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“Iva Telefonica”. Si riparte il 17
Udienza brevissima quella del processo “Iva Telefonica” celebrata questa mattina presso la Prima Sezione penale del Tribunale di Roma. Il proseguimento dell’esame da parte dell’accusa del capitano dei ROS Francesco De Lellis è stato infatti interrotto anticipatamente e rinviato
Questa mattina, davanti al Collegio giudicante presieduto dal Dott. Giuseppe Mezzofiore, è proseguito l’esame del capitano De Lellis. Un intervento breve in cui sono stati descritti alcuni investimenti che sarebbero stati effettuati dal “gruppo” che, secondo l’accusa, faceva capo a Gennaro Mokbel.
Nel corso dell’esame è stata anche data lettura di passaggi delle trascrizioni di alcune intercettazioni telefoniche tra Mokbel e l’ex senatore del PdL Nicola Di Girolamo condannato con patteggiamento a luglio 2011 a cinque anni di pena e al risarcimento di 4,2 milioni di euro all’Erario.
Il Tribunale ha rinviato direttamente all’udienza del 17 gennaio annullando così quella fissata per domani.
“Iva Telefonica”. Prosegue l’esame di De Lellis
Si è svolta ieri la prima udienza del 2012. In aula, presso la Prima Sezione penale del Tribunale di Roma, il Capitano dei ROS Francesco De Lellis per il proseguimento del suo esame da parte dell’accusa
Nel corso dell’udienza sono stati esaminati alcune vicende del rapporto tra Augusto Murri (già condannato dal GUP ad una pena di cinque anni) e Gennaro Mokbel. Proprio quest’ultimo, a tal proposito, ha svolto un intervento difensivo che è nato a seguito dell’ascolto di alcune intercettazioni.
Durante il suo esame, il Capitano De Lellis ha inoltre testimoniato sui rapporti tra Gennaro Mokbel e il Maggiore della Guardia di Finanza Luca Berriola e tra Mokbel ed alcuni appartenenti alle Forze dell’ordine come Fabrizio Magi, già sottufficiale dei Carabinieri appartenente alla DIA, e condannato in Primo grado con l’accusa di “rivelazione dl segreto d’ufficio”. L’esame del Capitano dei ROS Francesco De Lellis proseguirà domani, 12 gennaio.
“Iva Telefonica”. La prima udienza del 2012
Dopo la pausa feriale riparte questa mattina il processo “Iva Telefonica” presso la Prima Sezione penale del Tribunale di Roma. Davanti al Collegio presieduto da Giuseppe Mezzofiore, come da programma, continuerà l’esame del capitano dei ROS Francesco De Lellis
Fattore Umano | L’inferno di Petrusa
Un’interrogazione dell’On. Bernardini dopo la visita ispettiva nella casa circondariale di Agrigento: dove non funziona il riscaldamento, è complicato lavare se stessi e le celle, mancano agenti, psicologi e assistenti. E c’è chi va in giro con due scarpe diverse, perché non ha i soldi per comprarle
Manca pure il riscaldamento. Laconico, il comandante di Polizia penitenziaria osserva: «In sette anni non è mai entrato in funzione». Cose che capitano nel carcere di Agrigento, sovraffollato come tutti gli altri in Italia: 421 detenuti ristretti, a fronte di una capienza regolamentare di 250 posti. Di questi, poco più della metà scontano una condanna definitiva, gli altri sono in attesa di giudizio.
Il 30 dicembre scorso c’è stata la visita ispettiva dell’onorevole radicale Rita Bernardini, da cui è nata un’interrogazione rivolta al Ministero della Giustizia.
Nella sezione Asia, in celle da 8 mq, previste in origine per un solo detenuto, ne convivono 2 o 3, a seconda dei periodi, messi in pila su letti a castello. Non ci sono le docce e le celle appaiono in condizioni pessime: «I tubi sono marci e ci sono problemi di manutenzione, abbiamo problemi di budget», dice chi vi lavora in condizioni altrettanto problematiche.
Le difficoltà riguardano poi anche altri aspetti: l’assistenza sanitaria, il monte ore degli psicologi (si stima un disagio psichiatrico nell’ordine del 15 per cento dei ristretti), ci sono detenuti che non hanno i soldi nemmeno per le ciabatte, e il detersivo per pulire viene dato una volta al mese «e finisce sempre in 14 giorni». Insomma non si riesce neanche a lavarsi e a pulire gli ambienti, come si dovrebbe.
Forse è per questo che un detenuto romeno, con condanna definitiva, arriva ad esclamare una cosa del genere: «Sono stato in carcere in Germania, Russia e Romania, ma qui è peggio».
Fattore Umano | L’emergenza è urgenza
A colloquio il Presidente de Il carcere possibile Onlus, l’avvocato Riccardo Polidoro. «Non è possibile – dice – che per agire sulle carceri si debba giungere a un morto ogni due giorni. Le linee illustrate dal ministro Severino sono in larga misura condivisibili, ma occorre che dagli annunci si passi ai fatti»
L’Associazione Il carcere possibile nasce nell’aprile del 2003 come progetto promosso dalla Camera Penale di Napoli, su iniziativa dell’avvocato Riccardo Polidoro, all’epoca componente della Giunta dell’Associazione.
Siamo in stato di “emergenza carceraria”. A suo avviso, ci si sta muovendo nella giusta direzione per affrontare il problema?
Il nuovo Ministro della Giustizia ha messo in moto la macchina legislativa, finalmente, in una direzione giusta, contrariamente a quanto avvenuto in passato. La riforma annunciata agli inizi del 2010 dal Ministro Alfano, anche se fosse stata attuata, non avrebbe risolto alla radice le problematiche relative alla detenzione. Allora, si faceva riferimento a 4 pilastri: 1) Edilizia Penitenziaria; 2) Arresti Domiciliari per coloro che dovevano scontare un residuo di pena di un anno; 3) Messa alla prova; 4) Assunzione di 2.000 agenti di polizia Penitenziaria. Tali proposte, delle quali solo la seconda ha trovato parziale applicazione e con risultati di gran lunga inferiori alle aspettative, si muovevano in un’ottica “carcerogena”, nel senso che si voleva risolvere il sovraffollamento costruendo nuovi spazi detentivi, con il risultato aberrante che ci sarebbero volute sempre più carceri, visto l’aumento costante della popolazione detenuta.
Cosa è cambiato?
Il Ministro Severino ha annunciato di voler coltivare una strada del tutto diversa, con una riforma che veda con favore: 1) le misure alternative al carcere; 2) l’applicazione di pene, già in sede di condanna, diverse dalla detenzione; 3) la depenalizzazione di alcuni reati con ricorso a sanzioni amministrative, per impegnare i Giudici Penali in processi di effettiva rilevanza sociale e accelerare la stessa celebrazione dei processi con riduzione della custodia cautelare; 4) l’uso di dispositivi per il controllo a distanza dei detenuti agli arresti domiciliari, cosa che favorirebbe la concessione di tale misura; 5) la realizzazione di una Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti.
Con quali conseguenze?
Tali annunci – perché, allo stato, di annunci si tratta – se effettivamente realizzati, unitamente alla rivisitazione di alcune norme, come quelle sull’immigrazione e gli stupefacenti che prevedono pene detentive inutili e eccessive, porterebbero ad un’immediata risoluzione del sovraffollamento, nel rispetto del principio sacrosanto della “certezza della pena”.
Manca qualcosa, dunque?
Manca, da sempre, una concreta volontà di risolvere il problema, perché l’argomento non è popolare, non porta consenso. Non è possibile che per agire, e speriamo lo si faccia, si debba giungere ad un morto nelle carceri ogni due giorni, come è avvenuto in questi due ultimi anni.
Quali, a suo avviso, le prospettive per il 2012 rispetto al piano del Governo per affrontare l’emergenza nelle carceri italiane?
Se parliamo di “prospettive”, quello appena iniziato potrebbe essere l’anno della svolta. Ma mi si consenta di essere diffidente, avendo assistito a troppe dichiarazioni d’intenti, poi non realizzati, che hanno illuso la popolazione detenuta, già colpita da ingiuste sofferenze. Penso al primo provvedimento del Governo in materia, ad esempio, il Decreto Legge, in vigore dal 23 dicembre scorso. Ritengo, infatti, che non tenga conto delle reali condizioni del Paese: viene stabilito che gli arrestati in flagranza non transitino più negli Istituti di pena, ma vengano “custoditi”, in attesa del giudizio direttissimo, nelle celle di sicurezza del Corpo di Polizia che ha eseguito l’arresto. Tale norma, se da un lato consentirà forse meno ingressi in carcere, aggraverà i compiti della Polizia Giudiziaria, che non è affatto in grado di gestire una tale situazione, per carenza di strutture, di mezzi e di uomini. Inoltre il detenuto sarà portato in una cella non attrezzata e per di più sorvegliata da coloro che lo hanno arrestato. Per il detenuto sarà senz’altro peggio. Inoltre, proprio per tali carenze, si arriverà ad un aumento delle convalide e alla diminuzione dei giudizi direttissimi, nel senso che, pur di non custodire gli arrestati in luoghi non idonei, questi verranno tradotti direttamente in carcere a disposizione del GIP. A conferma di quanto sto dicendo, basta pensare alla polemica tra il Vicecapo della Polizia di Stato Francesco Cirillo e il Ministro Severino. Il primo ha dichiarato che le celle di sicurezza sono troppo poche e non rispettano gli standard minimi di dignità e sicurezza. Secondo Cirillo insomma i detenuti stanno molto meglio in carcere e vi sono gravi problemi di organico che non consentono di sorvegliare gli arrestati.
Fattore Umano | Capodanno a Rebibbia
Roberto Giachetti, deputato PD, racconta la notte del 31 dicembre nel carcere di Rebibbia con Marco Pannella, tra 1735 detenuti (il doppio dei posti disponibili). Perché «nessuno si senta escluso»
È l’una e cinquanta circa, Fabrizio coriaceo agente del G8 di Rebibbia si toglie il gusto di una domanda che, si vede, ha sulla punta della lingua da quando Pannella è entrato per visitare il suo reparto: «Scusi onorevole ma a lei ad 82 anni con tutto quello che ha fatto chi glielo fa fare di stare qui a quest’ora il giorno di Capodanno?». Eggià è la domanda che si legge sul voto di tutti coloro che assistono ai suoi sopralluoghi come “consulente” (il paradosso è che lui che conosce tutte le carceri d’Italia, che ha passato una parte della sua vita lì dentro, come ospite e come ‘ispettore, ma sempre per scelta, non essendo più “onorevole” può entrare solo come assistente di un parlamentare), nei penitenziari italiani.
La risposta sarebbe semplicissima se fosse possibile mostrare cosa accade nella “comunità” quando Marco vi entra, se fosse possibile far ascoltare il concerto poliglotta di parole di Amicizia che si leva non solo quando compare ma anche semplicemente quando dall’ultima cella del lungo corridoio viene percepito il timbro indistinguibile della sua voce e che lui alza ad arte per far si che «nessuno si senta escluso». Occorrerebbe poter vedere il linguaggio del suo corpo quando incontra i figli della Comunità, la sua Comunità.
Fattore Umano | Buon anno a Rita (e a tutti i 68mila detenuti accatastati)
Pubblichiamo un articolo scritto dall’On. Bernardini per il settimanale Gli altri, dedicato alle buone ragioni per un’amnistia. Un atto di clemenza, ma non solo. Soprattutto un atto di buonsenso giudiziario, in un Paese dove la giustizia non funziona. Dove lo stato non “detiene” ma “sequestra”, troppo spesso in modo illegale
È la sicurezza, bellezza! È in nome della sicurezza che in Italia c’è una parola bandita, nonostante sia espressamente prevista dall’articolo 79 della Costituzione che recita «l’amnistia e l’indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera».
Di amnistia non si può parlare in TV e Marco Pannella, che la propone dal 1977, viene fatto passare per un pazzo-maniaco quando (raramente) un TG (Rai o Mediaset, non fa differenza) gli concede quei 20 secondi in cui letteralmente strozzato urla che c’è uno Stato criminale che non “detiene” ma “sequestra” nelle carceri 70.000 persone e che si comporta come un delinquente professionale, lasciando morire al ritmo di 200.000 all’anno procedimenti che si accumulano a milioni: 5.200.000 quelli penali e 5.400.000 quelli civili. In 34 anni (nel 1977 i procedimenti penali pendenti erano “solo” due milioni) sul tema dell’Amnistia mai un confronto in TV, un faccia a faccia, un dibattito.
Rarissimamente salta fuori un “armadietto della vergogna“, come ha scritto Il Fatto del 25 novembre scorso, per scoprire che a Bologna ci sono 8.500 fascicoli dimenticati e che la Procura ha chiesto l’archiviazione per prescrizione di 3.300 fascicoli per reati tra i quali furti, truffe, ricettazioni e contravvenzioni in tema ambientale. È questa la “sicurezza” che offre ai cittadini lo Stato italiano? Certo, rende di più elettoralmente tacere dell’amnistia mascherata delle prescrizioni, piuttosto che assumersi la responsabilità di approvare un’amnistia che riduca i procedimenti penali a un numero gestibile che, peraltro, consentirebbe di recuperare risorse umane e finanziarie di cui tanto la giustizia penale, quanto quella civile hanno un bisogno vitale.
Mai è stata fatta un’inchiesta per sapere, Procura per Procura, quali reati riguardino ogni anno i 183.000 processi che muoiono nel silenzio più totale, ma una casta finora invincibile è pronta a immolarsi per salvaguardare un principio impraticabile che esiste solo in Italia, quello dell’obbligatorietà dell’azione penale: tutti i reati devono essere forzatamente perseguiti per una questione – dicono – di uguaglianza dei cittadini. Poi, certo, le scrivanie traboccano di fascicoli e gli “armadietti” custodiscono quelli destinati a morire.
Diventa così un gioco da bambini scegliere senza nessuna regola i processi da celebrare e quelli da ignorare e chi fa queste scelte di politica giudiziaria è persona che, per quanto professionalmente qualificata, è un dipendente dello Stato che ha vinto un concorso, che fa una carriera pressoché automatica e che, soprattutto, non è stato eletto da nessuno e non ha l’onere di rendicontare sulle sue scelte.
Fatto sta che è proprio la sicurezza percepita dai cittadini (non quella reale che dimostra da anni che i reati sono in calo e che la recidiva è molto più alta fra chi sconta tutta la pena in carcere rispetto a chi accede alle misure alternative) a spingere le forze politiche a ignorare qualsiasi principio di legalità. A niente servono le continue condanne che l’Italia subisce in sede europea. È almeno dal 1980 che il Consiglio d’Europa denuncia il fatto che «i ritardi della giustizia in Italia sono causa di numerose violazioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo» e che tali ritardi «costituiscono un pericolo effettivo per il rispetto dello stato di diritto in Italia». Del tutto ignorato è stato il rapporto sulla giustizia in Italia, del commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Alvaro Gil-Robles, che sei anni fa stimava che «circa il 30 per cento della popolazione italiana era in attesa di una decisione giudiziaria». Per non parlare delle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’uomo che costantemente puniscono il nostro Paese per trattamenti disumani e degradanti nelle carceri.
Ciò che preoccupa è che a dimostrare disprezzo per lo stato di diritto non sono solo i partiti giustizialisti, che per tali vogliono presentarsi agli elettori. Proprio recentemente abbiamo ri-ascoltato dichiarazioni in ambito PD che liquidavano la proposta di amnistia con queste parole: «No a indulti o amnistie. È come il condono: non si può e non si deve svuotare il principio di legalità» (Donatella Ferranti) o che, nella discussione parlamentare sull’acquisizione delle intercettazioni telefoniche dell’On. Romano, si auguravano che il deputato in questione «possa dimostrare la sua innocenza» (Marilena Samperi).
Dove sia la legalità nelle attuali condizioni di detenzione o nei milioni di procedimenti arretrati, l’ex PM On. Ferranti non lo spiega; mentre l’On. Samperi (Vice procuratore onorario) sembra disconoscere l’elementare principio per il quale non è l’imputato a dover dimostrare di essere innocente, ma la pubblica accusa ad avere l’onere della prova di colpevolezza. Il nodo che va sciolto all’interno del PD è la legittimità di questa linea politica che si impone su tutte le altre voci che pur ci sono, a partire dal responsabile giustizia, Andrea Orlando; voci che però non riescono ad affermarsi. Lo stesso Massimo D’Alema oggi tace. Eppure nel 2005, quando partecipò alla Marcia di Natale organizzata dai radicali (quando i detenuti erano diecimila in meno di oggi!) affermò che «chi dice di no all’amnistia, se ne assumerà la responsabilità» e che «si parla da troppo tempo di un gesto di clemenza; tanti dibattiti ma non si è fatto niente mentre bisogna far presto».
Sì, «fare presto», perché «occorre esigere che il nostro Stato interrompa la flagranza di reato contro i Diritti Umani e contro la Costituzione italiana», così urla – ancora in un grido inascoltato – Marco Pannella.