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Fattore Umano | «Io manager offro una chance ai carcerati»


Alessandro Proto incontra i giovani detenuti di San Vittore per aiutarli a trovare un lavoro una volta usciti dal penitenziario


Alessandro Proto, titolare società di consulenza che porta il suo nome, si occupa tutti i giorni di finanza e immobiliare. Da qualche mese, però, fa anche altro. In agenda ha inserito degli appuntamenti nella Casa circondariale di San Vittore per spiegare ad alcuni giovani detenuti come affrontare la sfida di trovare un lavoro una volta usciti dal penitenziario. «Sto cercando di far capire ai ragazzi – racconta – che non è molto diverso vendere aziende, case o titoli azionari. Quel che conta è come proponi te stesso. La differenza non la fa il prodotto ma la facciamo noi». «E tutti – aggiunge – devono avere una seconda possibilità. Soprattutto chi non ha mai avuto la prima»


Come si è avvicinato al carcere?

È da molto tempo che seguo quanto accade nelle carceri italiane e il degrado che circonda le persone detenute, molte delle quali in attesa di giudizio quindi, fino a prova contraria, innocenti. Molti, tra l’altro, sono ancora in attesa del processo di primo grado ed è quindi assolutamente deprecabile che siano rinchiusi per mesi. La molla che ha fatto scattare la volontà di fare qualcosa è stata la lettura dell’ennesima notizia di un ragazzo suicida. Ho pensato che dovevo fare qualcosa, magari poco, però qualcosa. Così ho chiamato la direttrice del Carcere di San vittore…


E cosa è successo?

La dottoressa Manzelli è stata gentilissima, subito disponibile e attiva. Ci siamo sentiti e dopo due giorni ci siamo incontrati, ho illustrato quale era la mia idea e in meno di un mese abbiamo iniziato. Sono stato molto colpito dalla sua umanità e dalla sua disponibilità.


Cosa insegna ai detenuti?

Insegniamo la base che deve sapere chiunque cerchi di affacciarsi al mondo del lavoro. Come ci si presenta, la stretta di mano, la posizione da assumere, il tono di voce, cosa dire e cosa non dire, per poi passare a temi più tecnici, come le tecniche di vendita, la gestione del rifiuto, come controbattere a un NO, ma soprattutto cerchiamo di fargli capire che oggi ci sono tante possibilità. Bisogna solo essere in grado di coglierle nel modo giusto.


Un profilo dei suoi corsisti?

Ragazzi dai 20 ai 26 anni. Alcuni italiani altri stranieri che però parlano bene l’italiano. Ragazzi che hanno voglia di rifarsi una vita onesta però non hanno gli strumenti necessari. Noi glieli forniamo.


Qualche reazione da parte delle aziende?

Quando la notizia è diventata di dominio pubblico molte aziende ci hanno chiamato per sapere perché facevamo questa cosa e se secondo me ci potessero essere ragazzi validi da assumere o da “provare”.


Quali le maggiori tensioni e preoccupazioni dei suoi… studenti?

La maggiore preoccupazione è data dal pregiudizio che la gente può avere nei loro confronti, ma è una preoccupazione semplicemente superabile. Per il resto non ho avuto difficoltà di gestione. Anzi, devo dire che sono sempre molto attenti e fanno interventi appropriati. Hanno sempre una concentrazione alta e non è semplice su 3 ore continuative di corso.


A che punto siete del corso? Un primo bilancio?

Siamo quasi alla fine. Verrà poi rilasciato loro un attestato di frequenza che potranno spendere una volta usciti. Il bilancio è molto più positivo di quanto potessi immaginare.


Andrà avanti? Pensa già ad un altro corso?

L’esperienza di San vittore continuerà. Finito il corso con questi ragazzi ne faremo altri e continueremo. L’idea o il sogno è quella di prendere altre persone e poter fare la stessa cosa in altre carceri in Italia. Spero solo di ricevere lo stesso supporto che abbiamo ricevuto dalla direzione di Milano.


Fattore Umano | La marcia di Pasqua

L’appello di Rita Bernardini, Maurizio Turco e Irene Testa: a Roma, domenica 8 aprile, giorno di Pasqua, la seconda Marcia per l’amnistia, la giustizia, la libertà



Già sette anni fa, il giorno di Natale del 2005, abbiamo sfilato da Castel Sant’Angelo, e poi toccato luoghi simbolo come il carcere di Regina Coeli e luoghi istituzionali (presidenza della Repubblica, presidenza del Consiglio, Camera e Senato), invocando un provvedimento di amnistia e di indulto, per ridurre in modo significativo i carichi processuali che da anni soffocano tribunali e uffici giudiziari, e per sgravare il carico umano che soffre – in tutte le sue componenti, i detenuti, il personale amministrativo e di custodia – la condizione disastrosa delle prigioni italiane: oggi in Italia, nonostante i recenti provvedimenti varati dal Governo ci sono oltre 7mila detenuti in più che nel 2005.


Da allora la situazione si è ulteriormente aggravata e incancrenita. Ci troviamo, come Stato e come Repubblica, nella situazione, innegabile – anche tecnica – di costante, palese flagranza criminale; una ripetuta e continuata violazione di tutte le legislazioni vigenti, internazionali, europee e nazionali, provocata dagli oltre dieci milioni di procedimenti penali e civili pendenti; in conseguenza a ciò il nostro paese è costantemente sanzionato dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, per «l’irragionevole durata dei processi che costituisce un grave pericolo per lo stato di diritto».


Rileviamo che nel frattempo, non un solo grande dibattito e confronto né dal servizio pubblico radiotelevisivo, né da quello privato, è stato dedicato a questo grande tema, lavera, grande emergenza del paese. Gli obiettivi della Seconda Marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà sono gli stessi della prima marcia del 2005. Per queste ragioni invitiamo tutti i convocatori di allora a manifestare e manifestarsi, perché oggi la situazione è palesemente più grave.


«Noi vogliamo servire lo Stato, non essere complici di violenza e illegalità contro la giustizia e lo Stato stesso”, affermano i Direttori Penitenziari». E noi tutti, promotori della Seconda Marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà diciamo senza inimicizia e ostilità nei confronti di alcuno che intendiamo offrire come forza supplementare quella che devono avere in primo luogo tutti i responsabili istituzionali.


Se desideri sottoscrivere l’appello compila il modulo online che trovi qui.

 

Grazie, a presto

Maurizio Turco, Rita Bernardini, Irene Testa


Fattore Umano | Tutti in cella, per capire


A Fa’ la cosa giusta! la possibilità di vivere 5 minuti come i detenuti italiani. Appuntamento dal 30 marzo a Fieramilanocity con la Caritas


La Caritas Ambrosiana invita il pubblico ad entrare in cella. L’appuntamento è all’edizione nazionale di Fa’ la cosa giusta! a Milano il 30 marzo presso il padiglione 4 nell’area Pace di Fieramilanocity. Fino al 1° aprile, a gruppi di 6 persone, i visitatori potranno partecipare a Extrema Ratio e vivere l’esperienza emotiva della reclusione, passando 5 minuti in una cella di 8 metri quadrati.


La cella è stata realizzata dai lavoratori detenuti della falegnameria interna al carcere di Bollate. Gli arredi sono stati forniti dalla direzione dell’istituto, grazie all’autorizzazione del Dipartimento Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria. Dicono i promotori: «Poiché non è possibile portare i visitatori dello stand in una cella, portiamo una cella nello stand».


I visitatori saranno invitati a farsi fotografare, lasciare le proprie impronte digitali e depositare le borse prima di iniziare «l’esperienza di detenzione volontaria nella cella» con la ritualità e le modalità di fruizione presenti nel carcere. Al termine dei cinque minuti di reclusione, alcuni operatori offriranno delle letture del breve percorso ed informazioni sulla situazione attuale delle prigioni italiane.



L’esperienza di Extrema Ratio sarà un’occasione «per fermarsi e riflettere su una condizione carceraria nazionale che presenta ormai tratti di preoccupante gravità». Basti dire che in Lombardia il tasso di sovrappopolamento carcerario è del 173%. Per provare sulla propria pelle – spiegano gli organizzatori – «la reale condizione di restrizione della libertà personale» e stimolare nella gente una seria riflessione sulla possibilità di una «diversa concezione della pena».


«Il titolo dell’iniziativa – spiega Don Roberto Davanzo, direttore della Caritas Ambrosiana –, richiama una citazione del Cardinal Carlo Maria Martini: “la carcerazione va vista come un intervento di emergenza, un estremo rimedio per arginare una violenza gratuita e ingiusta impazzita e disumana. Andrebbero privilegiate l’utilizzazione di forme sanzionatorie diverse dal carcere, che in molti casi potrebbero assumere un significato costruttivo”». Per limitare i danni dell’attuale sistema bisognerebbe «incentivare le misure alternative alla detenzione – aggiunge Don Davanzo –, depenalizzare alcune tipologie di reati e superare i limiti che negano la possibilità per i recidivi di godere dei benefici di legge».


Sempre venerdì 30 marzo, dalle 18,30 alle 20, presso la Sala Africa, la Caritas Ambrosiana ha anche organizzato un incontro dal titolo Il perdono responsabile. Un’occasione di dialogo sui temi della carcerazione, l’efficacia del sistema penitenziario, le finalità di tali pratiche di reclusione, la giustizia riparativa e il perdono. A partire dall’esperienza di Gherardo Colombo, già Magistrato del Tribunale di Milano, e Don Virgilio Balducchi, Ispettore Generale dei Cappellani dell’Amministrazione Penitenziaria.


Fattore Umano | Tra le serre di Cascina Bollate


Una mattina fra 90mila piante e detenuti dalla faccia tranquilla. «Benvenuti in un carcere normale», spiega la fondatrice della Onlus, Susanna Magistretti. Per partecipare alle visite basta spedire una mail a info@cascinabollate.org



Il doppio portone in ferro fa capire che si sta entrando in un luogo ristretto. Eppure, il carcere di Bollate presenta subito qualcosa di diverso. Il giallo pallido degli edifici è ravvivato da finestre scontornate di colori vivaci. Sarà poco, ma la policromia agisce anche sugli stati d’animo. E’ può far bene. Stamane, poi, caso vuole che il primo saluto lo dia un cavallo bianco con un paio di robusti nitriti. È uno dei sei accuditi nel maneggio interno.


La visita al vivaio di Cascina Bollate inizia poco dopo le 10 del mattino, come ogni primavera, con una media sono 3-4 appuntamenti al mese fino ad ottobre. Sono aperti al pubblico e chiunque, purché maggiorenne, può chiedere di partecipare inviando una mail a info@cascinabollate.org.


Attualmente la cooperativa sociale che gestisce Cascina Bollate dà lavoro a una decina di persone, di cui sei giardinieri-detenuti. Nata a inizio 2008, vanta oggi circa 90mila piante seminate su un ettaro di terra e un fatturato annuo di 170mila euro che permette di ripagare spese e stipendi.


«A Bollate si fa quel che si dovrebbe fare in ogni carcere, sono gli altri l’eccezione», spiega Susanna Magistretti, fondatrice e animatrice della cooperativa. Esperta in piante e fiori, di mestiere progetta e sistema giardini. «È la legge – aggiunge – a stabilire che la pena deve puntare al reinserimento sociale. Per questo a Bollate si dedica grandissima attenzione al modo in cui i detenuti impiegano il tempo».



Nel concreto: celle aperte 12 ore al giorno, con possibilità di lavoro, studio e attività ricreative. Come risultato, Bollate costa meno di altri carceri e il rischio recidiva non supera il 15%, rispetto ad una media nazionale che va oltre il 60%.


Certo, Bollate è un carcere a custodia attenuata: 1200 detenuti, di cui circa 60 donne. Celle da 12 metri con cucinino e fino a quattro letti, oppure singole per detenuti anziani. La percentuale di chi lavora è intorno al 50%, di cui 120 esterni come articolo 21. Diverse le cooperative sociali che si occupano di catering, sartoria, scenografie teatrali e call center. Ad esempio, pochi sanno che le informazioni del numero 1254 possono partire da Bollate.


Ora però il lavoro però scarseggia. «Bollate – prosegue Magistretti – sconta la crisi, come tutto il paese, e la legge Smuraglia nata per favorire l’attività lavorativa dei detenuti viene rifinanziata meno di prima. Mentre anche Comune e Regione, benché sensibili al tema, hanno le casse vuote».


Per chi visita il vivaio di Cascina Bollate comprare piante non è un obbligo: ovviamente è gradito. Del resto, è difficile trattenersi una volta che si è lì. Anche perché vi riempiono di consigli preziosi: se anche non capite niente di Lavandule, Aspidistre o Viole Cornute, uscirete perfettamente istruiti.


Fattore Umano | Pasqua: Marcia per l’amnistia, la giustizia e la legalità


*di Rita Bernardini e Irene Testa


Nel Natale del 2005, forse anche tu hai marciato con noi a Roma per l’amnistia, la giustizia e la legalità. Per denunciare e chiedere al Parlamento un impegno concreto e solerte per far fronte alle drammatiche condizioni in cui versano la giustizia e le carceri nel nostro Paese.


Allora e anche oggi, ormai da decenni, si tratta di una delle più grandi questioni sociali in Italia, fonte continua, ripetutamente sin dal 1980, di condanne da parte delle corti di giustizia europea e internazionali, per violazione di diritti umani fondamentali.


Non si tratta solo della condizione delle carceri, nelle quali 67.000 detenuti sono ammassati in celle che potrebbero ospitarne al massimo 45.000, ma della vita di milioni di cittadini italiani e delle loro famiglie, che sono parti in causa negli attuali oltre 10 milioni di procedimenti penali e civili pendenti nei nostri tribunali, molti dei quali destinati a risolversi dopo troppi anni se non anche vedere i reati imputati cadere in prescrizione; in media sono infatti 500 ogni giorno le prescrizioni di reati che maturano nel silenzio.


Anche oggi, come ieri, continuiamo a ritenere che per far fronte a questa grave situazione, solo uno strumento tecnico quale un provvedimento di amnistia, la più ampia possibile, che possa da subito ridurre drasticamente il carico processuale della Amministrazione della Giustizia, perché essa, sollevata dal peso immane di un arretrato impossibile da smaltire, possa così tornare al più presto a operare con efficienza. Amnistia che sia premessa e traino di quella Riforma della Giustizia da anni invocata e mai realizzata. Assieme a questa, un indulto. Per ripristinare la legalità nelle nostre carceri.


Per rilanciare nuovamente con forza queste istanze, da tempo e sempre più avvertite come insostituibili esigenze sociali, stiamo in queste ore verificando la fattibilità in termini di slancio e di presenze di una “Seconda Marcia per l’amnistia, la giustizia e la legalità” nel giorno di Pasqua, il prossimo 8 aprile. I tempi sono strettissimi e l’obiettivo molto ambizioso, ma, crediamo, anche doveroso.


L’idea è di ripercorrere lo stesso tracciato che nel 2005 portò alla costituzione di un Comitato promotore della marcia, e nelle prossime ore avvieremo un primo giro di contatti per capire chi di quei promotori di allora voglia far parte oggi di questa nuova iniziativa, e anche per sondare e suscitare nuove eventuali adesioni. Don Antonio Mazzi, Giulio Andreotti, Emilio Colombo, Francesco Cossiga, Rita Levi Montalcini, Giorgio Napolitano, Sergio Pininfarina, Antonio Baldassarre, Giuliano Vassalli, questi i nomi prestigiosi che convocarono la Marcia del 2005.


Uniamo a questa comunicazione la richiesta di una vostra valutazione e riflessione in merito a questa proposta, e dell’eventuale disponibilità a partecipare ai prossimi appuntamenti convocati a breve, durante i quali andremo definendo meglio cosa sarà opportuno fare, con la convinzione, crediamo da te condivisa, che per realizzare questo nostro obiettivo, sia ovviamente essenziale la massima disponibilità di tutti.


*L’on. Rita Bernardini è membro della Commissione Giustizia alla Camera

Irene Testa, dirigente Radicale, è Segretario dell’Associazione Il Detenuto Ignoto

Fattore Umano | «Regina Coeli da chiudere»

La replica del governo sulle condizioni del carcere e i decessi di Massimo Loggello e Tiziano De Paola. L’on. Bernardini: «Situazione inumana e soccorsi non tempestivi»



La Casa circondariale di Roma Regina Coeli


Il “caso” Regina Coeli. Il 1° marzo la Seconda Commissione permanente Giustizia ha risposto alle questioni di «emergenza umanitaria» del carcere romano, sollevate con un’interrogazione dall’on. Bernardini, compresa la richiesta di approfondimento sul decesso di Massimo Logello, stroncato da infarto, e la morte per overdose di Tiziano De Paola. Ebbene, per il sottosegretario Mazzamuto l’emergenza sarebbe sotto controllo e la situazione «costantemente monitorata al fine di garantire i necessari standard di vivibilità e salubrità».




Una risposta che però non ha convinto l’on. Bernardini viste le «condizioni di detenzione indecenti e disumane» di Regina Coeli. Così come non è chiaro cosa intenda fare il governo per eliminare il «grave e permanente stato di violazione dei diritti umani fondamentali» nelle carceri.


Ricapitolando: la Casa Circondariale di Regina Coeli, al 28 febbraio, ospitava 1.074 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 640 posti e una capienza di necessità di 918 posti. Una situazione “invivibile” da anni, nonostante gli  investimenti effettuati negli ultimi dieci anni, per la manutenzione ordinaria e straordinaria del fabbricato detentivo. A complicare l’emergenza ci sono poi le carenze di personale della Polizia penitenziaria e – come sottolineato nell’interrogazione – la quasi assenza di psicologi rispetto alle esigenze.


L’interrogazione chiedeva anche di rendere pubbliche le informazioni note al Ministero di Giustizia in merito alla morte di Tiziano De Paola (sapere se sarà disposta un’indagine amministrativa interna) e se sono state avviate «indagini della magistratura e/o accertamenti dell’amministrazione penitenziaria per individuare eventuali responsabilità» sul decesso di Massimo Loggello.


Mazzamuto ha spiegato come sia stata disposta «una visita ispettiva interna e trasmessa tempestiva segnalazione alla competente Procura della Repubblica», aggiungendo che la Procura di Roma ha comunicato che le indagini investigative sono in corso, insieme agli accertamenti tecnici per individuare le cause dei decessi.


Replica dell’on. Bernardini: su Massimo Loggello alcune testimonianze sembrano raccontare una versione diversa: «i soccorsi non sono stati così tempestivi». E torna a ribadire la sua posizione: «Il carcere di Regina Coeli andrebbe chiuso».


Fattore umano | «Il senso della rieducazione» a Convegno


Nella Casa di reclusione di Padova la Giornata di studi promossa da Ristretti Orizzonti, Ministero Giustizia e Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. Appuntamento il 18 maggio


Le iscrizioni sono già iniziate. L’appuntamento è per venerdì 18 maggio, dalle 9.30 alle 16.30, presso la Casa di Reclusione di Padova dove si terrà una Giornata nazionale di studi dedicata al tema: «Il senso della rieducazione in un Paese poco “educato”». A partire, dunque, dal senso di una pena (carceraria) che la Costituzione italiana chiede «rieducativa».


Ma in un paese poco «educato», dove la legalità trova barriere già nei piccoli comportamenti di molti cittadini, la questione si complica. E tocca domandarsi, ad esempio: cosa potrebbe essere, poi, la rieducazione? E chi dovrebbe esercitare la funzione del «rieducatore»? «Anche perché – aggiungono i promotori – è il caso di smettere di pensare che «a commettere reati siano sempre “gli altri” e che il carcere sia l’unica punizione possibile».


La giornata si svilupperà su alcuni filoni quali la «mala e buona educazione», il tema del carcere che produce una «regressione infantile» nei detenuti, i passaggi complessi di una possibile «rieducazione» compresi i suoi fallimenti, le dinamiche del detenuto-vittima, l’esigenza di una rieducazione sentimentale, il delicato ruolo della stampa, soprattutto quando non informa ma «diseduca».


Tra i relatori presenti:


  • Giovanni De Luna, Professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Torino, autore, tra l’altro, del saggio La Repubblica del dolore e della prefazione a Lo Stato siamo noi di Piero Calamandrei.
  • Gherardo Colombo, ex magistrato, autore, tra l’altro, dei saggi Sulle Regole, Democrazia e Il perdono responsabile.
  • Mauro Palma, Presidente uscente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o pene inumani o degradanti del Consiglio d’Europa.
  • Roberto Bezzi, Responsabile dell’area pedagogica nella Casa di reclusione di Bollate.
  • Ivo Lizzola, Professore ordinario di Pedagogia Sociale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bergamo.
  • Deborah Cartisano, figlia di Lollò Cartisano, il fotografo di Bovalino sequestrato ed ucciso dalla ‘ndrangheta.
  • Eraldo Affinati, scrittore, la sua ultima opera è Peregrin d’amore.
  • Pietro Buffa, Direttore della Casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino.
  • Alessandra Augelli, Dottore di ricerca in Pedagogia. Svolge attività di formazione sui temi dell’affettività e della relazionalità, privilegiando le metodologie narrative ed autobiografiche.
  • Beppe Pasini, docente a contratto di Pedagogia della Famiglia all’Università di Milano Bicocca e di Pedagogia Sperimentale all’Università di Brescia.
  • Giovanni Bianconi, giornalista del Corriere della Sera. L’ultimo suo lavoro è Il brigatista e l’operaio. L’omicidio di Guido Rossa. Storia di vittime e colpevoli.
  • Coordinerà i lavori Adolfo Ceretti, Professore ordinario di Criminologia, Università di Milano-Bicocca, e Coordinatore Scientifico dell’Ufficio per la Mediazione Penale di Milano.


Clicca qui per il modulo d’iscrizione e qui per il programma della Giornata.


Fattore Umano | Corte di Strasburgo: cure garantite a tutti i detenuti


Dalla Seconda Sezione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo un’altra condanna per l’Italia per «trattamenti disumani e degradanti»



Il palazzo della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo



«Le condizioni di detenzione che procurano un peggioramento della malattia di un detenuto costituiscono un trattamento disumano e degradante vietato dall’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali: Nessuno può essere sottoposto a tortura nè a pene o trattamenti inumani o degradanti». Ecco – in sintesi – quanto emerge dalla sentenza del 7 febbraio (Cara-Damiani contro Italia, ndr.) dalla Corte europea di Strasburgo a seguito del ricorso del 13 dicembre 2004 di un detenuto italiano. Il ricorrente è Nicola Cara-Damiani, un sessantacinquenne entrato in carcere nel 1992. Affetto da paralisi agli arti inferiori, è costretto su una sedia a rotelle da 15 anni.




Nel 2003, a causa delle sue condizioni, Cara-Damiani viene trasferito da Bologna al carcere di Parma, struttura che gli poteva garantire il necessario programma di fisioterapia perché provvisto di una specifica unità per disabili. Una garanzia, però, che è rimasta solo sulla carta: il detenuto disabile finisce, infatti, in una “sezione ordinaria” nella quale non ha accesso ai servizi igienici, non può fare fisioterapia e non ha possibilità di movimento con la sedia a rotelle. L’unità per disabili – non funzionante per mancanza di fondi e con poco personale – è stata inaugurata solo nel 2005. Damiani vi rimane fino al 2008 (era arrivato a Parma nel 2003, ndr.) quando ottiene il ricovero in una clinica. Nel settembre 2010 però rientra in carcere, dove rimane fino al 23 novembre 2010.


Con questa decisione, la Corte di Strasburgo (che condanna l’Italia anche a versare alla parte lesa 10.000 euro di risarcimento, ndr.) ricorda a tutti gli stati Membri il principio fondamentale secondo cui essi hanno l’obbligo di assicurare che «tutti i carcerati siano detenuti in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana». Ma non solo: avendo riguardo per le esigenze “pratiche” della reclusione, devono garantire che «la salute dei carcerati sia salvaguardata in maniera adeguata» e che le cure in carcere siano «a un livello comparabile a quelle che lo Stato garantisce all’insieme della popolazione».


Fattore Umano | Un magistrato di sorveglianza “latitante”


Interrogazione parlamentare dell’On. Bernardini dopo la visita ispettiva nel carcere di Rimini. Dove si affollano “tossici” e stranieri, senza che ASL e magistrato preposto si facciano vivi. E lo stesso Comandante dice che una sezione «è come il Bronx»



La Casa Circondariale di Rimini


Il magistrato di sorveglianza? Da quando è in carica, non si è mai visto (per la cronaca è il Dott. Franco Raffa). Ma nemmeno i funzionari della ASL di riferimento si prendono la briga di fare le dovute ispezioni sulle condizioni igienico-sanitarie delle celle e di altri spazi per detenuti e agenti. Cose che capitano nella Casa Circondariale di Rimini, dove alcuni che dovrebbero sorvegliare e controllare, non controllano e non sorvegliano.



Nulla che riguardi il personale interno o la direzione dell’istituto. Ma così, non c’è da sorprendersi se perfino il comandante Fernando Picini definisce la prima sezione «un Bronx». Sono solo alcune cose che si scoprono leggendo l’interrogazione parlamentare rivolta al ministro Severino dall’On. Rita Bernardini, dopo la visita ispettiva dei giorni scorsi nel carcere riminese, accompagnata dall’Avv. Desi Bruno, Garante regionale dei diritti dei detenuti, da Irene Testa (Segretaria Associazione Il Detenuto Ignoto), Vincenzo Gallo (Consigliere comunale PD a Rimini), Ivan Innocenti (Associazione Luca Coscioni) e il radicale Filippo Vignali.


Le cifre crude parlano di un carcere dove tossicodipendenti ed extracomunitari rappresentano la stragrande maggioranza della popolazione carceraria: «I detenuti presenti nell’istituto – si legge – sono 204 a fronte di 150 posti regolamentari disponibili; il 65% dei detenuti sono tossicodipendenti, il 70% stranieri in massima parte magrebini, albanesi e rumeni; i detenuti in attesa di primo giudizio sono 63, gli appellanti 25, i ricorrenti 21, i definitivi 77; i detenuti con posizione mista con una sentenza definitiva sono 11, mentre i detenuti con posizione mista senza definitivo sono 6; i semiliberi sono in tutto 6». Di tutti questi, però solo «20 detenuti lavorano a rotazione perlopiù impegnati in mansioni domestiche all’interno dell’istituto».


Insomma, tante anime perse, con pochissimi che possono fare di meglio che restare 20 ore al giorno in una cella sovraffollata. Gli agenti (143) sono il 40% in meno degli effettivi (102), con 6 educatori e 2 psicologi. Le richieste (le lamentele) dei detenuti sono quelle di sempre: poter lavorare, poter studiare, non vedersi piovere dal soffitto acqua sulla testa, avere i soldi per telefonare e avvisare i parenti che si è detenuti, o avvisare la famiglia che si verrà trasferiti (a San Vittore). Piccole cose, in apparenza, ma che diventano cose “impossibili” nel carcere romagnolo. Dove capita anche che venga negato di partecipare ai funerali della moglie.


Per tutto questo, ma non solo per questo (vedi sotto testo integrale dell’interrogazione), l’On. Bernardini chiede se si «intenda verificare l’operato della magistratura di sorveglianza in merito all’aderenza del suo operato a quanto prescritto dalla normativa riportata in premessa». Già, chi controlla chi deve controllare? Al neoministro Severino l’ardua risposta.


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Fattore Umano | Decesso a Regina Coeli, al Dozza in cella un non vedente


Ancora un morto nel carcere romano, il terzo in meno di un mese, mentre nell’istituto di Bologna si resta in galera pure da ciechi. Con l’assistenza di un altro detenuto



Il carcere romano di Regina Coeli


Un altro decesso a Regina Coeli, il terzo in meno di un mese, avvenuto nella notte di venerdì e sabato 25 febbraio. A morire nel centro clinico del carcere romano un detenuto di 65 anni, Angelo Savarese, affetto da diverse patologie cliniche, diabete compreso.  Una morte «per cause naturali». «L’uomo – si legge nel comunicato a firma del garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni – era ricoverato nel Centro diagnostico terapeutico dove stava scontando una pena di diversi anni per cumulo di condanne». E a nulla sono serviti i soccorsi «pur tempestivi», e la presenza di medici: Savarese si è sentito male ed è deceduto poco dopo.




Aggiunge però Marroni: «Il centro clinico di Regina Coeli è una struttura di riferimento nazionale per la salute in carcere ma, come il resto del penitenziario, soffre di molti mali: rotture di impianti e infiltrazioni, precarie condizioni igieniche, sovraffollamento e promiscuità, carenza di macchinari e di risorse economiche». Del resto, ad essere ricoverati non sono solo gli ammalati interni del carcere, ma anche detenuti provenienti da tutta Italia con gravi patologie. Come risultato, c’è un detenuto che da 14 mesi aspetta un intervento chirurgico, mentre un altro, trasferito dalla regione Sicilia, aspetta da tre mesi un fisioterapista.


Insomma: «È l’intero complesso di Regina Coeli – aggiunge Marroni – a non essere più in grado di garantire standard accettabili di vivibilità per nessuno, dai detenuti agli agenti. Regina Coeli ha oltre 300 anni e li dimostra tutti, e non possono bastare gli interventi di ristrutturazione, pur radicali. Solo qualche settimana fa avevamo proposto di chiudere il carcere ai nuovi ingressi per alleviare il sovraffollamento. Ora credo che sia giunto il momento di pensare alla chiusura di Regina Coeli».



Casa circondariale di Bologna Dozza


Da Roma a Bologna, un viaggio-incubo che si ripete: «Tre persone in una cella in cui dovrebbe starcene una sola, costrette a stare sdraiate sul loro letto per la mancanza di spazio di movimento; quattro docce (fredde) per 75 detenuti; derrate alimentari stipate nei bagni e tre esperti-psicologi (pagati 17 euro l’ora) che devono stare dietro a 480 detenuti». È la denuncia sul carcere della Dozza, dopo la visita di alcuni avvocati penalisti, guidati dal Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane, Valerio Spigarelli. I ristretti “stipati” sono 1.083, contro i 450 previsti dalla capienza regolamentare.





Ma non c’è solo il sovraffollamento cronico, ci sono casi umani oltre il limite della vergogna. Ad esempio, c’è un detenuto non vedente di 65 anni: «Lo assiste un detenuto-piantone – spiegano i penalisti – pagato tre ore al giorno ma in realtà fa le altre 21 ore di volontariato per non lasciarlo solo». Per non dire di un altro recluso, reduce da un trapianto di fegato, che al momento resta in infermeria. «Avrebbe dovuto stare isolato per evitare contagi, ma la direttrice ha dovuto scegliere il “male minore” cioè quello di tenerlo in infermeria», dicono i penalisti.


Commenta Spigarelli: «Siamo di fronte a una situazione di assoluta inciviltà, i detenuti sono costretti a vivere in condizioni intollerabili, in particolare quelli in attesa di giudizio». «Il problema – aggiunge – è soprattutto una legislazione che non fa altro che appesantire il sistema delle pene e prevedere il carcere per sempre più reati, mentre le misure alternative, come la messa in prova, sono pressoché sparite. E la cosiddetta legge “svuota carceri” non ha svuotato niente».


Che fare? «Prima di tutto – insiste il Presidente UCPI – provvedimenti incisivi in tema di custodia cautelare. Il carcere deve essere l’estrema ratio e non può diventare un ricettacolo delle persone ai margini della società. La custodia cautelare va limitata, facendo tornare in vigore una serie di misure alternative ormai scomparse in tanti Tribunali di sorveglianza, Bologna compresa, come l’affidamento in prova, i lavori socialmente utili che a volte possono essere molto più educativi e deterrenti che restare 20 ore al giorno chiusi in una cella o la semilibertà».


Nel frattempo, quando il numero dei detenuti alla Dozza supera il numero di 1.100, si aggiungono per terra dei materassi. Alcune celle hanno la doccia interna (tre metri quadrati su 10), ma la maggior parte dei detenuti deve utilizzare quelle al piano: sono quattro per 25 celle pari a 75 persone. E sono «docce fredde con un unico rivolo d’acqua», afferma l’avv. Elisabetta D’Errico, presidente della Camera penale di Bologna, rimarcando, a proposito di bagni, che vi si trovano «le derrate alimentari, frutta e verdura, stipate».


La grave carenza di educatori obbliga gli stessi agenti penitenziari a trasformarsi la sera in «psicologi verso i detenuti», sottolinea Alessandro De Federicis, responsabile dell’Osservatorio carcere UCPI. Gli educatori alla Dozza sono in tutto sette (tre dei quali al momento assenti): «devono seguire 480 detenuti, con un monte ore di 60 ore mensili pagate 17 euro lordi all’ora».


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