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Fattore Umano | Carceri: la torrida estate 2011


Da Antigone un report drammatico su sovraffollamento e illegalità. A San Vittore fino a 6 detenuti in celle da 7 metri, a Napoli anche 10-12, per venti ore sui letti a castello. Mentre i “soldi mancano” ed è a rischio “il sostentamento”. E la Corte Europea parla apertamente di “tortura”




È un quadro a dir poco drammatico: nel triennio 2007-2010, successivo non a caso all’indulto, la popolazione carceraria in Italia è salita del 50%, da 44.600 a 67.000 mila detenuti, di cui ben 30mila in attesa di giudizio. Ad oggi, è ancora aumentata, si viaggia sulle 68.000 persone ristrette, ma solo perché nel frattempo c’è stato il provvedimento cosiddetto “svuota carceri” che ha liberato (si fa per dire) 2.402 persone che scontano il loro ultimo anno di pena ai domiciliari. Nello stesso periodo gli stanziamenti dello Stato per le carceri sono calati da 3,09 a 2,77 miliardi, con un taglio netto del 10%.




Insomma non soltanto “mancano i soldi”, ma è a rischio “il sostentamento dei detenuti”. Ed è quanto denuncia l’associazione Antigone che ha presentato a Roma un proprio report sul sovraffollamento e le illegalità che si consumano quotidianamente nelle carceri del “Bel Paese”. Cifre da incubo, che spiegano – se ancora ce ne fosse bisogno – gli scioperi della fame che da settimane coinvolgono in decine di carceri migliaia di detenuti e, a rotazione, parenti di detenuti e avvocati delle Camere penali, in segno di adesione al digiuno “per l’amnistia” di Marco Pannella, iniziato oltre due mesi fa, divenuto da tre giorni anche un digiuno della sete.


Il “sovraffollamento e l’illegalità” sono nei fatti, ben documentati dalle “visite” descritte nel report di Antigone, condotte nei diversi istituti. Ad esempio, a Milano San Vittore, nel sesto raggio si sta in 6 in celle di 7 metri quadri, spesso per 20 ore al giorno, sdraiati sui letti a castello a tre piani; a Poggioreale (Napoli) in una cella si arriva a stare in 12-14, con i letti a castello impilati per tre, mentre il bagno e lo spazio cucina sono attaccati; anche nel carcere di Padova (96 posti per 196 detenuti) nelle celle singole sono presenti 3 detenuti, in quelle da 4 se ne trovano 6, in quelle da 6 si sta in 9.


«Si tratta – spiega Antigone – di condizioni che la Corte Europea dei Diritti Umani ha già definito “tortura”, poiché gli standard europei prevedono per ogni detenuto almeno 7 metri quadri in cella singola e 4 in cella multipla». Si aggiunga che tra la popolazione carceraria 37.257 persone scontano una condanna definitiva (l’8,7% è in carcere per condanne fino ad un anno, il 32% fino a tre anni). Ma le “pene alternative” che potrebbero dare una risposta al sovraffollamento sono ormai un pallido ricordo dopo anni di politiche legislative “securitarie”.


In questo scenario, nel giugno 2010 è stato approvato il “piano carceri” presentato dal Commissario straordinario Franco Ionta, che prevede la realizzazione di 9.150 posti e una spesa di 661 milioni di euro entro fine 2012. «Ma – spiega Antigonela legge finanziaria 2010 prevede stanziamenti per il piano carceri di 500 milioni, mentre la parte restante verrà “scippata” alla Cassa delle Ammende, cioè il fondo destinato al reinserimento dei detenuti». Da qui la domanda che pone Antigone: «Come si farà a tenere aperte le carceri se già oggi manca tutto, e ci sono istituti in tutto o in parte chiusi per mancanza di personale?».


Il risultato? A fine 2012, in assenza di provvedimenti o di inversione del “trend di ingressi” di nuovi detenuti, mancheranno 14mila posti. E sul Paese fioccheranno nuove condanne. Infatti, dopo la sentenza della Corte Europea che nel 2009 ha condannato l’Italia a risarcire un bosniaco detenuto, Antigone ha avviato una campagna per sostenere i detenuti che intendono denunciare le condizioni inumane: le richieste sono state 1.580; i ricorsi presentati dal difensore civico dell’associazione 150, altri 200 li hanno presentati i detenuti stessi.


Fattore Umano | Padova: detenuti in “sciopero della spesa”


Nella casa di reclusione Due Palazzi da ieri la singolare protesta. Obiettivo: denunciare come «dopo i tagli degli ultimi anni il carcere è sempre più povero». Qualche esempio? L’Amministrazione passa un rotolo di carta igienica a settimana per recluso. E per ogni pasto spende 1,33 euro



In carcere, si sa, si ha il diritto di fare la spesa. Come comprare, ad esempio, cibo o prodotti per l’igiene personale. Basta poter pagare. Ma per i nullatenenti i tagli degli ultimi anni alle Amministrazioni penitenziarie hanno provocato situazioni al limite dell’invivibile.


Scrivono i detenuti della casa di reclusione Due Palazzi di Padova: «attualmente vengono forniti per ogni persona un rotolo di carta igienica a settimana, per ogni cella due sacchetti di spazzatura e detersivo in quantità insufficiente. Saponette, spazzolino da denti e dentifricio sono disponibili solo per chi dimostra di avere meno di 25 euro sul libretto. E i fondi destinati alle telefonate per i nullatenenti non sono previsti del tutto».





Ma non solo: «L’Amministrazione penitenziaria – si legge ancora – paga circa 4 euro al giorno per i tre pasti forniti ai detenuti. Da questo consegue che la cucina del carcere prepara una quantità di cibo insufficiente a soddisfare i bisogni dei detenuti, spesso giovani; è sparita anche l’integrazione del vitto per i giovani adulti».


Tutti esempi che fanno capire come il sovraffollamento strutturale dei penitenziari italiani sia ormai divenuto una variabile impazzita, senza che si intraveda alcuna soluzione: 68mila persone contro una capienza ufficiale di 44mila, destinate soltanto a crescere, mentre i flussi finanziari dello Stato continuano a diminuire.


Per questo, da ieri, i detenuti del Due Palazzi di Padova, hanno deciso nella quasi totalità di dar vita ad una singolare forma di protesta, vale a dire lo “sciopero della spesa”, per sensibilizzare il mondo esterno sulle carceri “sempre più povere” e per portare la propria adesione al digiuno di Marco Pannella per “l’amnistia” iniziato il 19 aprile scorso, due mesi fa esatti.


«Il messaggio che vogliamo trasmettere – insistono i detenuti – è che se anche nella Casa di Reclusione di Padova, pur ritenuta una delle carceri migliori d’Italia, c’è una situazione difficile, nel resto del paese le condizioni di vita dei detenuti sono al limite della disumanità».


Resta il fatto che anche al Due Palazzi di Padova negli ultimi tre mesi si sono suicidati in tre. Che attualmente sono rinchiuse circa 800 persone in 350 celle, a fronte di una capienza ufficiale ben più bassa. E se in passato si “rimediava” con due persone per ciascuna cella, ora si è dovuti andare oltre, pur trattandosi di persone con condanne definitive spesso molto lunghe, anche diversi decenni.


Fattore Umano | Genitori e carcere


Indagine sulla condizione dei bambini in visita dai genitori «nel posto per i grandi che sbagliano»


Li chiamano “orfani di fatto”. Sono i 100mila bambini (cifra che supera il milione se si allarga la panoramica su tutto il territorio Ue) che ogni anno, vanno «nel posto per i grandi che sbagliano», cioè in visita ai loro genitori. Bambini che sopportano regole che ai loro occhi (e non solo) paiono assurde. Bambini che rischiano, ogni giorno, di essere “puniti” insieme a mamma e papà.


È lo spaccato drammatico, di quotidiana realtà carceraria, che per la prima volta viene raccontato in un’indagine realizzata in Italia dalla Onlus Bambinisenzasbarre (partner italiano della francese Eurochips, European network for Children of Imprisoned Parents). Lo studio, coordinato dal Danish Institute for Human Rights (DIHR), in collaborazione con l’università Bicocca di Milano e il DAP, Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria del Ministero di Giustizia, è stato riassunto nel libro bianco “Quando gli innocenti sono puniti: i figli di genitori detenuti. Un gruppo vulnerabile”.



Una ricerca iniziata nell’ottobre 2010 con l’obiettivo di sottoporre al Parlamento Europeo un rapporto sugli standard legali e le “buone pratiche” riguardanti i figli dei detenuti. Un lavoro che ha coinvolto le 213 carceri italiane basandosi sull’analisi di 441 questionari compilati da educatori, agenti e assistenti sociali di 112 istituti penitenziari. Uno strumento di sensibilizzazione per il sistema penitenziario e non solo, «una chiave di riflessione che – ricorda Lia Sacerdote, responsabile del progetto italiano –, fa emergere con forza dagli operatori penitenziari, l’esigenza di riqualificazione della propria identità professionale e la consapevolezza che ciò implica il miglioramento dell’ambiente penitenziario, non solo strutturale, bensì come uno spazio-tempo di relazione».




Sono infatti troppe le “sbarre” che separano i bambini dai loro genitori detenuti: solo il 35% degli istituti ha dei locali destinati alle visite dei più piccoli, nel 76% delle carceri non c’è personale specializzato per partecipare agli incontri con i minori (nonostante ci sia la “Circolare del sorriso” del Ministero di Giustizia del dicembre 2009 che indica le norme di comportamento per la corretta accoglienza dei figli dei detenuti, raccomandazioni conosciute solo dal 34% del personale degli istituti).


Uno dei vincoli più delicati da gestire è la perquisizione dei bambini, compreso il controllo del cambio dei pannolini (e il “sequestro” dei loro giocattoli prima delle visite). Anche i tempi di incontro con i genitori sono “ristretti”: nell’81% delle carceri i colloqui avvengono solo di mattina, solo nell’8% l’orario si estende a tutto il giorno. La frequenza consentita ad ogni detenuto è di 6 ore al mese, 8 ore se i figli hanno meno di 10 anni; nel 54% dei casi la durata di ogni visita non può superare l’ora. Situazione simile anche per le telefonate dal carcere ai bambini (il 93% degli istituti consente solo un contatto a settimana della durata di 10 minuti e senza limitazioni di orario solo nel 39% dei casi) e per quelle dei bambini a mamma e papà (l’84% delle carceri non permette la ricezione di telefonate).




Insomma, al di là delle sbarre, si incontrano ogni giorno occhi che osservano le guardie come “mostri” che tengono reclusi i loro genitori, ma anche occhi capaci di trasformare quel buio in un giardino fiorito in cui cogliere dei fiori per mamma e papà. Quello che manca non è certo la forza dei più piccoli, bensì il supporto dei più grandi, maggiormente consapevoli delle carenze di un sistema che, per definizione, non è pensato per accogliere dei bambini.


Più formazione per gli operatori, un ambiente penitenziario più “umano”, minimizzare i traumi, raccontare una verità più sostenibile: queste solo alcune delle raccomandazioni indirizzate al Parlamento europeo. In attesa che qualcosa cambi. Perché, come ricorda Sebastiano Ardita, Consigliere DAP, «quei bambini diventeranno adulti ed il loro rispetto per le Istituzioni passerà anche attraverso i ricordi dell’accoglienza che hanno ricevuto».


La pubblicazione del “libro bianco” ha inaugurato la seconda edizione dell’European Prisoners’ Children Week (che si concluderà domani, 12 giugno), una serie di giornate di informazione, comunicazione e sensibilizzazione che si svolgono contemporaneamente nei 14 paesi europei per parlare della genitorialità in carcere e la tutela dei figli dei detenuti.


Fattore Umano | Gonnella: «Umanità e dignità calpestate in carcere»


«Il 43% dei reclusi è composto da presunti innocenti», spiega il presidente di Antigone. E ai tossicodipendenti la galera non serve a nulla


La lista delle adesioni allo sciopero della fame proposto da Marco Pannella aumenta di ora in ora per «restituire alla giustizia il suo ruolo di equo strumento sociale di verità». Un gesto di protesta nel silenzio delle istituzioni. Come spiega Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, la onlus che da anni si occupa di politiche della giustizia e diritti dei detenuti.


Ancora una volta le carceri sono in subbuglio, una protesta pacifica ma ferma, con molte adesioni anche all’esterno. Che succede?

La vita nelle carceri italiane è dura, durissima. Ci sono istituti dove i detenuti devono dividersi in tre una cella con meno di dieci metri quadri. Non possono stare tutti in piedi contemporaneamente. Non vedono mai l’educatore. La funzione rieducativa della pena, ben descritta nell’articolo 27 della Costituzione, è pertanto oramai un mito. L’umanità e la dignità sono oggettivamente calpestate. Nelle estati torride non ci si può fare la doccia tutti i giorni. Il medico non sempre è presente. Le malattie crescono. La violenza verso se stessi e verso gli altri pure. Per questo ritengo giusto proporre, come fa Marco Pannella, una piattaforma politica per la giustizia sostanziale.



A proposito di adesioni, si aspettava questi risultati?

Sicuramente di positivo registriamo l’adesione dell’Unione delle Camere Penali. Ci sono i radicali. C’è una crescente sensibilità dell’opinione pubblica. Purtroppo manca una presenza forte delle istituzioni che ben sarebbe utile a rasserenare il clima con proposte concrete. Ad esempio, misure dirette a portare fuori dal carcere i tossicodipendenti che potrebbero fruire dei benefici presenti nella legge sulle droghe. Si tratta di un numero cospicuo di persone circa 10mila alle quali si darebbe una più utile chance di vita. Inoltre le forze politiche dovrebbero trovare le vie tecniche e procedurali per evitare gli eccessi di ingressi in carcere di persone in custodia cautelare. Si consideri che circa il 43% della popolazione reclusa è composto da presunti innocenti. Questa è una anomalia tutta italiana, segno di una giustizia lenta e inefficiente.


Lei ha parlato espressamente di “omertà mediatica”. Siamo a questo punto?

I grandi media selezionano le notizie con criteri non proprio corrispondenti alla loro importanza. Un esempio: sulle reti televisive nazionali c’è raramente spazio per chi intende denunciare un caso di violenza nelle carceri o raccontare uno dei tanti suicidi. Ora si avvicina l’estate e intorno a Ferragosto tutti parlano di prigioni. Ma poi tutti ritornano ad occuparsi di gossip e politica da bar piuttosto che di diritti umani violati.


Come Antigone avete in agenda altre attività? Che spazi per soluzioni concrete?

Magari avessimo una possibilità dico una di dialogare con il Governo. Non abbiamo mai incontrato il ministro Angelino Alfano. Noi le idee le abbiamo chiare. Ma non c’è verso di discutere e confrontarsi. In sintesi, le nostre principali proposte di iniziativa sono quattro e iniziano tutte per D: depenalizzazione, decarcerizzazione, diritti e dignità. Ognuna di queste quattro parole è un contenitore che va riempito con progetti e risorse. L’obiettivo finale è il capovolgimento dell’attuale politica miope, che produce carcere patogeno e recidiva. Ossia occorre restituire alla giustizia il suo ruolo di equo strumento sociale di verità. Oggi è invece un asimmetrico dispensatore di tragedie.


Fattore Umano | Carceri: Rita Bernardini in sciopero “a oltranza”



Da oggi il deputato radicale a fianco di Marco Pannella, giunto al 47esimo giorno di digiuno. Al “rifiuto del cibo” partecipano a turno anche 2000 parenti dei detenuti




«Non è solo una protesta, è una lotta». Rita Bernardini, deputato radicale, commenta così la decisione di iniziare da questa mattina uno sciopero della fame “a oltranza” a fianco di Marco Pannella, giunto al 47esimo giorno di digiuno affinché «l’Italia torni, secondo gli standard internazionali, a poter essere in qualche misura considerata una democrazia».  E non solo: «Affinché venga varato un provvedimento di amnistia, indispensabile per il ripristino del funzionamento del sistema giudiziario e della legalità nelle carceri italiane». «È impossibile – aggiunge l’On. Bernardini – che non si faccia qualcosa. Bisogna ribaltare questa illegalità».




La decisione arriva anche dopo la visita ispettiva che il deputato ha condotto nei giorni scorsi presso il carcere dei Due Palazzi a Padova, accompagnata da Maria Grazia Lucchiari (Comitato nazionale radicali italiani), Irene Testa (Associazione Detenuto Ignoto), e Ornella Favero (Direttore responsabile Ristretti Orizzonti).


Prosegue Rita Bernardini: «A Padova i detenuti sono già in sciopero della fame, mentre alcuni familiari hanno deciso di iniziare. C’è una situazione insostenibile, 823 detenuti a fronte di spazi che basterebbero per 400. Il risultato è che ci sono celle di 8,5 metri quadri con tre detenuti, meno di 3 metri quadrati a testa. Vorrei ricordare che proprio sotto i tre metri la Corte Europea si è già più volte espressa dicendo che lo Stato italiano dovrà prima o poi risarcire i ristretti. Come non bastasse nella Casa di reclusione di Padova mancano 101 agenti, ci sono due psicologi e un solo dentista».


Nel frattempo la protesta nelle carceri raccoglie adesioni crescenti: è salito a 2000 il numero di parenti dei detenuti che digiunano a turni di tre giorni in segno di solidarietà, mentre nei giorni scorsi è scesa in campo l’Unione delle Camere Penali Italiane, con una nota della Giunta UCPI, che ha reso noto di voler aderire allo sciopero della fame per denunciare «le incivili condizioni delle carceri». Il primo a digiunare è stato il presidente Valerio Spigarelli, seguito a staffetta da tutti i componenti di Giunta.


Secondo i penalisti il sovraffollamento «cresce senza che ancora alcun serio provvedimento venga avviato per fronteggiare quella che non è più un’emergenza ma una cronica condizione». E «come conseguenza del sovraffollamento», si legge nel comunicato «cresce anche il numero dei suicidi, segnale drammatico delle condizioni di disagio fisico e psichico in cui vivono i detenuti».


Fattore Umano | On. Bernardini: «Le carceri scoppiano, è piena emergenza»

Rifiuto del vitto e “battitura”: prosegue la protesta negli istituti di pena. In sciopero della fame “a turno” anche 832 parenti di detenuti. La deputata radicale: «Stato delinquente e recidivo per il reato di maltrattamenti e torture». Oggi la visita a Rebibbia, domani alla casa circondariale di Rieti



L’On. Rita Bernardini, deputato radicale, è la “globe trotter” delle carceri italiane. In questi giorni, poi, ha continue richieste da detenuti, parenti di detenuti, associazioni di volontari impegnati sul territorio, rappresentanze di agenti di custodia. E lei si muove come una trottola: stamane a Rebibbia (Roma), l’altro ieri a l’Ucciardone (Palermo), Noto e Siracusa. Domenica sarà a Rieti, la settimana prossima a Spoleto e Padova. Su quel che accade, cioè migliaia di detenuti in sciopero della fame, non fa sconti e giri di parole: «Siamo di fronte ad uno Stato illegale, delinquente e recidivo».





On. Bernardini, sono parole grosse….

Lo so, ma è il minimo che si possa dire: i maltrattamenti e le torture fisiche e psicologiche sono all’ordine del giorno, va avanti così da anni. C’è stata una breve pausa, ma risale all’indulto, da allora è stato sempre peggio. Gli ultimi dati sono un triste record per la storia della Repubblica: oltre 68mila detenuti a fronte di 44mila posti regolamentari. Poi ci sarebbe molto da dire su come vengono calcolati quei 44mila posti. A Catania, per esempio, ho potuto verificare che c’è un’intera sezione chiusa, ma non per questo si dice che c’è meno capienza…


Un passo indietro, che succede nelle carceri?

Succede che migliaia di detenuti, in decine di carceri, da settimane rifiutano il vitto e fanno la “battitura”, cioè protestano picchiando le stoviglie sulle sbarre. Un rumore infernale, per denunciare l’inferno in cui vivono. Tutto è partito da Marco Pannella che 39 giorni fa ha iniziato uno sciopero della fame per lanciare un messaggio chiaro: l’unica soluzione al sovraffollamento e all’illegalità delle carceri italiane è un’amnistia. Altre strade non se ne vedono. Anche i famigliari dei detenuti stanno aderendo “a turno” a questa forma di protesta non violenta: sono in sciopero della fame 305 parenti di detenuti del carcere di Fuorni a Salerno, 121 a Rebibbia, 142 a Poggioreale, 67 a Velletri. In totale ne abbiamo contati 832.


Cosa ha potuto osservare girando in questi giorni le carceri d’Italia?

Sto rilevando un fenomeno grave e preoccupante. È in corso uno “sfollamento” dagli istituti del Nord a quelli del Sud; è un fatto che riguarda soprattutto i detenuti extracomunitari. Ho incontrato gente veramente abbandonata. A parte le difficoltà ovvie di essere stranieri perdono completamente ogni contatto, non hanno avvocati con cui poter parlare, molti non conoscono nemmeno la loro posizione giudiziaria. Sono lì, in galera, e non sanno cosa li aspetta, vivono sospesi, ignorando cosa potrà succedergli. Poi c’è la questione, gravissima, degli agenti di custodia.


Cioè?

Siamo di fronte a organici palesemente sottodimensionati, una carenza che si estende ad educatori e psicologi. In particolare, però, sono gli agenti a vivere situazioni al limite della sopportazione. A Siracusa, ad esempio, ho visto un solo agente per 150 detenuti, uno solo per una intera sezione; il risultato è che a malapena si riescono a garantire le ore d’aria; per il resto tutto il giorno in cella a non fare nulla. Del resto, il numero di suicidi fra il personale penitenziario non è mai stato così alto. Insomma, non si ammazzano solo i detenuti. C’è altro da dire?


Tra le altre cose, c’è una sua interpellanza in Parlamento sulla situazione sanitaria del carcere di Opera, ai bordi di Milano. Qualche risposta?

Martedì prossimo (31 maggio, ndr.), dovrebbe venire in aula un rappresentante del ministro Alfano a rispondere. Il punto è che al carcere di Opera si è data la patente di centro clinico senza che sia davvero tale. Ho potuto verificare con i miei occhi che ci sono persone con gravi patologie, magari costretti a letto per 24 ore, senza cure adeguate. Un tema che la Direzione del carcere ha presente, ma su cui può fare ben poco. Non è un caso che anche ad Opera ci siano 605 detenuti in sciopero della fame, da una settimana.


Vincino: “Il peso di un’ordinanza”

 

Il commento di Vincino all’intervista a Stefano Mazzitelli pubblicata ieri dal blog


Fattore Umano | Stefano Mazzitelli: «Il carcere? Un impatto devastante»

 

L’ex Ad di TIS racconta al blog il trattamento subito da “presunto innocente”: «È mai possibile – dice – arrivare al colloquio di garanzia col Gip senza l’assistenza di un avvocato, con davanti un’ordinanza di 2000 pagine e un fascicolo di 200.000?». «Devo ringraziare – aggiunge – il sostegno dei compagni di cella e le guardie. E poi gli amici e i conoscenti che mai hanno dubitato di me»




Dottor Mazzitelli, dopo un anno agli arresti, com’è stato svegliarsi da persone libere?

È difficile descrivere le emozioni che si provano nel riacquistare la libertà dopo 12 mesi di improvvisa privazione fisica e mentale di tutto ciò che hai, o che fai, anche delle cose più banali. È un po’ come rinascere, soprattutto mentalmente. Si comincia per gradi, dagli affetti che incontri appena uscito e verso i quali hai un approccio fisico, tattile, poi le cose quotidiane. Ancora oggi, dopo un mese di vera libertà ho sensazioni nuove ogni giorno. Purtroppo, si resta in uno stato di ansia latente: sei sempre fra il presente ed il passato, fra il sogno e l’incubo. L’aspetto confortante è constatare che a poco a poco ci si “riabitua” alla libertà: sembra un concetto un po’ folle ma è così.


Che ricordi restano?

Per trovare risvolti positivi in una simile vicenda bisogna scavarsi dentro profondamente e non è facile. Io lo faccio tutti i giorni ma non ho ancora trovato risposte. Innanzitutto, ed è un dato incredibile, ricordo tutto con una memoria fotografica sorprendente, dico veramente tutto; potrei descrivere ogni istante di quei momenti con precisione assoluta. Voglio anche aggiungere che nel mio caso, come in quello di altri, si tratta di persone incensurate quindi c’è un problema personale ma anche diciamo così “intellettuale” per chi nel sistema ha vissuto in maniera specchiata per 50 anni. Ribadisco, non è solo un concetto etico che può sembrare personale e fine a se stesso, ma anche giuridico che si chiama “presunzione di innocenza” e “incensurati”. Con il tempo, la riflessione e gli affetti magari tutto si normalizzerà, ma certamente la storia non si cancella e credo sia anche giusto così.


La sua esperienza del carcere?

Il primo impatto è devastante, ti ritrovi in un ambiente chiuso e soffocante; l’isolamento è qualcosa di terrificante che genera reazioni, credo, anche chimiche; non puoi appellarti a nulla, non hai contatti, non sai cosa succede, nessuno ti informa di niente. Chiudono anche la porta esterna blindata e si è tagliati fuori dal mondo; dopo un paio di giorni gli altri detenuti, in specie i lavoranti, ti offrono un caffè la mattina e durante il rancio si preoccupano che mangi, insomma ho trovato grande solidarietà; devo aggiungere che per me ci sono voluti 9 giorni per andare in cella con gli altri; a quel punto, in qualche modo, si ricomincia a vivere, con persone che ti manifestano da subito, nella maggior parte dei casi, affetto e cortesia. Ti aiutano, consigliano e stimolano: ecco quello è stato un sollievo enorme. Anzi vorrei approfittare per mandare un grazie sincero ai miei compagni di cella. Mi ha impressionato la maturità di queste persone, anche giovani, cui ti puoi appoggiare perché si fanno carico dei tuoi problemi, non lo dimenticherò mai. Ho trovato solidarietà anche nelle guardie di custodia, in alcuni casi quasi un’amicizia; sono persone che fanno un lavoro duro, spesso non gratificante. Per questo vanno rispettati e, per quanto mi riguarda, ringraziati. Ci sono molti luoghi comuni sul fatto che gli agenti commettano delle vessazioni. Nei sei mesi di carcere non ne ho avuta diretta esperienza. Certo, ci sono anche esempi negativi, ma in generale no. Le domande, semmai, vanno poste sul “sistema della giustizia”: è giusto il carcere per ragazzi di 20/25 anni condannati per furtarelli, quasi sempre a scopo di droga? A che serve? Che senso ha? Quasi sempre, poi, questi ragazzi vengono rimessi in libertà senza adeguato sostegno. Poi ci sono troppe cose che non vanno: strutture mediche deficitarie e carenti, c’è l’aspetto dei colloqui, limitati e senza privacy, specialmente per coloro che hanno anni di permanenza nella struttura; infine i trasporti che sono davvero allucinanti: perché, mi chiedo? Che ci vuole? Non sarebbe difficile fare meglio. Per questo spero di poter fare qualcosa quando il mio incubo personale sarà finito.


E sui domiciliari?

Qui c’è un discorso personale ed uno giuridico, di sistema. È evidente che i domiciliari rispetto al carcere sono qualcosa di profondamente diverso, il semplice contatto con la famiglia è un sollievo enorme, così come il ritrovarsi in un ambiente conosciuto come la tua casa. Dopo pochi giorni, però, il sollievo svanisce e si tramuta in insofferenza per la costrizione, i controlli notturni, le limitazioni e le paure a cui sottoponi anche chi ti sta vicino. E questo è il discorso personale. Poi c’è l’aspetto giuridico della custodia cautelare: è una brutalità indegna di un paese civile, che andrebbe applicata solo in casi gravissimi e adeguatamente motivati. Non certo il mio caso personale. Anche perché, ed è un aspetto a volte sottovalutato, si riflette sulla capacità di difendersi adeguatamente, per le limitazioni cui sei sottoposto. Ad esempio, in un procedimento della complessità di quello in cui sono coinvolto, è assolutamente necessario l’esame di ingenti mole di carte, di colloqui con gli avvocati, hai bisogno anche della lucidità per dimostrare la tua innocenza: sono tutte cose che il carcere e l’afflizione che comporta rischiano di pregiudicare. Una persona non può arrivare al processo in queste condizioni, si crea un’asimmetria insopportabile fra accusa e difesa. C’è poi un altro aspetto: nel nostro/mio caso ci è stato sequestrato tutto, nonostante l’evidenza che non abbiamo ricevuto nessun utile personale dall’operazione, sia diretto che indiretto; insomma, in questo momento non ho nessuna disponibilità economica e solo grazie all’aiuto di famigliari ed amici riesco a soddisfare le piccole esigenze quotidiane. Pensi solo agli avvocati? Ho la fortuna di avere amici che mi sostengono, ma è una casualità: il sistema non deve e non può consentire questo.


Cosa pensa del suo futuro?

Oggi c’è solo il quotidiano. Ha detto bene l’ingegner Comito sul vostro blog: la sanità mentale richiede di concentrarsi sull’oggi, sul processo, sul recupero del rapporto con la famiglia, sul rassicurare i figli. Si vive in una situazione di temporaneità ed instabilità, legate al processo; cerco di concentrarmi lo stesso: è troppo grande la voglia di dimostrare la mia totale innocenza ed estraneità ai fatti. La delusione è il dover constatare che c’è un sistema brutale, nel quale va pure messo in conto il perverso rapporto fra media e inchieste giudiziarie: un sistema che vive di slogan, che non fa domande, che banalizza i lati umani e tecnici delle vicende, a parte qualche rara eccezione. Poi, nel mio caso, è stato anche alimentato dall’azienda per cui lavoravo che ha fatto pubblico sfoggio di opportunismo. Non è un problema di immagine, ma di equilibrio di valori. La stampa non può rivendicare diritti costituzionali di libertà se poi li usa a scopi puramente commerciali. In questo contesto, il mio futuro ha solo tante domande, ma sono convinto che troveranno adeguata risposta. Ci vorrà tempo e pazienza.


Ha ancora fiducia nella giustizia?

È un tema complicato. La convinzione è che, alla fine, il dibattimento consentirà un corretto esame della situazione; questo mi dà un senso di sollievo, pur in un contesto complesso: il fatto di poter “dibattere”, di potersi esprimere, confutare ed essere ascoltati è importante. Sono stato un anno in silenzio: ho sentito di tutto, dai magistrati inquirenti, dagli organi di polizia giudiziaria, dalla stampa, dall’azienda per cui lavoravo, senza poter esprimere e contestualizzare: insomma, un muro. Il dibattimento, da questo punto di vita, è una liberazione. E non è solo un tema processuale: innanzitutto lo Stato, il legislatore e di conseguenza noi tutti, dobbiamo capire e decidere se vogliamo porre al centro del sistema il cittadino/persona o lo Stato. Sembra scontato, ma purtroppo nel tempo si è spostato il centro verso lo Stato burocratico ed i diritti individuali vengono calpestati. Purtroppo ci si rende conto di questo quando si rimane intrappolati: è mai possibile che si possa arrivare ad un colloquio di garanzia con il GIP senza l’assistenza dell’avvocato, con un’ordinanza di 2000 e più pagine e un fascicolo di 200.000 pagine? Che un’udienza del riesame duri 5 minuti? Che nei fatti venga sconvolto il principio cardine di presunzione di innocenza che dovrebbe essere sacro? Tutto previsto dalla legge, ma è proprio questo il punto: il sistema non offre più garanzie. E non è accettabile dire che il dibattimento alla fine sana tutto, perché ci si arriva in misura sproporzionata fra accusa e difesa con conseguenze anche sul processo e perché il danno fatto alle persone può essere irreparabile.


Qualcos’altro che vuole dire?

Sì, soprattutto un grazie al vostro Blog, così aperto ed attento, grazie agli amici e ai conoscenti che mai hanno dubitato, grazie ai parlamentari e giornalisti che si sono interessati alla mia/nostra vicenda con discrezione senza interferire ma cercando almeno di capire e di porre la persona al centro del problema e una dedica affettuosa ai miei figli ed ai miei cari. La mia unica risposta può essere solo di dimostrare la mia totale estraneità a questa vicenda.


Vincino: “La crostata tre padelle”

 

Il commento di Vincino all’intervista ad Antonio Catanzariti pubblicata ieri dal blog


Fattore Umano | Catanzariti: «Ti attacchi ai piccoli riti, come scriveva Primo Levi»

L’ex manager di TIS racconta al blog la sua esperienza in carcere: l’avvocato d’ufficio, la biblioteca di Rebibbia, le crostate col “forno del carcerato” e l’amicizia con Silvio Scaglia: «Non lo avevo mai conosciuto – ricorda – ed era vietato parlarsi, ma gli altri detenuti mi dicevano: Aho’, certo che l’amico tuo è ‘na gran brava persona”»



Dottor Catanzariti, ha voglia di raccontare il suo arresto?

La prima sensazione è stata quella di vedersi crollare il mondo addosso, improvvisamente. Le Forze dell’Ordine sono arrivate a casa mia all’alba, erano in tanti, come se invece di una persona onesta, vissuta sempre del proprio lavoro, dovessero catturare un pericoloso mafioso. Mi furono consegnati degli enormi tomi che li autorizzavano, in sostanza, a frugarmi in casa, impedirmi di sentire chiunque, compreso il difensore per cinque giorni e, soprattutto, privarmi della libertà. A quel punto ho anche appreso che perfino la telefonata ai propri congiunti, in questi casi non è un diritto ma una chance “unica”: se li trovi “al primo tentativo” bene, altrimenti, come è successo a me, in carcere non hai nemmeno una “seconda possibilità” per chiamarli: saranno loro che, con l’angoscia nel cuore e confidando nel buon senso di qualche giovane carabiniere, dovranno “ricostruire” la tua sorte.


Ma avrà avuto un avvocato?

Non avevo un avvocato. Non ho mai avuto bisogno di un penalista nella mia vita. Ricordo ancora il giorno dell’udienza di convalida: mi trovo accanto un difensore d’ufficio che, con un ben magro stralcio della corposa ordinanza di custodia cautelare e senza avermi mai potuto vedere prima, in uno strano rito “a porte chiuse” (rito camerale, apprenderò poi chiamarsi) mi deve patrocinare. Per fortuna, al termine dell’udienza, mentre in manette venivo scortato via da inflessibili agenti di custodia (qualcuno, ormai era evidente, non mi riteneva così innocuo come io avevo sempre pensato di essere!), i miei familiari da lontano sono riusciti a gridarmi il nome del legale di fiducia da nominare.


Qual è stato l’impatto con il carcere?

Le prime settimane di carcere, come nel “processo” di Kafka, le ho passate, a interrogarmi sul perché mi trovassi precipitato in una situazione del genere. Per accettare la mia condizione e sopravvivere psicologicamente ero costretto ad aggrapparmi a tutto ciò che di “tecnico” mi dicevano i compagni di detenzione; in seguito, quando ho ottenuto l’autorizzazione, mi hanno sostenuto le visite e le telefonate settimanali con i miei cari. Nel tempo, e senza capire come possa essere avvenuta la trasformazione, mi sono ritrovato ad essere io quello che dava forza e sostegno ai “nuovi arrivati” ed a chi, dopo lunghe permanenze in carcere, può comprensibilmente cedere allo sconforto. A quel punto ho compreso che sarei riuscito a resistere a questa durissima prova e che si trattava solo di una questione di tempo. Si trattava di sopravvivere…


In che modo?

La regola aurea è tenere impegnata la mente il più possibile, evitando che la profonda ingiustizia di cui si è vittima alimenti una pericolosa ossessione. Immaginavo come ricostruire la mia vita, i “progetti” da riprendere una volta “fuori”, sia come professionista sia in famiglia, e mi sono rifugiato in una delle mie passioni, la lettura di libri. Nella biblioteca del reparto di Rebibbia le mie continue richieste letterarie, suscitavano perfino la curiosità degli addetti. Poi ci si attacca ai piccoli riti quotidiani: ad esempio, la cura della propria persona, ben descritta da Primo Levi, aiuta a ricordare che sei un uomo e a far trascorrere le monotone ed interminabili giornate. Oltre a questo, mi è stata di enorme aiuto la vicinanza delle persone care e degli amici. Sono davvero grato anche ai molti che, pur non avendomi assiduamente frequentato, non mi hanno fatto mancare la loro stima e solidarietà.


Cosa ha capito del carcere?

Un giudizio generale mi riporta a quello che altri hanno già detto: la mancanza di un progetto coerente dentro le mura che favorisca il recupero e il reinserimento di coloro che sono costretti ad espiarvi una pena. Posso infatti dire che nel reparto dove sono stato rinchiuso per cinque mesi e mezzo, ho anche trovato persone magnifiche tra i detenuti: ricche di umanità, capacità di ascolto e con la forza di vivere con grande dignità l’esperienza carceraria. Detto questo, il carcere e tutto quello che intorno ad esso ruota, è sicuramente un’esperienza che ti cambia. Ti cambia nelle relazioni con il prossimo e nella considerazione che hai di te stesso.


Mai e poi mai un sorriso? Neanche mezzo?

Sì, ho il ricordo di due esperienze curiose che pur tra tante difficoltà sono riuscite a farmi sorridere. Uno dei miei compagni di cella, un vero “mago” della cucina detentiva, mi ha insegnato l’uso dell’ingegnoso “forno del carcerato”: con tre padelle appoggiate una sull’altra, sotto le quali c’erano fornelli da campeggio, riusciva a cucinare delle ottime crostate, mettendo da parte le marmellate distribuite per colazione. Nella padella di mezzo la crostata, poi sopra e sotto altre due padelle per produrre e mantenere l’aria calda. Si faceva a gara per assaggiarne una fetta!


Il secondo episodio?

Riguarda, in qualche modo, l’ingegner Scaglia. Nel periodo di permanenza dell’ingegnere presso Rebibbia, eravamo stati assegnati allo stesso reparto, il G11 sezione B. Io al primo piano e Scaglia al secondo, esattamente sopra di me. Non ci conoscevamo ed essendo stato disposto, per tutti i coimputati, il divieto di incontro, non abbiamo mai avuto la possibilità di “incrociarci” e di scambiarci un saluto. Eppure, non era infrequente che alcuni detenuti, incaricati di mansioni lavorative sui due piani (servire il pranzo, la pulizia del corridoio, la raccolta di rifiuti da riciclare, ecc.), incontrandomi e sapendo che entrambi ci trovavamo a Rebibbia per lo stesso procedimento, mi apostrofavano con battute in romanesco, del tipo: “Aho’, ho visto l’amico tuo”, “Certo che l’amico tuo è ‘na gran brava persona”, oppure “Ho ‘ncrociato l’amico tuo in sala colloqui”. Ad un certo punto ho pensato: “stai a vedere che, senza saperlo, sono diventato un amico di Silvio Scaglia!” Ancora oggi sorrido al pensiero di come avrebbe potuto, a sua volta, aver reagito l’ingegner Scaglia se, incontrando le stesse persone, si fosse sentito dire, con lo stesso romanesco, “Aho’, ho visto qua sotto l’amico tuo, Antonio Catanzariti”. Ecco, questo sì che mi ha fatto sorridere.


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Perché un blog?

“Questo Blog è dedicato alla figura di Silvio Scaglia, imprenditore ed innovatore, protagonista di start up (Omnitel, Fastweb, Babelgum) oggi impegnato in nuove sfide come il rilancio de La Perla, marchio storico del made in Italy. E' un luogo di informazione e di dibattito per tutti gli stakeholders (dipendenti, collaboratori, clienti) ma anche comuni cittadini che hanno seguito le vicende in cui Scaglia, innocente, si è trovato coinvolto fino alla piena assoluzione da parte della giustizia italiana.” - Stefania Valenti, Chief Executive Officer Elite World