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Fattore Umano | Merluzzi: «Imputati, non bestie»
Il Presidente della Camera Penale di Roma e legale dei due ex manager TIS, Mazzitelli e Comito, denuncia le condizioni “disumane” cui è sottoposto Gennaro Mokbel detenuto nel carcere di Civitavecchia: «Se è colpevole lo stabiliranno i giudici – dice – ma è inaccettabile che per arrivare in tempo alle udienze gli sia impedito di mangiare e lavarsi»
«Non si possono trattare gli imputati come bestie messe sui carri. Se Gennaro Mokbel è colpevole lo decideranno i giudici del Tribunale, ma nel frattempo deve essergli riconosciuto il diritto di potersi difendere con dignità». La denuncia arriva dall’avvocato Fabrizio Merluzzi, legale di Stefano Mazzitelli e Massimo Comito, i due ex manager di Telecom Italia Sparkle coinvolti nel processo sull’Iva Telefonica, che però, in questo caso, precisa che intende parlare in qualità di Presidente della Camera Penale di Roma, dopo che lo stesso Mokbel lo scorso 26 marzo si è lamentato in aula del calendario troppo fitto: «Con dieci udienze al mese, spesso consecutive – ha affermato in una dichiarazione spontanea – non c’è neanche il tempo per lavarsi e mangiare perché le docce del carcere chiudono presto e in carcere si mangia alle 11 e alle 17».
Avvocato Merluzzi, che succede?
Succede che siamo di fronte all’ennesimo scandalo della giustizia italiana, ad un vuoto normativo che toglie dignità alle persone. Il caso di Gennaro Mokbel, al di là di quello che stabiliranno i giudici al processo, non può essere taciuto: quel che gli tocca subire è disumano.
Si spieghi meglio…
Gennaro Mokbel è detenuto nel carcere di Civitavecchia, di conseguenza ogni volta che c’è un’udienza a Roma lo fanno partire alle 7 del mattino senza che abbia il tempo di lavarsi o mangiare. Altrettanto la sera, quando rientra verso le 19, niente doccia e niente cena. Come non bastasse, deve viaggiare su un cellulare diviso in piccole gabbie di 90 centimetri per 50, illuminate all’interno solo da un piccola lampadina. Neanche fosse una bestia. Due settimane fa abbiamo avuto tre udienze in tre giorni e Mokbel per tutti e tre i giorni non ha potuto lavarsi e fare un pasto decente, perché in carcere si mangia alle 11 e alle 17. Pensi che nemmeno i parenti possono passargli un panino durante l’udienza…
Perché parlava di vuoto normativo?
Perché non è colpa dei giudici e nemmeno di chi lo deve trasportare. Il nostro sistema prevede che il giudice abbia la disponibilità del detenuto solo rispetto alla gestione dell’udienza, la scelta del carcere invece la fa il DAP (Dipartimento amministrazione penitenziaria, ndr.). In pratica un giudice può solo sollecitare ma non può ordinare che, ad esempio, Mokbel venga trasferito a Rebibbia.
Quello di Mokbel è un caso isolato?
Niente affatto, è la regola. La cosa che mi ha impressionato è che quando Mokbel lo ha detto in udienza gli agenti non hanno negato. Anzi il caposcorta ha confermato, aggiungendo che a sua volta è costretto ad osservare certe regole. Insomma, giudici e scorte hanno le mani legate. Ma intanto Mokbel il 28 marzo scorso non ha potuto essere presente in Tribunale, dopo essere stato giudicato “non trasportabile” dalla direzione sanitaria del carcere, causa pressione bassissima e svenimenti. Vorrei dirlo senza mezzi termini: non sta a me dire se Mokbel verrà condannato e se la pena sarà severa, ma ora deve avere il diritto di potersi difendere in piena dignità e in piena salute fisica e mentale. È inutile continuare a ripetere che siamo un paese democratico e avanzato se poi si viola la dignità delle persone che si devono difendere nei processi.
Fattore Umano
Dal blog uno spazio per raccontare le storie di “ordinaria ingiustizia” dentro le carceri nell’Italia di oggi
Quante sono le storie di “ordinaria ingiustizia” dentro le carceri nell’Italia di oggi? Di libertà negata e dignità soppressa? Nessuno lo sa, nessuno è in grado di dirlo, ma intanto a prescindere che qualcuno sia colpevole o innocente, e ben prima di appurarlo, la macchina si mette in moto: carcerazione preventiva, attesa di giudizio, processi dai tempi biblici. E nel frattempo la tortura psicologica, e perfino fisica, diventano la regola di un meccanismo kafkiano dove tutti – almeno a parole – “applicano la legge”.
Per questo il blog ha deciso di aprire uno spazio chiamato Fattore Umano dove queste storie avranno la possibilità di essere raccontate. A partire da quella di Gennaro Mokbel (detenuto a Civitavecchia, imputato al processo per l’Iva Telefonica) che sarà pubblicata domani.
Fattore Umano | Massimo Comito: «Pare assurdo, ma bisogna riabituarsi alla libertà»
L’ex manager di TIS al blog: «Ho un presente incombente da affrontare, passo dopo passo». E aggiunge: «Resta l’amarezza di avere subito un licenziamento “pubblico” e “sbrigativo” dall’azienda per cui ho lavorato per vent’anni… Per fortuna ho una splendida famiglia»
Ingegner Comito, l’aria della “libertà” dopo un anno. Le emozioni, i pensieri…
Senza retorica, è come imparare nuovamente a scrivere o perfino a parlare. Si figuri che i primi giorni li ho trascorsi a passeggiare per ore nei pressi di casa, a guardare le vetrine dei negozi come fosse la prima volta. È una lenta presa di coscienza, pare assurdo ma bisogna “riabituarsi” ad essere liberi. Una volta, soprapensiero, mi sono ritrovato in preda al panico all’idea di dover affrettare il ritorno a casa per chiamare la stazione dei carabinieri e comunicare il mio rientro. Come quando agli arresti domiciliari tornavo dalle udienze e telefonavo ai miei controllori. Fortunatamente è una condizione d’animo transitoria, man mano che i giorni passano la situazione si va normalizzando. Non vorrei però dimenticare: le sensazioni iniziali dell’aria sulla faccia, quel che significa aver perso la liberta di uscire per strada, e poi sentirsi di nuovo libero da costrizioni come quelle subite durante questo terribile anno.
Cosa resta dentro?
Come dicevo, porto con me da questa esperienza il desiderio di concentrarmi il più possibile su quanto ho vissuto, mantenendo vive nella mente le splendide sensazioni provate nei primi giorni di libertà. In carcere qualcuno mi diceva “vedrai, fra qualche anno non ricorderai nemmeno la cella in cui hai vissuto per mesi”, ma non credo sia il modo migliore per reagire. Piuttosto penso che, senza farmi troppo male, il ricordo di questo periodo mi darà la forza di affrontare al meglio il futuro. Anche se il mio futuro non riesco ancora a delinearlo, mi appare del tutto incerto.
Cosa può dire del carcere? La dimensione del quotidiano…
Sembrerà strano ai “benpensanti”, fra i quali annovero anche me prima dell’arresto, ma ho trovato tanta umanità fra i detenuti e fra i volontari, che operano a supporto di chi cerca conforto. Purtroppo, non posso dire altrettanto degli… operatori stipendiati. In carcere ho letto tanto e non ho disdegnato, anzi mi hanno aiutato molto, i rapporti con persone che mai avrei immaginato potessero essere così disponibili all’ascolto e a dispensare consigli di “sopravvivenza quotidiana”. Consigli senza i quali la vita dietro le sbarre diventa terrificante, specie per persone che hanno fatto dell’onestà il riferimento della propria vita. Approfitto di questa occasione per ringraziare i tanti amici e conoscenti che hanno avuto il pensiero di scrivermi, donandomi una delle poche gioie quotidiane della vita in carcere, e cioè il ritiro della posta consegnata dalle guardie a noi detenuti messi dietro le sbarre del cancello di accesso alla sezione, ogni giorno alle 16, domenica e festività escluse.
Prima le sbarre, poi i domiciliari, cosa è cambiato?
Si passa dalla cella al “carcere domestico”: il passo è ovviamente semplice, ma non nascondo che trascorsi i primi giorni di grande euforia per la ritrovata fisicità dei propri affetti, lo stato mentale di detenuto si è ripresentato in tutta la sua evidenza e i controlli, anche quattro al giorno, notte inclusa, hanno contribuito a tenerlo ben desto.
La sua famiglia ha resistito?
La mia famiglia è riuscita a superare gli effetti di questo terremoto, in forza dei valori sui quali mia moglie ed io l’abbiamo costruita; quanto ai conoscenti in parecchi mi hanno detto “se è successo a te, può succedere a tutti”. A pensarci bene è terribile…
Diceva prima del futuro, vede solo incertezza?
Ho ancora un presente incombente da affrontare, passo dopo passo. E per tutela mentale mi pongo solo obiettivi di breve termine. Resta l’amarezza di avere subito un licenziamento “pubblico” e “sbrigativo” dall’azienda per cui ho lavorato per vent’anni… Per fortuna ho una splendida famiglia, mia moglie instancabile lavoratrice, senza la quale non potrei nemmeno stare a rispondere alle sue domande, se non altro perché non avrei neanche i soldi per la quotidianità. E mio figlio, studente al liceo: un pezzo del cuore, come si dice.
Ha ancora fiducia nella giustizia?
Questa assurda esperienza ha ingenerato in me, e nella mia famiglia, l’orrenda sensazione di vivere in una società basata su un matrimonio di “reciproco interesse” fra il sistema e i giornalisti, con un rapporto di causa-effetto talvolta non delineato, e per questo fonte di terribile dibattito politico. È un circolo vizioso che contribuisce a rendere il sistema giudiziario, ed in particolare l’uso della custodia cautelare che cattura l’occhio peloso della pubblica opinione, quanto di più insensibile ci possa essere verso un essere umano: in nome della visibilità e di interessi professionali ci si dimentica che dietro la “semplice” carcerazione di un presunto innocente si finiscono per condannare anche mogli, genitori e figli, piccoli o grandi che siano. Una condanna che si abbatte sulle loro esistenze, sconquassa la vita e può disperare profondamente.
Fattore Umano | Mario Rossetti: «È stato un esercizio si sopravvivenza»
Ad un mese dalla scarcerazione, l’ex direttore finanziario di Fastweb racconta al blog la sua esperienza di detenuto: «Cerchi di pensare a quello che hai e nessuno ti può togliere, come la tua famiglia». E aggiunge: «Grazie di cuore a tutti coloro che mi sono stati vicini e solidali»
Dottor Rossetti, un mese dopo la “libertà ritrovata” il primo pensiero che viene in mente?
Il primo è un grazie di cuore a tutte le persone che sono state vicine a me e alla mia famiglia, che hanno manifestato ed espresso la loro solidarietà. In particolare mi ha sorpreso positivamente la vicinanza di chi fa un mestiere simile al mio e che ha compreso meglio di altri cosa sia successo e ha declinato sulla propria situazione personale quello che mi è successo. Poi, visto che me lo chiede oggi pomeriggio, ci sono poche cose belle come una passeggiata con i bambini al parco, in una giornata di sole.
Che segni lascia un’esperienza del genere?
Sono stato detenuto esattamente un anno e un giorno: un anno di isolamento e solitudine. A suo modo, è stato anche un viaggio interiore e di approfondimento. Di sicuro un esercizio di sopravvivenza: spesso era difficile non pensare alla violenza che veniva fatta a me e alla mia famiglia, ma più ci pensi più rischi di perdere la testa. Ecco perché devi riuscire a volgere la tua mente verso immagini positive, verso quello che hai e nessuno ti può togliere, come la tua famiglia. Il problema è che anche la famiglia finisce sotto stress. Ad esempio, si pensa comunemente che passare dal carcere ai domiciliari sia quasi la fine di ogni problema. Certo che il carcere è orrendo, ma la verità è che a finire ai domiciliari è tutta la tua famiglia, il tuo stato detentivo si trasmette a tutti loro. I miei figli, ad esempio, hanno dovuto aspettare 4 mesi perché un amichetto potesse venirli a trovare. E solo dopo una formale istanza al Tribunale è potuto accadere. Inoltre, l’aver ancora oggi sequestrati tutti i beni miei e di mia moglie ha creato una difficoltà ulteriore nell’affrontare i problemi della vita quotidiana. E oggi la libertà sicuramente mi permette di affrontare personalmente queste situazioni ma l’esercizio di sopravvivenza ancora… continua!
Insomma, si è ristretti in tutti i sensi…
Non voglio fare filosofia ma gli essere umani sono relazione: gli arresti sottraggono questa dimensione fondamentale.
Qualcosa di positivo, se non è azzardato chiederlo…
Beh, ho vissuto un anno senza usare Blackberry e telefono! Battute a parte, una cosa bella è successa: da uomo professionalmente molto impegnato non ho mai dedicato molte ore ai figli. In questo dramma, lo confesso, ho scoperto il piacere di trascorrere molte ore con loro. Ho tre figli di 11, 10 e 3 anni. Quello più piccolo si è così abituato a tornare a casa alle 4 di pomeriggio e avere il papà a sua disposizione che adesso un po’ comincia a lamentarsi…
Come si fa a spiegare a tre figli piccoli che sei innocente, che è tutto uno sbaglio giudiziario?
È questa la cosa terribile: se sono grandi capiscono da soli, ti puoi confrontare, spiegare, con tre figli piccoli è un doppio trauma. Con mia moglie si è deciso di non farli venire in carcere per non metterli in contatto con una realtà disastrosa. Sono riuscito a telefonare a casa solo dopo 2 mesi dal mio arresto.
Diceva delle carceri…
Sono un luogo perfino difficile a raccontarsi, dove le sigarette sono la moneta di scambio comune e avere pillole per dormire è come tenere un lingotto in tasca. Cose che sono perfino difficili da credere. Attualmente nelle carceri italiane ci sono circa 68mila detenuti in uno spazio che ne può contenere al massimo 43mila. C’è una situazione indescrivibile dove la dignità dell’essere umano non viene rispettata. La cosa peggiore del carcere è che il tempo diventa “circolare”, tutto si ripete uguale al giorno prima, non c’è nulla che cambi la routine di giornate vuote ed inutili. Ovviamente, non dipende da chi le carceri le gestisce, è il sistema che è insensato e che va ripensato: al di là di costruire nuove carceri e aumentare i posti “letto” bisogna ragionare su come il carcere possa effettivamente svolgere il suo ruolo rieducativo per il reinserimento nella società civile. Per questo in futuro vorrei impegnarmi su questi temi, cercando contatti con chi lo fa già. I penitenziari italiani sono zeppi di giovani detenuti “recuperabili”, gente che magari ha sbagliato ma vorrebbe ricominciare, imparare un mestiere che non ha, darsi un futuro. Magari iniziando da un nuovo lavoro proprio in carcere. E su questo che mi piacerebbe dare un mio contributo.