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Fattore Umano | Un docu-film per “parlare di carcere”
L’obiettivo è «offrire una seconda possibilità e dare dignità a chi ha commesso un reato», spiega la regista Laura Fazzini. Che chiede anche un piccolo contributo economico. Con un clic
Spesso le idee più belle nascono facendo una domanda alla persona giusta. Siamo a fine 2010, alla presentazione milanese del libro scritto da Ilaria Cucchi per denunciare la tragica vicenda di suo fratello Stefano. Durante il dibattito con il pubblico una giovane regista e fotografa chiede cosa potesse fare la società per arginare violenze simili. La risposta fu «parlare di carcere». Laura Fazzini accoglie subito l’invito e, pochi mesi dopo, decide di cercare di raccontare le nostre “galere”. Inizia così il suo viaggio in compagnia di due colleghi di Torino (Elia Agosti, montatore e Luca Gaddini, videomaker).
Il punto di partenza è un articolo della Costituzione, il 27, che fissa tra i vari commi il principio di “umanizzazione della pena” e rieducazione del condannato. Quello di arrivo, la cella. Per verificare con la videocamera se e come quei principi costituzionali sono realmente messi in durante il percorso penale. Laura ha così diretto la registrazione delle testimonianze dei detenuti, degli agenti di polizia penitenziaria, dei direttori e dei volontari per realizzare un docu-film che vuole smuovere le coscienze e portare a riflessioni profonde.
Cosa comporta vivere giorni tutti uguali trascorsi in una cella sovraffollata e senza sfoghi? Il carcere è una zona franca della città dove rinchiudere il male? Il percorso rieducativo favorisce realmente il reinserimento del detenuto?
Un anno di ricerche e di attesa prima di partire. Poi la scelta delle carceri che – come spiega Laura – non è stata casuale: quello di Bollate perché «è stato costruito in base al dettato costituzionale», la Giudecca perché ospita donne madri con figli, Rebibbia perché ha un reparto per tossicodipendenti e sieropositivi, e l’Ucciardone perché «doveva chiudere per carenza di organico e mancata ristrutturazione ma rimane aperto per necessità».
Le difficoltà si sono subito presentate e sono state molteplici. Primo tra tutti «il peso psicologico di entrare negli istituti, senza strumenti per delimitare lo shock», racconta Laura. E le lungaggini burocratiche non hanno certo aiutato: «ci hanno fatto aspettare 8 mesi per avere le autorizzazioni per riprendere all’interno delle carceri», ricorda. Otto mesi che hanno contratto il tempo a disposizione per scegliere le persone da intervistare e conoscere a fondo le difficili condizioni detentive.
Ma nonostante tutto il risultato è arrivato. 50 persone intervistate tra cui 28 detenuti. Un contributo importantissimo che dà a tutti noi la possibilità di prendere coscienza delle numerose carenze di diritti garantiti. Come quello delle attività trattamentali (un investimento di 20 centesimi al giorno a detenuto, ndr). «A Rebibbia Nuovo Complesso – spiega Laura – su 1800 uomini solo 300 lavorano e di questi pochissimi sono assunti da cooperative esterne». Per non parlare dei corsi scolastici «obbligatori, voluti dallo Stato, ma spesso sono solo elementari e superiori». Un grande spreco in termini di efficacia rieducativa della detenzione perché – come ricorda Laura – «i detenuti che lavorano si sentono fortunati, credono che il lavoro sia una fortuna e non un diritto». Il documentario (trailer) mette in luce i motivi di questo “malfunzionamento” anche tramite la voce di direttori e responsabili delle aree trattamentali che denunciano due grandi mancanze: la parte economica, che costringe a chiudere i rapporti con le cooperative (nel 2012 non sono stati stanziati soldi per la legge Smuraglia, ndr.) e la parte relazionale con l’esterno, che sempre con più fatica riesce ad entrare dentro le mura. «In più – sottolinea Laura – c’è una differenza abissale tra nord e sud, tra Bollate che ospita cooperative aiutate dalla legge regionale e l’Ucciardone, che non ha ancora la presenza stabile dell’Asl, benché la riforma del 2008 metta come obbligo il presidio sanitario negli istituti».
“Art. 27”, nel ricordare l’omonimo dettato costituzionale, ha due scopi: didattico e informativo. «Vogliamo portarlo nelle scuole e nelle carceri – spiega Laura – per parlare di cosa siano i diritti e doveri dei detenuti». Per «dare alla società che si sta formando un’idea di cosa dovrebbero essere le carceri e di quello che sono in realtà». E far capire che la volontà del legislatore nel 1946 fu di «dare una seconda possibilità, dare dignità a chi ha commesso un reato».
Ambizioni alte che fanno perno sulla sensibilità della gente. A partire dalla raccolta dei fondi necessari per produrre il docu-film. A inizio marzo, infatti, gli ideatori hanno incluso il loro progetto nella piattaforma di Eppela.com, un sito italiano di crowdfunding. «Pensavamo che, con una buona pubblicità tra amici e interessati al tema, si potesse raggiungere con una certa facilità la somma stabilita», spiega la regista. Purtroppo, nonostante gli sforzi e il costante supporto dell’Associazione Antigone, che ha seguito anche le numerose trasferte promozionali in giro per l’Italia, la raccolta fondi non raggiunge la metà della cifra necessaria per la distribuzione del documentario. L’obiettivo è di 3mila euro. Il 5 giugno scade la possibilità di partecipare al finanziamento del progetto. L’appello, dunque, è ancora aperto: «Noi vorremmo solo che i cittadini dessero un contributo, qualora interessati, per costruire un progetto comune su una parte della Costituzione, su una parte della società». Chi volesse far parte della squadra di Art. 27 con un contributo (la cifra minima è di 5 euro) può accedere alla pagina della donazione su Eppela.
Fattore Umano | «Chiamiamola tortura»
L’appello lanciato dall’Associazione Antigone per l’introduzione del reato di Tortura nel nostro Codice penale
Un altro vuoto normativo da colmare. Parliamo del reato di tortura, uno dei grandi assenti nel nostro Codice penale. «Sono 25 anni – si legge nel testo di presentazione dell’iniziativa di Antigone – che l’Italia è inadempiente rispetto a quanto richiesto dalla Convezione contro la tortura delle Nazioni Unite, che il nostro Paese ha ratificato: prevedere il crimine di tortura all’interno degli ordinamenti dei singoli Paesi». Nonostante, infatti, il nostro Paese abbia sottoscritto e ratificato la Convenzione delle Nazioni unite contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti del 1984, nulla ancora è stato fatto.
«Abbiamo deciso di riprovarci – spiega Patrizio Gonnella, presidente di Antigone – e di far ripartire una campagna per l’introduzione del crimine di tortura nel codice penale». «Nei prossimi giorni – conclude Gonnella – chiederemo a tutti i senatori e a tutti i deputati di firmare la proposta di legge e chiederemo ai Presidenti del Senato Renato Schifani e della Camera Gianfranco Fini di impegnarsi per una rapida calendarizzazione affinché‚ si arrivi entro l’estate alla approvazione».
Basta solo la volontà politica di farlo. Perché bisogna solo introdurre una sola norma tra l’altro già scritta in un atto internazionale. E «Per approvarla ci vuole molto poco», conclude Gonnella. Chissà se la presenza in questi giorni del Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti del Consiglio d’Europa sbloccherà la situazione.
Tra i primi firmatari dell’appello: Andrea Camilleri, Massimo Carlotto, Ascanio Celestini, Cristina Comencini, Erri De Luca, Luigi Ferrajoli, Rita Levi Montalcini , Elena Paciotti , Mauro Palma, Stefano Rodotà , Daniele Vicari, Vladimiro Zagrebelsky, Don Luigi Ciotti (Libera, Gruppo Abele), Franco Corleone (Coord. Garanti territoriali) , Daniela De Robert (Usigrai, VIC – Caritas) , Roberto Di Giovan Paolo (Forum Salute in carcere) , Ornella Favero (Ristretti Orizzonti), Elisabetta Laganà (CNVG), Luigi Manconi (A Buon Diritto) , Alessandro Margara (ex capo Dap), Carlo Renoldi (Magistratura Democratica) , Marco Solimano (Arci), Valerio Spigarelli (Presidente Ucpi), Irene Testa (Il Detenuto Ignoto) e Christine Weise (Presidente della Sezione Italiana di Amnesty International).
Per aderire all’appello di Antigone mandate una mail a segreteria@associazioneantigone.it
Fattore Umano | Tra tre giorni «Diamoci dentro»
Sabato 19 il «boot camp» per l’avvio del progetto di una cordata di associazioni per il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti di Treviso
La Cooperativa Alternativa di Vascon ha vinto il bando «La vita non aspetta» promosso nel 2011 dal Centro Servizi per il Volontariato della Provincia di Treviso volto a finanziare progetti per la promozione e l’inserimento dei giovani esclusi dal mondo della scuola e del lavoro. I 90mila euro sono stati subito destinati al finanziamento di percorsi dedicati ai giovani detenuti nelle due carceri di Treviso (120 nella casa circondariale e altri 20 nell’Istituto penale per minori con meno di 29 anni che non studiano e che non lavorano).
«Il punto di forza di questo progetto sta nella solidità di chi lo compone», spiega Igor de Pol, presidente dell’Associazione Possibili Alternative. Nove le associazioni di volontariato coinvolte nel progetto: Possibili Alternative, B-Net, Ipsia, La Prima Pietra, Circolo, Legambiente Piavenire, Legambiente di Treviso, Associazione Culturale Islamica di Treviso, Per Ricominciare e Tonino Bello. Molti anche i partner dell’iniziativa biennale fra cui la Comunità Morialdo, la Caritas Tarvisina, il Centro per l’Impiego, l’Azienda Ulss 9 e la Camera di Commercio di Treviso.
Diamoci dentro, insomma. Lavorando durante la reclusione per produrre oggetti da vendere all’esterno e sostenendo percorsi formativi ed occupazionali esterni al carcere. Con un doppio obiettivo: aiutare i giovani detenuti nel loro percorso riabilitativo e diffondere un’immagine diversa del carcere nell’opinione pubblica. Perché il “pianeta carcere” non è un mondo sommerso ma una risorsa su cui investire.
Sabato 19 maggio alle ore 14 il Boot Camp che darà il via al progetto. L’appuntamento è in via Cardinal Callegari 32 a Vascon di Carbonera (TV). L’incontro si svolgerà per avviare l’attività di preparazione dei gruppi di lavoro che perseguiranno gli obiettivi previsti dal progetto «Diamoci dentro».
Fattore Umano | La prima volta del CSM in carcere
L’appello da Rebibbia: «Abbandoniamo la via dell’emergenza che ci accompagna da decenni»
Il 10 maggio una delegazione del Consiglio Superiore della Magistratura ha visitato per la prima volta un carcere italiano. «Un evento storico» – lo ha definito Giovanni Tamburino, capo del DAP –che ha coinvolto il primo presidente del CSM Ernesto Lupo, il procuratore generale della Cassazione Gianfranco Ciani, e i componenti della Commissione mista per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza. La visita nei reparti Nuovo complesso e femminile di Rebibbia ha permesso di verificare lo stato dell’istituto penitenziario al fine di ottenere una «drastica e radicale depenalizzazione». Per alleggerire le carceri e per ridare fiato a un sistema giudiziario «intasato da un’eccessiva quantità di procedimenti».
La delegazione ha incontrato i rappresentanti della polizia penitenziaria e di altri dirigenti penitenziari di Rebibbia, oltre che un gruppo di detenuti. «Sappiamo – ha dichiarato Vietti rivolgendosi agli agenti di custodia – che si tratta di un lavoro quanto mai importante e difficile: l’effettività della pena è affidata a voi e non è certamente un aspetto secondario del sistema giudiziario». «La vostra difficoltà – ha aggiunto – si misura con la sfida dell’intento rieducatore che la nostra Costituzione vuole sia connesso con l’espiazione della pena, un compito dunque molto più delicato della semplice custodia».
Vietti ha esortato a «uscire dei vecchi schemi con i quali è stata gestita finora la realtà carceraria» ed ha rivolto un appello ricordando le parole del Capo dello Stato. La nostra – ha detto – è una «realtà carceraria che ci umilia di fronte al resto dell’Europa: chi ha la responsabilità di operare, lo faccia».
La visita ha consentito anche di mettere in luce alcuni aspetti positivi di una «struttura dignitosamente mantenuta» come il nido. Ma il carcere romano – nonostante sia in condizioni migliori di tanti altri istituti – vive le conseguenze del sovraffollamento (i detenuti sono arrivati a quota 1750) con celle da massimo 4 detenuti in cui vivono in 6 (anche le sale per attività rieducative sono trasformate in celle, ndr.).
Di fronte alle strutture «vetuste» che non si possono sistemare per mancanza di fondi, il vicedirettore del carcere Anna Del Villano chiede di concentrarsi su «soluzioni alternative al carcere». Perché – ha sottolineato un detenuto di Rebibbia presente all’incontro – «la situazione attuale è invivibile».
Le richieste dei reclusi di Rebibbia sono state più che altro degli inviti a «dare maggiore fiducia ai detenuti che nei fatti hanno dimostrato di essere cambiati, guardando al passato ma soprattutto all’oggi». Come ha chiesto un detenuto che a Rebibbia vive da 20 anni.
Fattore Umano | 1° maggio senza sapone. E senza lavoro
Da Il Fatto Quotidiano la testimonianza dei detenuti di Ristretti Orizzonti presso la Casa di reclusione di Padova
L’impatto con il carcere di oggi è drammatico, e lo è in particolare per le persone giovani o al primo reato. Forse gli spazi ridotti non hanno un effetto diretto su chi decide di togliersi la vita, ma se in celle dove dovrebbero stare uno o due detenuti, ne vengono invece parcheggiati tre, quattro, cinque, la mancanza di una prospettiva, l’impossibilità perfino di immaginare un progetto di vita, forse qualcosa c’entrano. Il vero problema non sono i metri quadrati della cella che si riducono, ma il regime di vita che tiene le persone stese in branda per più di 20 ore al giorno, la monotonia della quotidianità che abbrutisce e la mancanza di attività. Sembra paradossale, ma all’aumento del numero dei detenuti sono seguiti, ogni anno, ripetuti tagli ai fondi destinati al carcere.
Oggi l’amministrazione non passa quasi più nulla dei prodotti per l’igiene, come stracci, secchi, scope, che adesso vengono forniti per lo più solo a pagamento. Mentre prodotti come saponette, dentifrici, rasoi e shampoo, sono ormai forniti quasi sempre dai volontari ai detenuti poveri. La carenza d’igiene viene aggravata dal fatto che le persone devono trascorrere gran parte del tempo in cella. Le Regole europee chiamano le celle «camere di pernottamento», poiché dovrebbero essere usate, appunto, per dormire alla sera. In realtà, nella maggior parte delle carceri italiane, si può uscire dalla cella alla mattina per andare all’aria, per due ore, e lo stesso si può fare dopo pranzo, sempre per due ore.
Per il resto si deve rimanere in cella, dove ormai dappertutto hanno installato, in celle da uno o da due, la terza, e magari la quarta e la quinta branda. Per molti le uniche uscite dalla cella sono quelle per i passeggi, ma ormai “l’aria” assomiglia sempre più a un mercato affollato, i cortili sono progettati per contenere le 25 persone di una sezione, se invece ci va tutta la sezione, che ormai è fatta di 75 persone, dovrebbero stare tutti immobili perché camminare sarebbe impossibile. Tre persone che dividono circa undici metri quadri di cella producono sicuramente conseguenze psicologiche pesanti.
In quello spazio sono sistemate le brande, gli stipetti per il vestiario e un piccolo bagno con water e lavabo, il che significa che se uno si muove, gli altri devono stare fermi. Il dover trascorre intere giornate in una situazione del genere fa saltare i nervi, e uno dei problemi principali che la promiscuità causa è l’aumento del disagio mentale e della depressione. Un disagio che trova la sua diretta manifestazione nell’enorme abuso di psicofarmaci, il «contenimento chimico», come lo ha definito un sindacato della Polizia penitenziaria.
Anche lavarsi sta diventando un incubo. Mediamente sono funzionanti tre-quattro docce per sezione: concepite inizialmente per 25 detenuti, ora dovrebbero far fronte alle necessità di Ma il sovraffollamento influisce soprattutto sul lavoro. Nel senso che, mentre il numero dei detenuti cresce, i posti di lavoro sono sempre gli stessi. Quando spesso sentiamo dire dei detenuti «che almeno lavorino!», noi rispondiamo «magari!».
Tutti qui dentro vorrebbero lavorare, perché avere un reddito, anche se minimo, ti fa vivere in modo un po’ più dignitoso in un luogo dove di dignitoso c’è rimasto davvero poco. E però il lavoro non c’è, e di conseguenza sono pochi i detenuti che hanno la possibilità di acquistare dei prodotti alimentari extra, quindi le persone nella stragrande maggioranza aspettano che passi il carrello per consumare i loro pasti. Ma l’amministrazione spende poco più di tre euro al giorno per i tre pasti giornalieri che spettano a ogni detenuto e, con i numeri triplicati, il cibo scarseggia sempre, e l’unico lavoro che non vuol fare quasi più nessuno è il porta vitto.
Qualsiasi ragionamento sul miglioramento delle condizioni di vita in carcere dovrebbe partire dal concetto di «riduzione del danno da carcere». E per ridurlo bisogna pensare a una galera che dia speranze concrete e offra le possibilità di progettare un futuro migliore. Perché non avere una prospettiva, non vedere nella tua vita niente che ti possa aprire uno spiraglio di speranza, si traduce in un forte rischio per le persone, ma anche per la società che prima o poi dovrà riaccoglierle.
Fattore Umano | Carceri: le priorità dei Garanti
Nell’incontro con il Presidente Napolitano, i punti urgenti che chiedono risposta: una Autorità di monitoraggio, un tavolo operativo fra Amministrazione e Garanti stessi, un provvedimento che alleggerisca la presenza di tossicodipendenti detenuti «per reati di lieve entità»
Oltre 66mila erano, circa 66mila restano. A parte qualche centinaio, fuoriusciti con la seconda “svuota-carceri”. Questi i numeri dei galeotti ospiti delle patrie galere. Compreso il dato – senza uguali – dei carcerizzati per reati di droga, magari lievi, nella certezza che tutto può accadere in carcere tranne che si venga curati. Ma c’è di più. Un detenuto costa allo Stato italiano, tutto compreso, 12mila euro al mese, quanto un deputato. I calcoli li ha fatti l’Osapp (Sindacato autonomo polizia penitenziaria): tra personale, manutenzioni, vitto, alloggio e attività ricreative, se si divide la cifra per 66.153 detenuti si arriva «a circa 12mila euro mensili pro-capite, quasi identica allo stipendio di un parlamentare italiano». «Un’emergenza assillante, dalle imprevedibili e forse ingovernabili ricadute», così nel luglio 2011 il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, aveva definito la questione del “sovraffollamento” dei penitenziari. Aggiungendo «va affrontata con i rimedi già messi in atto e con ogni altro possibile intervento, non escludendo nessuna ipotesi che potrebbe essere necessaria».
Che fare? Quali priorità? È il tema sollevato nell’incontro che il Presidente della Repubblica ha auto al Quirinale con alcuni Garanti regionali dei detenuti, fra cui Desi Bruno, Salvo Fleres, Alessandro Margara, Angiolo Marroni, Italo Tanoni e Adriana Tocco, accompagnati da Mauro Palma del Consiglio europeo per la cooperazione nell’esecuzione penale e Francesco Corleone, Coordinatore dei Garanti comunali e provinciali. Presente anche il Capo dipartimento della Polizia penitenziaria, Giovanni Tamburino.
Il primo nodo – secondo i Garanti – è l’istituzione di una autorità indipendente di monitoraggio. Proprio l’Italia non ha infatti ancora ratificato il Protocollo Opzionale delle Nazioni Unite che prevede un simile organo di supervisione e controllo. In secondo luogo, dare piena attuazione a quanto previsto dal Regolamento adottato fin dal 2000, ma attuato in maniera limitata, e avviare un tavolo operativo che permetta il dialogo di operatori, dell’amministrazione penitenziaria e dei Garanti stessi. Terzo punto la possibilità di incidere, pur nel quadro normativo vigente, con un provvedimento “anche parziale”, sull’universo dei detenuti tossicodipendenti, nel caso di reati di lieve entità. Infine, la necessità di rifinanziare la legge per il lavoro detentivo, il nodo dei Direttori mancanti e la riduzione delle figure di educatori e assistenti.
Durante l’incontro il Garante delle Marche Italo Tanoni ha consegnato al Capo dello Stato la relazione annuale sulle carceri delle Marche (sette istituti, in cui sono rinchiusi 1.146 detenuti) e una lettera nella quale auspica un intervento per risolvere la questione del sovraffollamento. In particolare ha sottolineato la necessità di rendere pienamente funzionante la Casa di reclusione di Ancora-Barcaglione, dove ci sono 36 detenuti ma «esistono 90 camere di detenzione non utilizzare che potrebbero ospitare altri 180 reclusi, previo rafforzamento del personale di Polizia Penitenziaria».
Fattore Umano | Quel bluff della “svuota carceri”
Da Antigone i primi numeri: 322 detenuti in meno, rispetto ai 5-6mila attesi. Intanto è conto alla rovescia per la Seconda Marcia per l’Amnistia. A Roma il 25 aprile
Mentre prosegue il conto alla rovescia per la Seconda marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà che si terrà il 25 aprile a Roma, promossa dai Radicali con l’adesione già pervenuta di realtà del volontariato e dell’associazionismo cattolico, ci sono altri numeri dell’universo carcerario che non lasciano spazio all’ottimismo. Uno stillicidio di dati che, dal Nord al Sud della penisola, non cambia mai spartito. Isole comprese, osservando quanto scrive l’Amministrazione penitenziaria, ad esempio, sulla Sardegna: da quando è diventata legge, cioè fin dal 2010, la cosiddetta “svuota carceri” (di cui l’ultimo decreto legge è solo un’estensione), ha consentito l’accesso ai domiciliari di 258 cittadini (67 stranieri). Numeri irrisori se si considera che ci sono voluti 16 mesi di tempo, che hanno tenuti impegnati per una montagna di ore i magistrati, le forze dell’ordine e gli assistenti sociali della regione.
Ma non solo: ottenuti i domiciliari, iniziano gli adempimenti delle forze dell’ordine per verificare il rispetto delle prescrizioni ingiunte al “ristretto”, a partire dai controlli notturni. Controlli doverosi, ma che spingono alcune famiglie persino a rifiutare l’accoglimento del parente detenuto. Dalla Sardegna all’Emilia, il sovraffollamento riguarda anche i minori. Come denuncia il Garante regionale dei diritti dei detenuti, avv. Desi Bruno – al Pratello di Bologna, istituto penale per minorenni, la condizione dei troppi “ristretti” permane «anche se è diminuita passando da 29 a 25, ma per regolamento dovrebbero essere 22».
Non bastassero le notizie di singole realtà, ci pensa l’associazione Antigone a ricostruire i numeri esatti delle “cayenne” tricolori. Il primo dato è sconfortante: «A quattro mesi dalla seconda “svuota carceri” sono solo 312 i detenuti in meno». Le stime parlavano di 5-6 detenuti che avrebbero potuto usufruire dell’allungamento a 18 mesi (residui di pena) da scontare ai domiciliari. Ma la distanza è siderale. Spiega Patrizio Gonnella, presidente nazionale di Antigone: «È stato smascherato quello che è il “bluff” della capienza regolamentare. Apparentemente, la capienza dei nostri istituti in questi anni è cresciuta, ma in realtà si tratta semplicemente del fatto che, negli stessi istituti, si stipano sempre più i detenuti, trasformando in celle tutti gli altri spazi, a scapito di spazi comuni indispensabili per la vivibilità degli istituti».
C’è poi un paradosso. Aggiunge Gonnella: «Dal dicembre 2010 sembrerebbe che qualcosa di positivo sia avvenuto: risultano 5.533 i detenuti usciti. Ma allora perché non si hanno 5.533 detenuti in meno nelle carceri?». «Perché – insiste – si tratta di persone che sarebbero potute uscire con i provvedimenti già esistenti». Insomma, un bluff.
Che fare, dunque? «Servirebbero norme di ampio respiro – spiega Mauro Palma del Comitato per la prevenzione della tortura (CPT) del Consiglio d’Europa – ma l’Italia non adotta provvedimenti di questo tipo, perché la frequenza delle dispute elettorali, troppo ravvicinate, fa sì che non si rischi l’impopolarità intervenendo su queste tematiche».
Fattore Umano | «San Vittore moderno gulag»
Diego Mazzola, militante di Senza Fissa Dimora, ha accompagnato il sen. Perduca in visita ispettiva nel carcere milanese. Presenti anche Nicolò Calabro e Andrea Andreoli dell’Associazione Enzo Tortora. Ecco il suo racconto
«Ho conosciuto per la prima volta la realtà di questo istituto circa trent’anni fa – spiega Diego Mazzola – e ricordo che allora c’erano tre “ospiti” in celle di circa otto metri quadrati. Oggi ce ne sono sei e guardando i volti dei 1.685 detenuti, su una capienza di soli 550, non posso fare a meno di pensare che non passi molta differenza tra queste carceri e i lager e i gulag dei totalitarismi novecenteschi e che la detenzione è solo un sostituto moderno, ma non meno violento, della pena di morte e della tortura».
«Provare per credere – aggiunge Mazzola –. Vorrei tanto che chiunque potesse vivere l’avventura di una visita a San Vittore o in qualsiasi altro carcere italiano. Il carcere insegna che chiunque può diventarne ospite, che ciascuno di noi può essere il “mostro” e che, forse, bisogna guardarsi dalla propensione a punire con tanta facilità o con troppo rigore».
Nella conferenza stampa che Mazzola ha indetto all’uscita dalla Casa circondariale di Milano, ha ribadito la necessità di lavorare per «superare il carcere» allo scopo di rispettare quanto recita l’articolo 27 della nostra Carta costituzionale: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Una tema che affiora anche da parte di ex magistrati, come Gherardo Colombo che ha scritto nel suo libro “Il perdono responsabile”, «il carcere, per come è congegnato, confligge con la dignità, con l’appartenenza al genere umano di chi vi è sottoposto, perché esclude dalla comunità e dalle relazioni con gli altri».
Fattore Umano | Una borsa per una nuova vita
Le borse di Veri Avanzi di Galera al FuoriSalone di Milano dal 17 al 22 aprile
Al via domani il Salone del Mobile di Milano, importante vetrina internazionale del design che fino al 22 aprile animerà l’intera città tra eventi culturali ed happening.
All’interno della 51a edizione del Salone ci sarà spazio anche per i prodotti dal carcere: la linea Vag Spring Edition sarà infatti presentata nel cuore del FuoriSalone nello spazio allestito nell’edificio di Young & Rubicam Brands di via Tortona 37 che ospita anche oggetti di arredo realizzati con materiale di recupero.
La produzione della collezione è stata affidata alle cooperative che gestiscono laboratori interni alle case di reclusione e si occupano di formare i detenuti in previsione del reinserimento nella quotidianità. Le 500 borse realizzate dalle detenute italiane sono firmate da Veri Avanzi di Galera, e sono state realizzate con materiali di recupero provenienti dal carcere stesso e dal territorio: stoffe per materassi, tessuti d’arredamento mandati al macero, vele in disuso e cinture di sicurezza delle auto in rottamazione.
La vendita delle borse proseguirà nei negozi distribuiti in tutta Italia che aderiscono alla rete di Recuperiamoci! e all’Of-Fucina di Prato. Per ulteriori informazioni: www.recuperiamoci.org.
Fattore Umano | Resurrezione di giustizia
I Radicali confermano la Seconda Marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà. Appuntamento il 25 aprile, oltre ad un sit in il giorno di Pasqua davanti a Regina Coeli. Tra le adesioni: Don Mazzi, Don Ciotti, Don Gallo, venti cappellani di carceri, associazioni del volontariato cattolico e i Vescovi della Basilicata
«Il giorno di Pasqua saremo alle ore 10 davanti al carcere di Regina Coeli, luogo simbolo della violazione costante di violazione di diritti umani fondamentali, per spostarci in fila indiana verso via della Conciliazione e raggiungere Piazza San Pietro prima dell’Angelus». È quanto scrive l’on. Rita Bernardini nel confermare la doppia iniziativa Radicale che prevede, oltre al sit-in, la Seconda Marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà che si terrà il prossimo 25 aprile.
Si tratta, aggiunge Bernardini, di «Un omaggio che i radicali vogliono rendere a Giovanni Paolo II che nella Pasqua del 1979 accolse con parole forti d’amore i marciatori contro lo sterminio per fame nel mondo che raggiunsero a migliaia, da Porta Pia, Piazza San Pietro. Non mancarono allora le voci scettiche e diffidenti che ritennero quell’itinerario offensivo nei confronti della Chiesa Cattolica, ma a fronte di un atteggiamento ostile dell’Avvenire fu l’Osservatore Romano con un articolo di Padre Gino Concetti a compiacersi della campagna contro lo sterminio per fame dei radicali».
Laici e cattolici si ritroveranno quindi uniti nel denunciare «la flagrante violazione di diritti umani universalmente acquisiti sia per la drammatica situazione delle carceri, sia per il malfunzionamento della giustizia soffocata da dieci milioni di procedimenti penali e civili inevasi».
Tra le adesioni alla Seconda Marcia quelle di Don Antonio Mazzi (che già promosse la marcia di Natale del 2005), di Don Luigi Ciotti, di Don Andrea Gallo, di venti cappellani delle carceri, della rivista Tempi, del volontariato cattolico e del sostegno dei Vescovi della Basilicata a partire da Monsignor Agostino Superbo.
Questo il programma del giorno di Pasqua:
- ore 10 sit-in davanti al Carcere di Regina Coeli (marciapiede lungotevere Gianicolense)
- ore 11 marcia in fila indiana da lungotevere Gianicolense a Lungotevere in Sassia, a Via San Pio X, a via della Conciliazione
- ore 11.30 Piazza Pio XII, Piazza San Pietro