiana, Rossetti risponde: «Il nostro Codice di Procedura Penale è molto garantista, ma i giudici ne hanno applicato un altro, materiale, che non ha nulla a che vedere con quello scritto». «I PM – aggiunge Rossetti – non si sono voluti arrendere agli esiti della fase dibattimentale del processo. Nel mio caso sono arrivati a chiedere una condanna a 7 anni. Eppure non sono avvocati dell’accusa. Sono giudici, tutelati come tali. Ma nonostante la mancanza di prove, non hanno mai rinunciato alla loro teoria».
Leggi qui l’intervista.