Archivio Autore
Una giustizia malata in molti modi
“Lo abbiamo già scritto e vogliamo ribadirlo con chiarezza”. Inizia così l’articolo che il Corriere della Sera, a firma del vicedirettore Antonio Macaluso, torna a dedicare a Silvio Scaglia: “non spetta ad altri che alla magistratura – scrive Macaluso – stabilire se il fondatore di Fastweb, arrestato mesi fa (98 giorni per l’esattezza ndr.) nell’ambito dell’inchiesta su (tra l’altro) un maxi-riciclaggio da due miliardi di euro, sia colpevole o innocente”. “Poiché, però - aggiunge – il dibattito sul (mal) funzionamento della giustizia e sul perché e sui modi per intervenire è continuo motivo di scontro in sede politica e istituzionale, è anche dai casi concreti che dobbiamo partire”.
Già, partire dai casi concreti, che possono mettere in luce quanto la “giustizia può essere malata per tanti motivi”. Che non sono solo quelli su come vengono utilizzate le tante o poche risorse messe a disposizione, ma anche perché “nessuno può asserire che, come in ogni altra categoria professionale, anche in quella della magistratura, non possano esserci distorsioni, incapacità, protagonismi, sconfinamenti”.
Il caso concreto, stavolta, è appunto quello dell’ex fondatore di Fastweb, che si è messo a disposizione di chi lo accusa, è entrato in carcere, ha avuto dopo oltre 70 giorni di cella il “beneficio” dei domiciliari, salvo che poi, nei giorni scorsi, il Tribunale del riesame gli ha negato, in sede d’appello, la scarcerazione. Secondo gli avvocati di Scaglia una decisione, come riporta il Corriere, “agli antipodi della giurisprudenza di legittimità”. Del resto, sostengono sempre i legali, a decidere che deve restare privo di libertà personale sono state le stesse persone con “altra veste”: prima come giudici del Tribunale del Riesame, poi con altra casacca, “giudici d’Appello”.
Una stortura che, per quanto prassi ordinaria, fa parte delle tante cose che non vanno nella giustizia. E che spinge, infatti, il vicedirettore del Corriere a sostenere: “ci si lasci pensare che quando si parla di riforma della giustizia, si pensa anche a casi come questi, che aggiungono dubbi ad altri dubbi. Nella (ex) patria della certezza del diritto”.
Purtroppo, è vero, una giustizia può essere malata in molti modi.
Silvio Scaglia rimane agli arresti domiciliari: una decisione agli antipodi della legittimità.
I legali: “E’ innocente e lo dimostreremo in Cassazione”
Una sentenza prevista, ma con risvolti “agli antipodi della legittimità”. Il Tribunale del Riesame di Roma ha respinto l’appello presentato dai legali del fondatore di Fastweb, Antonio Fiorella e Pier Maria Corso, per chiedere la revoca della misura cautelare. Di conseguenza Silvio Scaglia resta agli arresti domiciliari nella casa di famiglia ad Antagnod, in Valle D’Aosta.
La decisione era prevedibile, anche perché il collegio d’appello era presieduto dal giudice Giuseppe D’Arma, lo stesso che si era pronunciato in sede di tribunale del Riesame. E, come rilevano gli avvocati difensori di Scaglia, gli avvocati Piermaria Corso e Antonio Fiorella,“in un sistema che consente agli stessi giudici che già si sono pronunciati in altra veste (Tribunale del Riesame ndr.) di pronunciarsi sulla stessa materia sotto un’etichetta diversa ( giudici d’Appello ndr.) è oltre modo difficile aspettarsi che smentiscano se stessi!”.
Ma non è questa la ragione per cui i legali parlano addirittura di “giustizia surreale, agli antipodi della giurisprudenza di legittimità”. “Prendiamo atto – spiegano i difensori – che secondo il Tribunale una prova sopravvenuta non può essere esaminata in sede di appello. Il che va in rotta di collisione con la giurisprudenza della Corte di Cassazione”. Oggi, infatti, in sede di appello il collegio giudicante si è richiamato alla propria ordinanza del 17 marzo scorso, per confermare un provvedimento del Gip e un’impugnazione che riguardavano profili diversi. Così “il Tribunale ammette candidamente di non avere esaminato i motivi di appello perché, a suo dire, li aveva già esaminati nella veste del tribunale del Riesame”.
Eppure, la giurisprudenza della Cassazione (vedi, tra le altre, la sentenza della Sezione II Penale del 9 febbraio 2006), ha stabilito che “Nel procedimento conseguente all’appello proposto dall’indagato contro l’odinanza reiettiva della richiesta di revoca della misura cautelare personale, è legittima, in applicazione dei principi del favor libertatis e della ragionevole durata del processo, la produzione di documentazione relativa ad elementi probatori nuovi, preesistenti o sopravvenuti, sempre che… quelli prodotti dalla parte riguardino lo stesso fatto contestato con l’originaria richiesta cautelare … e siano idonei a dimostrare che non sussistono le condizioni e i presupposti della misura cautelare richiesta”. Ovvero, per usare il linguaggio comune, quando si tratta della libertà personale, non è accettabile una sentenza “fotocopia”.
Il risultato finale? “A parte il perdurare della carcerazione di un innocente- concludono i legali – è rappresentato dalla ricaduta sulla Cassazione di questioni serenamente risolvibili a livello di giudici di merito. Confidiamo che il buon diritto prevalga almeno in Cassazione».
Custodia cautelare: basta con gli abusi
“Sta per esplodere una bomba umana”.
L’avvocato Giandomenico Caiazza, presidente della Camera Penale di Roma, lancia l’ennesimo allarme sul sovraffollamento delle carceri, e annuncia “proposte concrete” in un convegno che si terrà nella città giudiziaria della capitale il 7 luglio. Mentre sul caso Scaglia aggiunge: “E’ incomprensibile che venga trattato così chi si è messo a disposizione dell’autorità giudiziaria”.
Avv. Caiazza, quanti sono ad oggi i detenuti rinchiusi nelle carceri italiane?
La cifra esatta non è disponibile, ma si sa che nel mese di maggio si è superata quota 68.500: un record assoluto in tutta la storia della Repubblica italiana. E’ una bomba umana che rischia di esplodere da un momento all’altro, che va oltre ogni limite di tollerabilità. Ogni mese entrano in galera circa 1.000 persone e ne escono 400. Anche i direttori delle carceri sono disperati, non sanno più che pesci prendere.
Insomma, siamo ancora una volta in piena emergenza?
L’indulto del 2008 aveva svuotato gli istituti di circa 20mila soggetti, facendo scendere la popolazione carceraria da 60 a 40mila persone. In due anni siano tornati al punto di partenza, anzi peggio. Ora ci sono 8mila detenuti in più di allora. Si sa che il limite di capienza di tutti gli istituti italiani è di 45mila, mentre il cosiddetto limite di tollerabilità è di 63mila. Nel frattempo, di tutte le nuove carceri che si dovevano costruire non è ancora stata messa una pietra. Poi si scopre che da qualche parte, come nel carcere di Fuorni a Salerno, c’è un intero piano con le celle vuote, perché il personale è sotto organico.
Ma come mai in soli 24 mesi la popolazione dei detenuti è cresciuta del 70 per cento. Cosa succede?
Purtroppo la situazione è legata ad alcuni provvedimenti presi dal governo. Mi riferisco alla ex Cirielli e al decreto sulla sicurezza. Nei fatti questi due provvedimenti hanno profondamente ristretto l’ambito di applicazione delle misure alternative alla pena “intramuraria” come l’affidamento ai servizi sociali, la semilibertà, ecc.
Quanti sono i provvedimenti di custodia cautelare? Per capirci, i detenuti in attesa di giudizio?
La custodia cautelare riguarda circa 26mila soggetti, quindi il 40% dei detenuti. Anche qui le cifre nude dicono molto, ma non dicono tutto. Il punto è che si è fatto e si continua a fare un abuso di questa custodia. La prassi giudiziaria negli ultimi due decenni in particolare ha modificato la sua funzione, fino a stravolgerla: da strumento di cautela, quale voleva essere, è diventato uno strumento di deterrenza sociale. E come se il magistrato dicesse: se ti prendo sappi che ti tengo dentro, praticamente è diventata un’anticipazione della pena.
Ma non ci vogliono i gravi indizi?
Certamente, ma anche su quelli il concetto si è trasformato. La legge parla chiaro: ti posso tenere in galera se c’è il rischio che scappi, che inquini le prove o che reiteri il reato. E’ una legge perfetta. Peccato che nella applicazione concreta è cambiato tutto.
Cioè?
Le faccio un esempio. La legge prevede che il pericolo della reiterazione del reato deve essere concreto. Ma se il direttore di una Asl viene arrestato, si dimette, poi si dimettono i funzionari a lui collegati, poi si nomina un nuovo direttore, poi si cambia il sistema informativo che c’era in precedenza, mi si vuole spiegare come fa a reiterare il reato? Eppure succede che spesso si specula sulla possibilità di reiterazione del reato.
Perché?
Perché l’altra condizione, cioè l’inquinamento delle prove, esige tempi certi di galera. In altre parole: la legge dice che se tieni dentro uno perché può inquinare le prove devi dare dei tempi certi di carcerazione, mentre se dici che il soggetto potrebbe reiterare il reato hai più spazio per tenerlo in cella. In pratica molti magistrati travestono le cose, anche quando mancano di reale concretezza. E purtroppo molte sentenze dei Tribunali della liberà o della Cassazione avallano queste condotte dei pm.
Ma allora che fare?
Una delle proposte che discuteremo nel convegno è proprio questa: che in relazione alla reiterazione del reato non sia prevista la custodia cautelare, ma gli arresti domiciliari, magari ammettendo delle eccezioni. Purché siano eccezioni e non la norma. Altrimenti la custodia cautelare diventa un’altra cosa, un percorso afflittivo, diventa una pena anticipata, prima ancora del riconoscimento o meno della colpevolezza.
C’è altro?
Certo, proporremo che si faccia un passo indietro, che vengano abrogate le norme che hanno depotenziato le norme alternative alla custodia. Tra l’altro c’è abbondanza di studi in tal senso, compresi quelli del Dap, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria. I numeri sono chiari: i detenuti che scontano le pene in forma alternativa al carcere hanno una recidiva del 30%, coloro che le scontano in carcere hanno una recidiva del 60 per cento. Dovrebbe bastare.
Che idea si è fatta del caso Scaglia?
E’ un classico esempio di ciò che dicevo prima, anzi è un caso paradigmatico. Risulta incomprensibile una forma di custodia cautelare così estrema, nei confronti di un soggetto che si è messo a disposizione dell’autorità giudiziaria. Mi sembra che nel caso di Silvio Scaglia trovino conferma una prassi e una cultura che sono fuori dall’alveo costituzionale. Il carcere non come ultima ratio, ma come prima soluzione. E nemmeno ti spiegano il perché.
Visita di Stracquadanio a Mario Rossetti: L’ho trovato lucido e determinato
Maurizio Belpietro, direttore di Libero, lo aveva annunciato proprio dalle pagine di silvioscaglia.it: “Presto dedicherò ampio spazio a Mario Rossetti”. Promessa mantenuta: il quotidiano pubblica oggi un articolo sull’ex direttore finanziario di Fastweb, raccontando la visita che ha potuto fargli a Regina Coeli, Giorgio Stracquadanio, deputato del Pdl.
Rossetti è ormai in prigione da più di 90 giorni, tre mesi durante i quali la prova più dura è stata quella di “non poter passare neanche un minuto di tempo con la moglie e i tre figli (Giorgio di 9 anni, Luise di 8 e Leone di 2)”. Racconta ancora il parlamentare: “la prima volta che l’ho visto a Rebibbia l’ho trovato spaventato e incredulo. Ora invece è lucido e determinato”. Il colloquio è avvenuto in una stanza del raggio G12 del carcere romano, alla presenza del direttore, del vicedirettore e di un ispettore della Penitenziaria. “Nonostante tutto – ha detto Rossetti – ho ancora fiducia nell’Italia, nelle istituzioni”.
Tra le mura della cella – scrive ancora Libero – Rossetti “divora libri”. “Ma il manager – aggiunge – si sta anche interessando di organizzazione carceraria”. E soffre, certamente molto, la sua condizione di detenuto in custodia cautelare: un’ora d’aria al giorno invece di due, la possibilità di andare in biblioteca solo quando non c’è nessuno”.
“Stracquadanio – prosegue Libero – è convinto che Rossetti voglia raccontare la sua storia. E che, come è successo a Scaglia, voglia iniziare un percorso che proseguirà anche fuori. “Il carcere preventivo è come un’ustione, una ferita che non si rimargina”, ha detto al deputato. Chiedendo, poco prima che lo riaccompagnassero in cella di “salutargli gli amici con i quali non ho più avuto modo di parlare”.
Forza Mario.
Come sta Silvio Scaglia?
Come sta Silvio Scaglia “murato vivo” ad Antagnod? Vai a saperlo. Come trascorre le giornate? Vai a saperlo. Non può dirlo, non può comunicare, nessuno può incontrarlo o parlargli, viste le misure “fortemente restrittive”, ancorché in regime di arresti domiciliari, stabilite dal gip Aldo Morgigni. Nessuno può sentirlo, tranne la moglie Monica e gli avvocati. Ma tutti loro, però, a sua volta, non possono riferire nulla dei colloqui, non solo in merito alla vicenda giudiziaria che lo coinvolge (cosa che stricto sensu, si può pure comprendere), ma nemmeno rispetto a domande semplici e normali del tipo: come va? Cosa dice? Cosa fa? Come passa il tempo?
Per questo siamo dispiaciuti di non poter rispondere alle molte domande che ci arrivano da amici e conoscenti e da tutte le persone che hanno preso a cuore la sua vicenda.
Possiamo solo dire, avendolo ben conosciuto, che è un uomo che fa quello che dice: se ha detto che sta studiando il cinese, sicuramente lo sta facendo. Se ha detto che vuole mettere le idee a fuoco per preparare un memoriale certamente lo sta facendo. E, per finire, di sicuro si tiene in buona forma fisica con degli esercizi, fosse anche salire e scendere le scale, non potendo neppure usufruire dell’ora d’aria.
La redazione del blog ringrazia tutti coloro che non lo dimenticano, al pari di noi.
Belpietro: Presto un’iniziativa su Rossetti
“Presto daremo ampio spazio al caso di Mario Rossetti. A dimostrazione che non ci occupiamo solo dei detenuti celebri ma anche degli altri, comunque vittime dell’abuso del carcere preventivo: il trattamento subito dall’ex direttore finanziario di Fastweb dev’essere portato all’attenzione dell’opinione pubblica”.
Parla così Maurizio Belpietro, direttore di “Libero”, il primo ad aver sfondato, ad inizio aprile con un editoriale, il muro di silenzio sulla custodia cautelare di Silvio Scaglia che ancor oggi, 91 giorni dopo la sua carcerazione, si trova agli arresti domiciliari. “Non ho mai conosciuto Silvio Scaglia – continua Belpietro - né avevo alcuna ragione speciale per occuparmi di lui. Ma il suo caso mi aveva colpito”.
Perché?
“Per l’assurdità della situazione. Mi aveva colpito il caso di un uomo che rientra dall’estero per mettersi a disposizione dei magistrati e riceve questo trattamento. Senza una ragione qualsiasi. Scaglia di sicuro non intende né può inquinare le prove. O tantomeno reiterare il reato”.
Insomma…
“Insomma dopo un’inchiesta durata anni e questa lunga, assurda carcerazione preventiva, i magistrati devono dare delle risposte: i soldi sono di Scaglia? Lui e Rossetti sono colpevoli? Allora li rinviino a giudizio e li giudichino. Ma non si può insistere sulle esigenze cautelari, dentro e fuori dal carcere, quando queste non ci sono”.
Ma si è fatto un’idea su quest’ostinazione degli inquirenti?
“Un’idea ce l’ho. Tutto nasce dall’inchiesta sul G8 di Firenze in cui è stato coinvolto il procuratore aggiunto di Roma, Toro”.
Ma qual è il legame?
“La procura romana si è sentita di nuovo a rischio di essere considerata il porto delle nebbie della giustizia italiana. Perciò ha voluto dimostrare di non guardare in faccia a nessuno e di saper colpire anche grossi nomi”.
Utilizzando soprattutto l’arma della custodia cautelare…
“Probabilmente nella speranza di ottenere una confessione. Un uso improprio della custodia cautelare, se non peggio. Il codice non prevede l’alternativa o confessi o non esci. Anzi, l’imputato ha il diritto di non rispondere”.
Tanto, prima o poi, cala il silenzio su questi casi.
“Faremo in modo che ciò non accada”.
Caso Tortora: un ricordo (inedito) dell’avv. Caiazza per silvioscaglia.it
E qualche considerazione su chi ci ha fatto carriera
Il ricordo è nitido e indelebile, nonostante i 22 anni trascorsi da quel lontano aprile del 1988: Enzo Tortora ricoverato in clinica, sdraiato sul suo letto, ormai irrimediabilmente malato, che incarica due giovani legali di chiedere cento miliardi di vecchie lire come risarcimento danni ai pm e ai giudici che lo hanno fatto ingiustamente condannare.
Una cifra enorme, ma solo in apparenza spropositata, con un obiettivo chiaro: che se ne parlasse, che non finisse tutto nel dimenticatoio. “All’inizio eravamo perplessi, ma Tortora era un uomo di grande comunicazione e ci disse: dobbiamo fare rumore, fare notizia, tanto sono soldi che non vedrò mai, ormai mi hanno ammazzato. Ma è importante che la gente sappia, che la gente capisca.”. Tortora morì un mese dopo, il 18 maggio 1988, nella sua casa di Milano, stroncato da un tumore polmonare.
A raccontare l’inedito episodio è l’avvocato Giandomenico Caiazza, oggi presidente della Camera Penale di Roma, allora insieme al collega Vincenzo Zeno Zencovich, investito del difficile compito di portare sul banco degli imputati i magistrati del caso Tortora. “Mi emoziona ancora - prosegue Caiazza – ripensare che Tortora, pur in quella tremenda condizione, riusciva a fare delle battute di spirito, a paragonarsi al signor Bonaventura, un personaggio un po’ strampalato di un fumetto di grande successo che leggeva da bambino. All’inizio di ogni storia il signor Bonaventura era sempre squattrinato, poi alla fine diventava ricchissimo, anzi milionario. Eppure Tortora sapeva benissimo che gli restava poco da vivere”.
Dal danno derivò però anche la beffa. Ai due giovani avvocati toccò infatti la sorte di essere denunciati. Prosegue Caiazza: “Non appena Enzo Tortora morì, come avvocati fummo accusati di calunnia dai magistrati, poi prosciolti. Ma intanto la causa verso i magistrati fu sospesa, fino a quando la Corte Costituzionale dichiarò “incostituzionale” la legge che avevamo utilizzato per muovere la stessa azione di responsabilità”.
Per la cronaca, tutto il castello di menzogne su cui fu costruita la “falsa verità” delle accuse a Tortora è inoppugnabilmente franato. E non solo perché l’ex presentatore televisivo fu assolto definitivamente dalla Corte di Cassazione il 17 giugno 1987, a quattro anni esatti dal suo arresto, ma anche perché il principale protagonista delle accuse, Gianni Melluso (uscito dal carcere nel 2009 dopo averci passato 30 anni), ha finalmente deciso di vuotare il sacco, riconoscendo che si era inventato tutto. Lo ha fatto nei giorni scorsi, con una intervista al settimanale l’Espresso, appena pubblicata, a firma di Riccardo Bocca, dove ammette che fu tutto concordato con altri due boss mafiosi, Giovanni Pandico e Pasquale Barra: “Chiedo scusa, profondamente scusa – dice adesso Melluso – ai familiari di Enzo Tortora. Mi rivolgo soprattutto alle figlie Gaia e Silvia, che hanno patito l’inferno per colpa mia. È difficile che accettino di perdonarmi, lo so, ma sento il dovere di contribuire con la massima onestà a questa storia. Voglio dichiarare una volta per tutte che il presentatore Tortora era innocente”.
Resta il fatto che nessuna azione penale, o anche indagine di approfondimento, è stata mai avviata, e nessun procedimento disciplinare è stato mai promosso davanti al Consiglio Superiore della Magistratura a carico dei pm e dei giudici che hanno condannato Tortora. Anzi le loro carriere sono proseguite come se niente fosse, nemmeno una censura. Per dire dei due pm: oggi Lucio di Pietro è Procuratore Generale a Salerno e Felice di Persia, ex coordinatore della direzione distrettuale antimafia a Napoli, ora in pensione, è Presidente del Consorzio Rinascita del litorale casertano, dopo un breve periodo di amministratore unico della Gisec, società provinciale per la gestione dei rifiuti sempre a Caserta. Mentre il presidente dell’allora collegio dei giudici, Luigi Sansone è da poco andato in pensione, non senza avere raggiunto il grado di Presidente della Cassazione.
Caso Rossetti, l’interrogazione di Compagna: “Il ministro Alfano mandi gli ispettori”
“Spero che il ministro Alfano mi risponda che non ho capito nulla, che ho preso fischi per fiaschi, me lo auguro davvero, perché altrimenti la soluzione è una sola: inviare degli ispettori alla Procura di Roma”.
Non ha mezze misure Luigi Compagna, senatore del Pdl, che mercoledì 26 maggio si è rivolto al Guardasigilli con una interrogazione per chiedere di «valutare l’opportunità di esercizio dell’azione di responsabilità disciplinare nei confronti dei magistrati che conducono l’inchiesta Telecom-Fastweb”. In particolare, nell’interrogazione il senatore Compagna fa un esplicito riferimento al regime di custodia cautelare di Mario Rossetti, l’ex direttore finanziario di Fastweb, in carcere da tre mesi.
Senatore Compagna, perché questa iniziativa?
Mi lasci fare una premessa: io non so se Mario Rossetti è colpevole o innocente, non sta a me dirlo, non sono il suo avvocato e non conosco nemmeno bene la sua posizione processuale, ma il punto non è questo
E quale sarebbe?
Il punto è che ho sentito con le mie orecchie su Sky 24 uno dei magistrati dell’inchiesta rilasciare la seguente dichiarazione: “abbiamo negato la scarcerazione a Rossetti perché negli interrogatori non ha fornito elementi utili ad interromperla o comunque ad attenuarne gli effetti”.
Ebbene?
Sono rimasto esterrefatto. Ma come? Nel nostro codice l’interrogatorio è un passaggio fondamentale a garanzia dell’imputato, non è uno strumento di scambio. Qui si violano i principi elementari della Costituzione. Cosa vuol dire che l’indagato “non ha fornito elementi utili”? Le condizioni per la carcerazione preventiva sono nitidamente fissate, non esiste il principio dell’inquisito collaborante. Mica il detenuto è un “cliente” del pm.
Quindi?
La verità è che ormai si gioca al gatto e al topo fra magistrati e imputati. È una deriva dell’esercizio dell’azione della magistratura. Per questo chiedo solamente di essere smentito dal ministro Alfano, desidero solo che mi dica che non ho capito un tubo, ma se non è così ha il dovere di mandare degli ispettori. Oppure il ministro della Giustizia deve dirmi che ha ragione quel pm: la custodia cautelare è un elemento di trattativa.
E se lo fosse diventato?
E qui saremmo allo scandalo dichiarato. Alla conferma che ormai certa magistratura si muove solo su un unico binario: intercettazioni e pentiti, tutto il resto è inutile. Insomma, siamo alla vergogna per uno stato di diritto, a una cultura della procedura penale del tutto antitetica a quella, lo ripeto, della nostra Costituzione.
La custodia cautelare ingiusta costa allo stato 424 milioni
UN GIORNO DA INNOCENTE DIETRO LE SBARRE VALE 235,82 EURO
Nel periodo che va dal 1° gennaio 2001 al 28 febbraio 2010 il totale delle riparazioni pagate dallo Stato italiano per ingiusta detenzione ed errore giudiziario ammonta a 423.682.000 euro, ovvero circa 40 milioni annui. La cifra sfiora i 500 milioni se si tiene conto degli indennizzi versati negli anni Novanta.
E’ la cifra che risulta dai resoconti del “Servizio Centrale per gli Affari Generali e la qualità dei Processi e dell’Organizzazione” presso il ministero dell’Economia, da cui dipende l’erogazione delle somme riparatorie. Da questa fonte non è possibile risalire ai motivi che hanno spinto lo Stato a riconoscere un danno ai cittadini vittime della mala giustizia in quanto “si rileva che non in tutte le domande di riparazione – che non vengono peraltro trasmesse a questa Amministrazione- viene riportata la specifica del motivo che ha dato luogo all’ingiusta detenzione”.
Si sa però che la maggior parte delle erogazioni, per un totale di 405,607.000 euro, è collegata a casi di custodia cautelare ingiusta contro 18.075.000 euro per “errore giudiziario”. Una spada di Damocle grava, insomma, sulla finanziaria di Tremonti visto che i detenuti in attesa di primo giudizio sono 15,241, ovvero, record assoluto in Europa, il 44 per cento circa dell’intera popolazione carceraria.
Ma quando può scattare la richiesta di un risarcimento? Secondo la legislazione italiana, la custodia cautelare “è ingiusta quando un imputato all’esito del processo viene riconosciuto innocente per non aver commesso il fatto; perché il fatto non costituisce reato; perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”. “La custodia cautelare è illegittima – prosegue la legge – quando questa è stata vissuta da un imputato prosciolto per qualsiasi causa, o da un condannato che nel corso del processo è stato sottoposto a custodia cautelare senza che ne sussistessero le condizioni di applicabilità”.
“La domanda per avviare l’azione di riparazione va proposta dall’interessato presso la Corte d’Appello competente entro due anni dal giorno in cui la sentenza di proscioglimento o di condanna è diventata irrevocabile; da quando la sentenza di non luogo a procedere diventa inoppugnabile; da quando il provvedimento di archiviazione viene notificato alla persona interessata”.
Chi ha subito una ingiusta detenzione può dunque far richiesta per “un’equa riparazione”. Difficile, naturalmente, individuare un valore “equo” per un’avventura terribile, soprattutto per un innocente. Ma la legge calcola un rimborso pari a 235,82 euro per ogni giorno di detenzione, con un tetto massimo di 516.456,90 euro (l’equivalente del vecchio miliardo di lire) previsto dal’articolo 315 del Codice di Procedura Penale.
E’ fermo al Senato un disegno di legge “bipartisan”che prevede che si possa sforare il tetto massimo nel caso di una custodia cautelare della durata di sei (!) anni, il massimo consentito dalla legge per i reati più gravi. In caso di approvazione del testo, che ha come primo firmatario il presidente della Commissione Giustizia Filippo Berselli, la copertura finanziaria per il maggior onere per lo Stato (alcune decine di milioni) verrebbe garantito da un aumento dell’imposta sui tabacchi.
Non esiste, invece, risarcimento per chi viene imputato ingiustamente, pur senza scontare un solo giorno di carcere. In tal caso, ha stabilito la Cassazione, “il cittadino ingiustamente imputato e poi assolto non ha diritto al risarcimento dei danni”. In tal caso, la reputazione in fumo non è calcolata. Al contrario, può essere risarcito un condannato nel caso che la carcerazione preventiva abbia avuto una durata superiore alla pena stabilita dalla sentenza.
Talvolta, commenta “Pocket” (da cui è tratta parte della documentazione), il reo è tutelato di più dell’innocente.
Intercettazioni e precisazioni
Senza lo strumento delle intercettazioni telefoniche “le inchieste sulla sanità o su Telecom-Fastweb non avrebbero visto la luce o, quanto meno, avere il contenuto che hanno attualmente”. E’ quanto ha dichiarato oggi il magistrato Giancarlo Capaldo, Procuratore Aggiunto della Direzione Distrettuale Antimafia, nel corso di un’intervista rilasciata a Sky.
Non vi è dubbio che le intercettazioni telefoniche possano essere uno strumento di straordinaria efficacia per combattere l’illegalità.
Resta il fatto che, in tre anni di indagine su Silvio Scaglia, non risulta una sola intercettazione telefonica da cui emerga un suo coinvolgimento, anche indiretto, nella frode fiscale oggetto delle indagini della procura di Roma.
Giusto per precisare.