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Custodia Cautelare: Italia fanalino di coda, dice l’ONU
“La percentuale dei detenuti in attesa di giudizio è molto più alta in Italia che in ogni altro Paese europeo, di grandi o medie dimensioni dell’Europa occidentale”.
È questa la conclusione cui perviene, in un documento datato 25 gennaio 2009, il gruppo di lavoro sulla “detenzione arbitraria” nell’ambito dell’assemblea generale delle Nazioni Unite. In particolare, continua lo studio, solo quattro detenuti su dieci stanno scontando in Italia una pena definitiva. Al contrario, secondo i dati raccolti dall’Onu, il 28,5% della popolazione carceraria è in attesa del giudizio di primo grado, cui va aggiunto un altro 17 per cento detenuto in vista dell’appello e un 6 per cento, infine, che è in attesa della pronuncia della Cassazione.
Questa situazione intollerabile, che ha portato a ripetute condanne dell’Italia presso la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, non è giustificata da un principio giuridico generale , bensì è il frutto dell’applicazione, caso per caso, di scelte dettate dalla contingenza delle indagini. Il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite, al proposito, rileva che le proteste contro le detenzioni illegali nel sistema penale italiano hanno “ampio e giustificato fondamento”.
La situazione appare ancora peggiore secondo altri studi comparati, quale quello condotto dal King’s College di Londra che ha realizzato il censimento sulla popolazione carceraria mondiale “in attesa di giudizio”. Anche in questo caso, basato su dati del giugno 2007, l’Italia si trova in una situazione imbarazzante, almeno a livello europeo. Solo la Turchia, infatti, registra una popolazione carceraria in attesa di sentenza in proporzioni più elevate: più di 52 mila detenuti, ovvero il 60,9% del totale, pari a 71 persone su 100.000 abitanti. In Italia, la percentuale è di poco inferiore: il 58,3%, ovvero 44 detenuti su 100.000 abitanti per un totale di 25.855 detenuti.
Tale percentuale, per fare un paragone, scende al 16,5% in Inghilterra e Galles o al 14,/ % in Polonia. Solo Olanda, Francia e Serbia accusano percentuali tra il 30 e il 40 per cento. Certo, la rapidità del giudizio non è l’unico né il principale metro dell’equità di un giudizio, ma l’abuso della carcerazione preventiva, come nota l’Onu, fa sorgere il sospetto che in Italia“essa sia usata come un mezzo investigativo abituale per spingere gli imputati a confessare o ad incriminare altri in cambio della scarcerazione”.
E non consola, in questo caso, constatare che in Liberia (il 97% dei detenuti è in attesa di giudizio) la situazione sia ben peggiore.
Intervista a Pisapia: carcerazione preventiva utilizzata impropriamente
“Il professor Vassalli pronunciò una battuta folgorante: il giorno della condanna spesso corrisponde con il giorno della scarcerazione. In questo modo il giurista sottolineò il problema della durata della carcerazione preventiva, talvolta più lunga della pena. Ma, potremmo aggiungere: non di rado il giorno della sentenza corrisponde con quello dell’assoluzione”.
Parla così Giuliano Pisapia, penalista, già presidente della commissione Giustizia, da sempre attento critico delle disfunzioni della giustizia.
Ma Vassalli parlava ai tempi del codice Rocco. Non è cambiato niente da allora?
“Per la verità sì. Dopo la riforma del 1989 c’è stata un’inversione di tendenza. Ma da un paio di anni si è tornati alla situazione precedente”.
Colpa della legge?
“Assolutamente no! La legge che prevede tre estremi tassativi per la carcerazione preventiva è ottima. Il fatto è che, spesso, le richieste dei pm vanno al di là di questi vncoli, così come le decisioni del giudice che emette l’ordinanza di custodia cautelare. Il risultato è che, sovente, le motivazioni della carcerazione non si basano su fatti concreti, ma su formule di rito”.
Quali sono le ragioni di questa applicazione sbagliata della legge?
“Innanzitutto, la carcerazione preventiva viene spesso utilizzata, impropriamente, come strumento per ottenere la confessione dell’imputato o, comunque, per procurarsi le dichiarazioni attese. Questo, naturalmente, violando la presunzione di non colpevolezza dell’imputato. Ci sono poi valutazioni di carattere culturale”.
Cioè?
“E’ sicuramente convinzione di molti magistrati che è molto difficile arrivare, data la situazione della macchina giudiziaria, ad una sentenza che commini una pena ritenuta equa. Non solo: il 50 per cento delle sentenze viene modificata, il più delle volte diluita, nei gradi successivi di giudizio. Di qui, sapendo che non ci sarà una punizione, ecco la convinzione che la custodia cautelare sia una sorta di anticipo della pena che comunque non sarà scontata per intero. Anche in questo caso, naturalmente, si viola il principio della presunzione di innocenza”.
E’ un quadro sconsolante da cui emerge una sostanziale sfiducia nella giustizia.
“C’è un terzo elemento, quello determinante: la mancata separazione delle carriere tra inquirenti e giudici. Tra magistrati che hanno la stessa formazione e che percorrono la stessa carriera, si crea un rapporto che, al di là dell’onestà e dell’imparzialità soggettiva, mette a rischio la terzietà dell’organo giudicante”.
La soluzione, dunque, sta nella separazione delle carriere?
“La legge sulla custodia cautelare, ripeto, è perfetta. Ma l’unico modo per arrivare ad una sua applicazione corretta passa per la separazione delle carriere che rispetti il precetto dell’articolo 111 della carta costituzionale”.
J’ACCUSE/ Scaglia e il caso Fastweb, un esempio di malagiustizia da “studiare”?
Vi proponiamo in versione integrale questo articolo di Sergio Luciano da ilsussidiario.net
Questo nostro Paese ha un suo destino particolare, per il quale spesso le iniziative giuste vengono prese dalle persone sbagliate, e non vanno in porto a causa dell’inadeguatezza dei propri promotori. È il caso della riforma della giustizia che, fin quando sarà propugnata da un governo guidato da Silvio Berlusconi, rischia di non veder mai la luce, lasciando la magistratura italiana in una posizione di inefficiente strapotere, che si risolve in una serie di gravissimi disservizi, continui arbitrii e complessivo crollo di credibilità.
Berlusconi però, in materia, anche se la dice giusta non è credibile: non lo è persino tra alcuni dei suoi stessi grandi elettori. Peccato: perché la malagiustizia è una vera piaga nel cuore del Paese, che ha perso la certezza del diritto sia in sede civile che penale.
Uno dei temi di critica contro i magistrati che Berlusconi, personalmente, pur nel suo feroce quindicennio di polemica con la categoria non aveva ancora toccato, è quello dell’abuso della carcerazione preventiva. C’era stato più che un dibattito un tormentone di dibattito, rigorosamente sterile, tra il ‘92 e il ‘95, negli “anni d’oro” di Tangentopoli, ma nulla era cambiato nell’ordinamento.
Di fatto, i giudizi sommari che, sulla documentazione istruttoria raccolta dai pubblici ministeri per chiedere l’arresto di un imputato o il commissariamento di un’azienda, vengono espressi dal Giudice per le indagini preliminari o, successivamente, dal Tribunale del Riesame, appaiono sempre giudizi psicologicamente e anche tecnicamente subalterni a quelli già espressi dal pm, che quindi di solito si vede accogliere le proprie richieste.
Nel corso di Mani Pulite divenne chiaro a tutti e fu oggetto anche di infinita letteratura pubblicistica il criterio profondamente estorsivo che queste misure cautelari seguivano: “Io ti arresto, tu ti spaventi e collabori, ammettendo le tue colpe e, meglio ancora, chiamando qualcun altro a corredo”.
Ecco: nel caso di Silvio Scaglia, Mario Rossetti e di almeno alcuni altri fra i numerosi indagati dell’inchiesta sulle asserite evasioni dell’Iva con riciclaggio che sarebbero state commesse da Telecom Sparkle e da Fastweb, la letale discrezionalità, la totale autoreferenzialità e l’arrogante aggressività dei pm, nell’assoluta supremazia su Gip e Riesame, sono emerse in tutta la loro chiarezza.
Di fatto, un’inchiesta avviata nel 2007, con un primo giro di interrogatori che non avevano condotto assolutamente a nulla, è stata rianimata dopo tre anni. La tempistica, e la visibilità data agli arresti, ha fatto pensare a tutti che la Procura di Roma cercasse un proprio momento di gloria, di pubblicità, quasi a prescindere dalla concretezza degli addebiti.
Gravissima impressione, certo non comprovata né comprovabile, eppure fondata sul fatto che i meccanismi e le entità delle colpe commesse non sono mai stati chiari all’opinione pubblica, e che poi di fatto gli imputati eccellenti, primo fra i quali Scaglia, non hanno mai ammesso il benché minimo addebito. A dispetto del “torchio” carcerario.
Inoltre, con Scaglia i pm romani si sono trovati di fronte a un osso duro. Psicologicamente molto solido, determinato fino all’inverosimile, Scaglia non s’è spostato di un millimetro dalla linea difensiva semplice e radicale che aveva scelto fin dall’inizio: quella della completa estraneità a ogni addebito.
Finalmente, dopo 87 giorni, lo hanno rimesso in libertà, anche se con ambiti strettissimi di azione. Ma attorno al suo caso – e purtroppo già meno attorno a quello di Mario Rossetti, che di Scaglia in eBiscom-Fastweb era stato direttore finanziario senza responsabilità personali sulla parte commerciale, su cui s’è concentrata l’inchiesta – è nato finalmente un polverone. Che potrebbe sortire qualche conseguenze politica e legislativa. Già, perché perfino i mille “signori Rossi” estranei alla strana vicenda, ma ad essa incuriositi hanno constatato che:
1) I fatti addebitati a Scaglia sono antecedenti alla sua uscita da Fastweb, quindi dopo l’interrogatorio del 2007, l’imprenditore avrebbe avuto tutto il tempo (e le risorse, anche economiche) per tacitare possibili testimoni, inquinare le prove, cancellarle eccetera;
2) Quando gli è stato inviato il mandato di arresto, Scaglia – anziché restare dov’era, in un altro continente – ha preferito spontaneamente presentarsi al pm, rientrando in Italia con un volo privato dall’Oriente: che “pericolo di fuga” legittimava una simile, lineare condotta?
3) Quanto alla reiterazione del reato, Scaglia non poteva perpetrarla, nemmeno se avesse voluto, perché all’interno dell’azienda dal 2007 non contava più nulla. E nella nuova impresa che dirige, Babelgum, si poteva eventualmente instaurare controlli preventivi, senza per questo far fuori lui…
Mancando tutte e tre le condizioni per l’arresto, allora perché? E che gioco nascondeva questa mossa estrema? Pubblicità, sicuramente: perché quello di Scaglia era l’unico nome “altisonante” in un’istruttoria che per il resto, anche in Telecom, coinvolgeva soltanto delle seconde file; e poi pressioni psicologiche.
Ora, le questioni aperte sono due: la prima è quella di metodo, sull’abuso della carcerazione preventiva. Scaglia, amato magari da pochi ma noti e stimato da tanti, ha avuto attorno a sé un movimento d’opinione che ha mosso gente come Umberto Eco o Pierluigi Celli, inducendoli a scrivere la loro testimonianza di stima e la loro incredulità sugli addebiti in un blog vivacissimo lanciato on-line poche settimane dopo l’arresto; e c’è poi stata la saggia iniziativa della moglie, Monica, di scrivere una lettera aperta al presidente della Repubblica, invocandone l’intervento chiarificatore, che di fatto c’è stato.
Solo grazie a questo eccezionalissimo concorso di consenso Scaglia ha rivisto casa sua; e non a caso ha fatto sapere di voler creare, con i suoi tanti soldi, una Fondazione per aitare chi si trovasse nelle sue stesse condizioni senza avere le risorse per difendersi da solo.
C’è poi una questione di merito, ed è l’incosistenza delle accuse: ma su questo è bene far parlare i tempi, pur biblici, con cui la magistratura giudicante si pronuncerà.
Il punto nodale resta però un altro: ed è l’irresponsabilità dei magistrati, a fronte dei devastanti danni esistenziali che generano quando sbagliano. Un referendum sulla responsabilità civile dei giudici, che vent’anni fa prescrisse al legislatore di stabilire appunto l’obbligo dei magistrati di pagare i danni dei loro errori, è rimasto lettera morta.
Mentre è regola costante che, ad esempio, un medico ospedaliero che sbagli, debba pagare i danni alla sua vittima. O un autista dell’Atm che investa il pedone paghi di tasca sua e, eventualmente, rimettendoci il posto. Ma quel che è peggio, neanche la carriera dei giudici risente dei loro errori: il fatto che un pubblico ministero, che richieda il rinvio a giudizio di 100 inquisiti, veda accogliere dai Gip il 100% o il 10% delle sue richieste, non influisce sulla sua carriera; il fatto che i rinviati a giudizio vengano condannati al 100% o al 10% non influisce sulla sua carriera; insomma, che lavorino bene o male, i giudici vanno avanti lo stesso.
Nel ’93, l’allora presidente dell’Eni Gabriele Cagliari venne arrestato per tangenti. Per lui fu un gravissimo trauma. Si aggrappò con la forza della disperazione alla speranza di essere trasferito agli arresti domiciliari. Era la fine di luglio, il pm Fabio De Pasquale aveva in mano la richiesta degli avvocati di Cagliari, primo fra tutti Vittorio D’Ajello. Racconta D’Ajello che De Pasquale promise di valutare la richiesta di scarcerazione entro un determinato giorno; e che per di più – ma questa era un’interpretazione dell’avvocato – che si era mostrato favorevole ad accoglierla.
Alla vigilia della data indicata, a D’Ajello che cercò il giudice risposero in cancelleria che se n’era andato in vacanza e che sarebbe tornato a fine agosto. L’avvocato non potette che riferire la circostanza al detenuto. Il quale all’indomani si soffocò nelle docce con un sacchetto di cellophan stretto attorno alla testa. E morì. Fabio De Pasquale è ancora pubblico ministero a Milano, e ha sostenuto l’accusa nel processo a David Mills e a Silvio Berlusconi.
REPUBBLICA: Reati, titoli e foto impunite
“Dai furbetti del quartierino a Fastweb. Senza intercettazioni reati impuniti”. Così titola “Repubblica” uno dei tanti servizi contro il disegno di legge sulla disciplina delle intercettazioni telefoniche.
In realtà, nel servizio si parla solo delle telefonate tra Gennaro Mokbel e l’ex senatore Nicola di Gerolamo. Non si fa cenno a intercettazioni, che non esistono, che riguardino direttamente od indirettamente la persona dell’ingegner Silvio Scaglia.
Potrebbe essere una superficiale, ma non per questo meno colpevole, svista del titolista, portato a confondere la “frode carosello” con il caso Fastweb. Ma, in realtà, la confusione è assai più grave: a corredo del servizio, infatti, compaiono le foto di Giampiero Fiorani e di Stefano Ricucci, quali “testimonial” dell’inchiesta sui furbetti del quartierino.
Ma chi ti sceglie “Repubblica” per illustrare i dialoghi telefonici sulla “spartizione del cucuzzaro”, per usare il gergo dello stesso Mokbel? Ma è chiaro, la foto dell’ingegner Silvio Scaglia con la seguente didascalia: “l’inchiesta su Fastweb (nella foto l’ex ad Silvio Scaglia) va in porto con l’ascolto delle telefonate”.
Dal che un ignaro lettore può legittimamente dedurre che:
1) Scaglia è stato colto con le mani nel sacco grazie alle intercettazioni;
2) Esiste un legame diretto tra le attività della mala romana e i “colletti bianchi”.
E’ grazie a questa superficialità che si possono tenere in vita, davanti all’opinione pubblica, teoremi giudiziari che non hanno avuto il sostegno di uno straccio di fondamento, nonostante le limitazioni alla libertà personale dell’ingegner Scaglia (recluso agli arresti in val d’Ayas) e di Mario Rossetti, ancora a Rebibbia dopo 88 giorni.
Cari colleghi, complimenti: è così che si costruiscono i “mostri”. Tanto, ad insultare chi è alla gogna, non si corre alcun pericolo: foto e titoli sono destinati a restare impuniti.
Rassegnarsi? Ma anche no!
“Il tribunale del riesame si riserva di decidere sull’istanza di scarcerazione presentata dai legali di Silvio Scaglia. Intanto i giorni passano”.
Così scrive Alberto Mingardi sul Riformista ricordando che “Scaglia, che subisce il divieto assoluto di comunicare con l’esterno, la libertà può solo annusarla nell’aria frizzante della val d’Ayas”. Con il passare del tempi, cresce anche il rischio che su questa storia di straordinaria ingiustizia cali la cortina del silenzio, nonostante l’emergenza sia tutt’altro che finita.
E l’articolo riaccende i riflettori su due aspetti inquietanti: la detenzione di Mario Rossetti e la fidejussione di 10 milioni richiesta a Silvio Scaglia “per lasciarlo andare in val d’Aosta”. Mingardi si occupa, in particolare, della storia di Mario Rossetti, l’ex direttore finanziario di Fastweb ancora detenuto a Rebibbia ormai da 87 giorni. Mingardi riprende le informazioni già diffuse dal nostro blog, definito “ormai rassegnato diario informatico” (urge una rettifica, non siamo per niente rassegnati) : a Rossetti è stato sequestrato tutto. Tutti i conti correnti. La sua famiglia, la moglie e tre bambini, si trova in una situazione di grande difficoltà.
“Ma la cosa più incredibile che si apprende dall’avvocato di Rossetti, Lucio Lucia, è che il suo assistito è stato sì protagonista di un interrogatorio, ma il 13 aprile scorso. Poi, basta. Più nulla”.
“Da più di un mese Rossetti è in galera a far la muffa. Non viene usato dai magistrati per comprendere meglio lo svolgimento dei fatti. Pensare che possa inquinare le prove è ridicolo, visto che non lavora in quell’azienda da quattro anni”.
Per quanto riguarda la fidejussione richiesta a Scaglia, Mingardi rileva che “sembra un dettaglio trascurabile, a parte l’entità della somma. Ma non lo è. Gli hanno chiesto, di fatto, un pedaggio. Come al Monopoli.”.
“E’ normale – si chiede Mingardi – che ben prima che cominci il processo esistano già condanne così certe da poter pretendere, nei fatti, un anticipo della pena? Che impressione danno casi di questo tipo che coinvolgono direttamente la business community agli investitori stranieri? La presunzione d’innocenza è diventata un guscio vuoto?”.
In attesa di una risposta è importante non rassegnarsi. Mai.
Lasciate ogni speranza
“Lasciate ogne speranza voi ch’intrate” (Dante, Inferno, canto III)
Stime, soltanto stime, e perlopiù approssimative. Funziona così la giustizia in Italia, fra tanti quasi e all’incirca. Prendete i processi civili pendenti in primo grado. Quanti sono? Vai a saperlo. E quelli penali? Vai a saperlo. Ci sono stime, certo, ma gli unici dati davvero attendibili (o quasi) li offre nientemeno che la European Commission for the Efficiency of Justice. Peccato che risalgano al 2006.
Ebbene la stima di allora era di 3.687.965 (sì, avete letto bene: oltre tre milioni e mezzo) processi civili in primo grado pendenti in Italia, contro i 544.751 della Francia e poco più del doppio (1.165.592) per la Germania.
E la loro durata? Una media di 507 giorni, contro i 262 della Francia. Ma non è tutto: perché se si legge la relazione sui dati forniti dal Ministero di Grazia e Giustizia si scopre che nel 2009 la stima (sempre e solo stime…) dei giorni schizza a 985 giorni. Insomma, poco meno di tre anni, solo per il primo grado.
E il penale come sta messo? Sempre secondo la European Commission nel 2006 c’erano 1. 204.151 di casi gravi pendenti in Italia, contro i 287.223, ad esempio, della Germania.
Si potrebbe supporre che tutta questa “inefficienza” nasca dalle scarse risorse destinate al settore. Ma non è così. Infatti, secondo i dati forniti dal Ministero nel 2009 si è speso l’1,45 per cento del bilancio dello Stato (pari a 7,325 miliardi di euro) fra Organizzazione giudiziaria e Amministrazione penitenziaria. Sono pochi o sono tanti?
Il confronto è meglio farlo con il cosiddetto Pil “pro capite” (ma bisogna ritornare ai dati del 2006, dopo non si sa). E in base a questo, il dato era pari allo 0,26% in Italia, allo 0,35% in Germania e allo 0,17% in Francia. In modo tale da far concludere alla European Commission che la spesa destinata alla giustizia nel nostro paese “si colloca entro la fascia dei paesi europei comparabili”.
E per concludere un dato che ha qualcosa di agghiacciante: il numero dei detenuti. Al 30 febbraio 2010 la stima del Ministero (sempre e ancora una stima) era di 66.692 persone, di cui 30.184 imputati e di essi addirittura 15.241 (quindicimiladuecentoquarantuno) in attesa di giudizio di primo grado.
Original photo by Valentina Photography
I famigliari dei manager Sparkle si rivolgono al Presidente
Anche i famigliari dei manager di Telecom Italia Sparkle in carcere a Rebibbia da 86 giorni nell’ambito dell’inchiesta sulla “frode carosello” hanno deciso di appellarsi al Capo dello Stato, imitando l’esempio della signora Monica Aschei, moglie dell’ingegner Silvio Scaglia, attualmente agli arresti domiciliari, sotto un regime estremamente restrittivo, nel comune di Ayas.
I famigliari dell’ex amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle, Stefano Mazzitelli, e dei manager Massimo Comito e Antonio Catanzariti, si rivolgono al Quirinale con una lettera pubblica in cui sottolineano di aver nutrito sempre la convinzione che “la nostra fiducia estrema nella giustizia avrebbe vinto”. I tre manager, al pari dell’ex direttore finanziario di Fastweb, Mario Rossetti, sono ancora sottoposti al regime di custodia cautelare.
“Ma ora – si legge nel documento riportato da Repubblica – Le scriviamo perché il carcere cautelativo sta diventando una vera tortura giudiziaria: Stefano Mazzitelli non è più in carica dal novembre del 2009 e fuori dall’azienda dal febbraio 2010. Massimo Comito e Antonio Catanzariti sono stati licenziati dopo gli arresti. I pm hanno carte raccolte in tre anni di lavoro investigativo. Nei loro conti sequestrati e nelle indagini raccolte per rogatoria in tutto il mondo non è risultato un solo euro che potesse essere ricondotto a truffe, tangenti o qualsiasi atto dell’inchiesta”.
Di qui, “senza voler entrare nel merito dell’inchiesta che li riguarda perché la loro innocenza dovrà essere dimostrata ai giudici competenti” i famigliari si domandano la ragione di una custodia cautelare di queste misure preventive. Una prassi che non è certo giustificata dalla lettera e dallo spirito della legge ma che getta, davanti alla comunità internazionale, un’altra ombra sull’efficienza e l’equità della macchina e della giustizia italiana.
Come si legge sul supplemento Plus de Il Sole 24 Ora “Silvio Scaglia si è fatto 82 giorni di carcere preventivo. Negli Usa chi sbaglia paga molto duramente. Dopo il processo”.
Di gatti e topi
Si può giocare al gatto e al topo con la libertà delle persone? Non si può, non si dovrebbe potere, ma “è sport amato e praticato dalla nostra cultura della giurisdizione”, scrive Guido Compagna sul Foglio. Puntuale la risposta dell’Elefantino: “Ricordo sedici anni fa un decreto firmato da un onesto ministro liberale, Biondi, e magistrati felloni che lo boicottarono, e un popolo bischero che lo sputacchiò: il suo contenuto era semplice, non puoi usare la custodia cautelare in carcere per estorcere confessioni, dal momento che la Costituzione non prevede la tortura”.
Già, la Costituzione non prevede la tortura, ma tant’è, da troppi anni la galera viene utilizzata come strumento di “ravvedimento”. Peccato che a doversi ravvedere non siamo mai i pm (o i gip che si mettono in scia). Non importa che il principio di responsabilità (banalmente: se sbagli paghi), valga per i medici che lasciano le pinze nelle pance o i poliziotti dalla pistola facile. Per la magistratura non vale. Eppure sarebbe una riforma a costo zero, mica male in tempi di cordoni stretti. E permetterebbe di dare una pagella a chi può decidere “preventivamente” sulla libertà dei cittadini.
Come ha scritto anche Sergio Luciano su “Italia Oggi”, Silvio Scaglia, è stato scarcerato (ovvero “murato vivo” ai domiciliari, si potrebbe aggiungere) perché secondo i pm “avrebbe reso dichiarazioni più dettagliate rispetto a quelle del primo interrogatorio”. Una motivazione smentita però dagli avvocati del fondatore di Fastweb “ attestati da sempre sulla linea dell’assoluta innocenza (quindi: che c’è da dettagliare)”. Forse, adombra Luciano, dalla prigione “i pm si aspettavano qualcosa di più”. Ma, come si legge anche dagli interrogatori, la difesa non si è spostata di un millimetro: Scaglia è innocente. E ai pm sono rimaste mosche in mano.
Ma torniamo alla domanda: se certe accuse si rivelano una bolla di sapone, c’è un bonus malus per chi ha preso fischi per fiaschi? No, non c’è. Giuliano Ferrara sul Foglio conclude amaro: “Il decreto fu abbandonato dal governo di cui facevo parte, miseramente, e da allora nulla è cambiato”. Tutto vero, tutto giusto, ma qualcosa è cambiato: in peggio però.
Il tribunale del riesame si “riserva di decidere”
Ancora un nulla di fatto, ancora un po’ di tempo. Il Tribunale del riesame in sede d’appello, presieduto dal giudice Giuseppe d’Arma, si è infatti “riservato di decidere” (e tuttora si è in attesa) sul ricorso all’istanza di scarcerazione presentata dagli avvocati di Silvio Scaglia, già bocciata il 18 marzo scorso.
All’udienza, tenuta mercoledì 19 maggio, erano presenti il procuratore aggiunto della Procura di Roma Giancarlo Capaldo e i due pm Francesca Passaniti e Giovanni Bombardieri. Il tribunale ha ascoltato la richiesta dei legali del fondatore di Fastweb che hanno ribadito l’insussistenza dei requisiti di legge per la carcerazione preventiva (assenza di pericolo di fuga, di inquinamento probatorio e di reiterazione del reato), mentre la Procura ha sottolineato come il gip Aldo Morgigni abbia già attenuato le misure di custodia tramite il passaggio agli arresti domiciliari.
Silvio Scaglia “murato” dentro casa
Dalla prigione alla clausura. Totale.
La libertà vigilata di Silvio Scaglia, un giorno dopo il suo arrivo nella residenza obbligata in Val di Ayas sa ben poco di libertà. L’ordinanza emessa dal gip Aldo Morgigni, infatti, prevede che l’ingegner Scaglia stia “dentro le mura”.
Ovvero, come ha spiegato alla moglie Monica il sottufficiale dei carabinieri che ieri pomeriggio ha fatto visita nella baita di montagna, Scaglia non può nemmeno affacciarsi al balcone. O, tantomeno, godere (si fa per dire) della proverbiale “ora d’aria” concessa ai detenuti. Non è una limitazione da poco per Scaglia; il suo stato di salute infatti, essendo cardiopatico, impone attività fisica quotidiana, cosa che Scaglia era riuscito in qualche maniera a fare anche in carcere. Oltre a mantenere un rapporto con l’esterno tramite gli avvocati. Cosa oggi esplicitamente proibita dalle disposizioni dei magistrati.
Per carità, meglio una prigione in casa, tra i propri libri e la musica preferita e, soprattutto, la possibilità di poter vedere i propri cari. Ma la sensazione è che la prima preoccupazione degli inquirenti sia di vietare la parola ad un imputato cui, dopo 82 giorni di carcere, continua ad essere negata libertà di muoversi e di comunicare. L’unica eccezione al regime di assoluto isolamento resta una linea telefonica a servizio ridotto che permette solo le chiamate al medico del posto.
Si deve prendere atto, insomma, che il gip ha voluto dare agli “arresti domiciliari” un’interpretazione alla lettera: l’ingegner Scaglia, dopo 82 giorni di carcere, resta agli arresti. Anzi, al punto di vista della comunicazione, è più blindato di prima. Ma probabilmente è questa la prima preoccupazione del magistrato cui evidentemente non garba che si accendano le luci su una situazione di ordinaria ingiustizia.