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Fattore Umano | Un Vademecum sui diritti-doveri dei detenuti
Italo Tanoni, Ombudsman regione Marche: «Nei colloqui con i detenuti ho capito le difficoltà di molti, soprattutto stranieri, a capire come funziona il carcere in Italia». Da qui l’idea di uno piccolo volume per facilitare l’accoglienza in un ambiente «spesso invivibile»
Parte oggi nei 7 istituti penali delle Marche la distribuzione di un “Vademecum” stampato in 1500 copie da distribuire in ogni cella. Tradotto in 8 lingue (nei sette istituti di pena marchigiani, quasi la metà dei reclusi, il 44% di 1.186, sono stranieri, ndr.) – intende spiegare a chi entra in carcere, oltre ai doveri, i propri diritti. «Alcuni – spiega il Dott. Tanoni – sono sacrosanti come il rispetto per la persona, la salute, l’istruzione, l’informazione, altri un po’ meno, soprattutto nel vissuto quotidiano: il lavoro anche interno al carcere e le misure trattamentali, ad esempio, sono scarsamente diffusi». Con il risultato che – sottolinea il Garante – «la maggior parte dei detenuti vive la propria giornata nella noia più completa dentro lo spazio angusto di una cella, senza far nulla».
Il volumetto, visionato prioritariamente sia da alcuni Direttori delle carceri marchigiane sia da rappresentanti della polizia penitenziaria, contiene anche informazioni per i famigliari dei detenuti: gli indirizzi di alcune case alloggio utili per le visite dei famigliari ai parenti in carcere. Ci sono anche i recapiti delle principali associazioni di volontariato che operano all’interno dei 7 istituti penali delle Marche. Inoltre – spiega il Prof. Tanoni – «vengono chiariti ruolo e funzioni del garante dei diritti dei detenuti e le modalità per chiedere il suo intervento».
Oggi verrà fatta la prima distribuzione di 150 copie nelle celle di Montacuto. «Sarò io stesso – spiega il Prof. Tanoni – a consegnarle alla Direttrice Dott.ssa Santa Lebboroni, accompagnato da una folta schiera di Consiglieri regionali che andranno in visita all’Istituto». Nelle prossime settimane la distribuzione sarà completata anche nelle altre realtà carcerarie marchigiane. «Il soprattutto patrocinio del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del PRAP (Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria) – sottolinea il Garante – rappresenteranno il passe par tout per l’effettiva distribuzione del Vademecum».
Il Vademecum del carcere è scaricabile qui.
Fattore Umano | «Cerco la verità su mio fratello»
È l’appello di Marco Longello, gemello di Massimo, morto il 30 gennaio scorso a Regina Coeli in circostanze tuttora da accertare. Domani manifestazione davanti al carcere, dalle 10 alle 14, presenti l’On. Rita Bernardini e Irene Testa, segretaria dell’Associazione radicale Il Detenuto Ignoto
«Il medico, non sapendo usare il defibrillatore, leggeva il libretto delle istruzioni». È questa la durissima accusa lanciata da Marco Loggello, il fratello di Massimo Loggello, 46 anni, morto a Regina Coeli il 30 gennaio scorso in circostanze ancora da accertare. Le accuse non si fermano qui: «L’abbiamo saputo la mattina dopo – aggiunge Marco – ci hanno informati quando mio fratello era già nella camera mortuaria del Gemelli, dopo l’intera notte abbandonato in cella, con un lenzuolo sopra».
Una vicenda dai tratti oscuri sulla quale l’On. Rita Bernardini ha presentato un’interrogazione parlamentare (vedi sotto) che attende ancora la risposta del ministro Severino. Il deputato radicale non ha mezzi termini: «Si tratta di un episodio incredibile, che conferma una sola cosa: Regina Coeli va chiuso».
Domani intanto, promossa dallo stesso Marco Luggello, si terrà dalle 10 alle 14 una manifestazione davanti al carcere romano, affinché sulla vicenda «non cali il silenzio». «I compagni di cella – ha raccontato ancora Marco – si sono accorti subito che Massimo stava male, si contorceva e chiedeva aiuto. Erano le undici di sera. Hanno gridato per far venire i secondini, ma il primo si è fatto vivo solo 20 minuti dopo. Poi, dopo altri 40 minuti, è arrivato il medico». Che però non riusciva ad attivare il defibrillatore, al punto che dopo vari tentativi andati a vuoto, a provarci sarebbero stati alcuni detenuti.
Alla manifestazione parteciperanno anche Rita Bernardini e Irene Testa, segretaria dell’Associazione radicale Il Detenuto Ignoto. «Ogni decesso – dice Irene Testa – che avviene entro le mura di un istituto di pena italiano, al di là di se e quanto siano naturali le circostanze che lo determinano e se questo avrebbe potuto essere o meno evitato – e probabilmente non è questo il caso – costituisce la ricaduta più tragica della rovina del sistema di custodia penale nazionale, e uno dei sintomi sempre più drammatici del suo essere patologicamente fuori dalla legalità e dallo stato di diritto».
«Ci sembra utile ricordare – prosegue Testa – che anche da detenuti si dovrebbe poter morire magari in ospedale o agli arresti domiciliari per incompatibilità col regime detentivo a causa di prognosi cliniche infauste, invece che, come nella maggior parte dei casi avviene, dentro una cella, o al più, nell’infermeria dell’istituto. Nel nostro trovarci profondamente ritrosi a dover accettare con rassegnazione le lesioni costantemente inferte ai diritti umanitari e civili di ogni cittadino detenuto, risiede il senso della nostro sostegno ai familiari di Massimo Loggello».
Fattore Umano | Poggioreale? È peggio di uno zoo
Dice l’avvocato Polidoro, presidente de Il Carcere Possibile Onlus: «quel che si vuole legittimamente garantire agli animali, non è assicurato a chi è rinchiuso in carcere». E scrive alla Procura di Napoli chiedendo se non vi sia «notizia di reato»
Avvocato, come mai questa lettera?
Tra gli scopi della nostra Associazione vi è anche quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della detenzione in carcere, che per i principi costituzionali e per le norme vigenti, deve tendere alla rieducazione del condannato. È necessario far comprendere che una detenzione nel rispetto della legalità è funzionale anche alla sicurezza sociale e al benessere del Paese. La lettera trova spunto dall’articolo pubblicato da La Repubblica sull’indagine, in corso presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Napoli, che ha ad oggetto le condizioni, appunto illegali, in cui sarebbero tenuti gli animali nello zoo di Napoli. Indagine giusta, che ci auguriamo possa – ove fosse vera la notizia di reato – pervenire alla punizione dei responsabili e al mutamento di uno stato di cose non degno di un Paese civile. Ci siamo chiesti perché l’Ufficio di Procura ha chiesto l’archiviazione per l’esposto da noi presentato nel 2009, che riguarda più o meno gli stessi fatti subiti da uomini.
Che cosa è successo dopo l’archiviazione?
L’esposto è stato depositato nel 2009. Dopo due anni d’indagine, la Procura della Repubblica ne ha richiesto l’archiviazione, che non è stata accolta dal Giudice per le Indagini Preliminari, che ha chiesto la prosecuzione delle indagini. Allo stato il fascicolo pende ancora presso l’Ufficio di Procura.
Cosa sperate di ottenere con l’invio della lettera?
Noi vogliamo solo che venga spiegato perché gli Istituti di Pena devono essere considerati “zona franca”. Laddove è previsto che l’ASL competente visiti almeno ogni 6 mesi gli Istituti di Pena per verificare le condizioni igienico-sanitarie in cui vivono i detenuti e il rispetto della normativa vigente. Se si vuole, giustamente, intervenire perché gli animali sono detenuti in spazi angusti, perché il cibo è scadente, perché vi è pericolo di malattie, perché ciò è tollerato per gli uomini? Eppure dal 2010 è stato dichiarato lo «stato di emergenza» negli Istituti di Pena, il Ministro della Giustizia ha affermato che il carcere oggi è una tortura, alcuni giorni fa il Presidente del Senato, visitando la Casa Circondariale di Poggioreale, ha dichiarato che «ci sono reparti di cui preferisco non parlare… vi è una situazione inaccettabile» e le condizioni in cui si trova Poggioreale sono state innumerevoli volte denunciate dai parlamentari che vi sono stati in visita. Lo stesso Procuratore della Repubblica recentemente è stato, con alcuni componenti del suo Ufficio nella predetta Casa Circondariale e si è potuto rendere conto della situazione. Insomma la notizia di reato credo ci sia, vi è un fascicolo ancora aperto, perché non intervenire?
Di seguito il testo della Lettera aperta al Procuratore della Repubblica a Napoli.
Fattore Umano | Libro Bianco sulle carceri, con pagina su Facebook
Questionari ai detenuti, tramite i legali e le famiglie, contro il sovraffollamento. Obiettivo: una class action contro l’amministrazione penitenziaria. Aperto anche uno spazio sul social network. Intervista all’avv. Ermanno Zancla, insieme all’avv. Gino M. D. Arnone, tra i promotori dell’iniziativa
«Stiamo sollecitando altri avvocati, speriamo di smuovere le acque, poi faremo un primo bilancio». Ermanno Zancla, 44 anni, penalista del Foro di Palermo e coordinatore per la Sicilia dell’Unione Forense per la Tutela dei Diritti Umani, spiega così l’idea di realizzare un Libro Bianco sulle carceri italiane, a partire da quelle del capoluogo siciliano. Un cahier de doléances – spiega il legale –«frutto di quello che ci diranno i detenuti stessi sulla loro condizione, sugli spazi che occupano, sulle difficoltà che incontrano, tramite un questionario da compilare che mettiamo a disposizione dei loro avvocati e delle loro famiglie».
Un’impresa certo ambiziosa, non facile, ma possibile, come premessa per la tappa successiva, quella di una class action dei detenuti contro l’amministrazione penitenziaria per il sovraffollamento delle carceri e, più in generale, contro le situazioni invivibili (dal riscaldamento ai servizi igienici, dalle ore d’aria al diritto alla salute) e per i tempi di totale e obbligatoria inattività trascorsi in cella, in contrasto col principio del «profilo rieducativo». della pena.
«Nel settembre 2011 – prosegue Zancla – c’è stata una sentenza che si può definire rivoluzionaria, con la quale un giudice del Tribunale di sorveglianza di Lecce ha condannato l’amministrazione penitenziaria a risarcire con una cifra pari a 220 euro un detenuto tunisino, recluso nel carcere di Borgo San Nicola». «Certo, la cifra è risibile, poco più che simbolica – insiste l’avvocato –, ma quel che conta è che il giudice ha accolto il ricorso dove si parla di condizioni disumane e degradanti. È una sentenza che apre una dimensione nuova sotto il profilo giurisprudenziale italiano».
Il caso di Lecce, in effetti, potrebbe fare scuola e diventare il grimaldello per altre azioni individuali o di gruppo, di fronte agli innumerevoli casi di illegalità che si consumano nelle carceri italiane, in netto contrasto con gli standard sanciti dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti che fissa paletti ben precisi sullo spazio minimo vitale di ogni detenuto: 7 metri quadri in cella singola, 4 metri quadri per le celle multiple. Mentre, al di sotto dei 3 metri, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo parla chiaramente di una «condizione di tortura».
L’idea di mettere insieme le forze per arrivare ad una class action dei detenuti sta trovando un alleato in Facebook, dove è stata aperta la Pagina Libro Bianco Carceri – L.B.C. «per offrire – come si legge a firma degli avvocati Gino Arnone, Ermanno Zancla, Stefano Bertone e Antonio Fiumara – una finestra costantemente aggiornata con giurisprudenza, dati, statistiche, normativa e opinioni su un problema troppo spesso sottaciuto».
«Lancio un appello ai colleghi – conclude Zancla – a riconsegnare rapidamente le schede dei loro assistiti. Entro un mese contiamo di rendere pubblici i primi risultati».
Per ulteriori contatti è possibile scrivere a: arnone@ambrosioecommodo.it e studiolegalezancla@libero.it
Fattore Umano | Chiusura Opg
On. Marino: «Le esigenze di tutela della collettività non possono mai giustificare misure tali da recare danno alla salute del malato, quindi la permanenza negli ospedali psichiatrici giudiziari che aggrava la salute psichica dell’infermo non può proseguire»
La chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari prevista dai nuovo decreto sulle carceri a marzo 2013 è stata giudicata «avventata e irresponsabile da alcuni» e da altri «il frutto acerbo di un mancato confronto con gli esperti del mondo psichiatrico e giudiziario». Commenta così l’On. Ignazio Marino sulle pagine de l’Espresso il recente voto del Senato.
Se la Camera confermerà la proposta di riforma approvata da Palazzo Madama cosa accadrà da qui al 31 marzo 2013? Per il Presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale «gli ospedali psichiatrici giudiziari diverranno ciò che non sono mai stati: veri luoghi di cura. Nuove e diverse strutture al posto delle vecchie, degradate e fatiscenti, che saranno definitivamente chiuse». Negli attuali Opg, secondo i dati della commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio sanitario ripresi da l’Espresso, ci sono circa 1.400 persone di cui più di 900 riconosciute ancora pericolose per sé e per gli altri (saranno loro ad essere trasferite nelle nuove strutture) e 500 circa ritenute «non più socialmente pericolose», pazienti che dovevano per legge già uscire dal circuito degli Opg ma che per mancanza di fondi e varie proroghe hanno visto trasformare il loro diritto in un «ergastolo bianco»). Per loro è previsto il riaffido alle Asl: saranno dimesse e assistite sul territorio dai dipartimenti di salute mentale.
«Al posto degli Opg – spiega il Senatore – sorgeranno piccole strutture da 30 o 40 posti letto, dotate di tutta l’attrezzatura necessaria per l’assistenza ai pazienti, con infermieri, medici, psichiatri ed esperti di riabilitazione che possano finalmente fare il loro mestiere: curare la mente e il corpo. Non è stata sottovalutata, tuttavia, la necessità dì garantire la sicurezza, per cui all’esterno dei centri di cura la sorveglianza sarà assicurata dalla polizia penitenziaria». Tutto ciò sarà realizzabile? «Certamente – risponde il Prof. Giuseppe Armocida, noto specialista psichiatrico-forense –. Come da tempo gli specialisti del settore stanno suggerendo, attraverso istituti che abbiano caratteristiche di efficacia in chiave terapeutica e riabilitativa garantendo comunque i migliori criteri operativi con soggetti per i quali è stata riconosciuta una pericolosità sociale». «Bisogna operare per la difesa sociale – dice – senza applicare le crudeltà di reclusione in istituti nei quali veramente il momento terapeutico e riabilitativo non si scorge, a fronte della dominante condizione carceraria».
Fattore Umano | Tanti detenuti, poco lavoro
In un Dossier di Ristretti le statistiche e proposte di legge in materia di «lavoro penitenziario», dove emerge che le risorse sono scarse, e il diritto-dovere di lavorare per chi è condannato non viene rispettato
«Il lavoro è obbligatorio per i condannati e per i sottoposti alle misure di sicurezza (…)» (art. 20, c. 3, O.P., Legge n° 354 del 1975). L’obbligatorietà del lavoro dei detenuti, elemento cardine del trattamento penitenziario e «strumento privilegiato» diretto a rieducare il detenuto e a reinserirlo nella società, rischia di venire meno.
La causa? La carenza di risorse economiche. Negli ultimi 5 anni, infatti, i fondi messi a disposizione per retribuire i detenuti-lavoratori sono diminuiti del 30,5%. I dati forniti dal DAP parlano chiaro: dai 71.400.000 euro del 2006 ai 49.664.000 euro del 2011. Una diminuzione di risorse che ha portato inevitabilmente alla contrazione della popolazione carceraria lavorante, con la conseguente rinuncia da parte dei detenuti al loro diritto-dovere di lavorare. Lo scorso anno gli “occupati” alle dipendenze di cooperative o imprese esterne rappresentavano solo il 20,4% della popolazione detenuta. E ciò, nonostante le agevolazioni contributive e fiscali per chi assume detenuti introdotte nel 2000 dalla Legge 193, la cosiddetta «Smuraglia» e malgrado la concessione di numerose commesse per la realizzazione di elementi di arredo delle nuove strutture previste dal «Piano Carceri». Insomma, gli sforzi e gli incentivi non sono bastati.
Ma andiamo oltre. Il nostro Ordinamento Penitenziario recita: «Il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato», in accordo con quanto detta l’art. 27 della Costituzione sulla finalità rieducativa della pena. Ed è così. In effetti il lavoro alle dipendenze del DAP viene retribuito avendo come riferimento economico i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro di vari settori, in misura non inferiore ai 2/3 del trattamento previsto nei contratti stessi, così come indicato nell’art. 22 dell’Ordinamento penitenziario. Tuttavia – si legge nel Dossier di Ristretti – «l’adeguamento ai CCNL non è stato più effettuato dal 1994». Sempre per carenza di risorse economiche. «Nel 2006 – si legge – un’apposita Commissione stimava la necessità di una integrazione sui corrispondenti capitoli di bilancio per il solo anno preso in esame di circa 27.345.000 euro. Il mancato adeguamento ai CCNL vigenti ha dato vita ad un contenzioso, in cui l’Amministrazione Penitenziaria è costantemente soccombente, con ulteriori costi a carico della finanza pubblica». Costi che potrebbero essere evitati a favore di un aumento del budget disponibile per aumentare le retribuzioni dei detenuti-lavoratori che da 18 anni sono ferme. E bassissime: un detenuto che presta servizio “domestico” in carcere percepisce mediamente 2.843 euro lordi l’anno (cifra che si dimezza al netto degli oneri previdenziali e del rimborso delle spese di mantenimento in carcere concernenti gli alimenti e il corredo).
Il budget insufficiente assegnato per la remunerazione dei detenuti lavoranti all’interno degli istituti, unito all’incessante sovraffollamento carcerario, ha avuto una ricaduta diretta sulla qualità di vita intramuraria: le attività di manutenzione ordinaria dei fabbricati, i servizi di pulizia e di cucina sono stati tagliati non assicurando più il mantenimento delle condizioni di igiene e di pulizia delle aree detentive. Attività che rappresentano anche la principale fonte di sostentamento per molti detenuti.
Un segnale positivo però c’è stato: l’incremento del numero dei condannati assunti da imprese e cooperative all’interno delle carceri, ammessi al lavoro esterno e semiliberi: dai 2.058 del giugno 2010 ai 2.257 del giugno 2011. Questo dato, però – si legge nella relazione del DAP – tenderà inevitabilmente a contrarsi a causa della riduzione delle risorse economiche.
Fattore Umano | «Noi miserabili dimenticati»
Pubblicata sulla Gazzetta di Modena la lettera di 55 dei 70 internati della Casa di lavoro di Saliceta San Giuliano di Modena. «Ci rifiutiamo – scrivono – di credere che essere una sparuta minoranza in questo oceano di problematiche carcerarie, ci condanni e confini nel limbo del dimenticatoio»
«Scriviamo dalla Casa lavoro di Saliceta San Giuliano di Modena, dove al momento risultiamo essere una settantina di internati. Forse sarebbe più appropriato dire che questa lettera vi perviene dal girone dei miserabili dimenticati, perché è così ormai che abbiamo denominato questo posto. Noi tutti assistiamo con sgomento e preoccupazione agli ultimi risvolti politici in tema di materie penitenziarie. Quello che ci lascia sgomenti è che non abbiamo assistito a una sola discussione dove fosse posta al centro della questione anche la Casa di Lavoro e coloro che ne sono ospitati, gli internati ci rifiutiamo di credere che essere una sparuta minoranza in quest’oceano di problematiche carcerarie ci condanni e confini nel limbo del dimenticatoio» .
Eppure, scrivono «occorre sapere che per noi internati è già di difficile comprensione accettare il principio che regola la materia penale della casa lavoro: essere privati della libertà solo in funzione di una prognostica ipotesi di reiterazione del reato. Perché, e forse in pochi lo sanno, è questa la sola ragione che ci tiene rinchiusi qua dentro… L’internato altri non è se non un ex detenuto. Destinato alla casa lavoro, quindi ad un’ulteriore privazione della libertà, dopo aver espiato per intero la pena detentiva per cui era stato destinato per una violazione penale».
«È un po’ come dire: vado dal salumiere, pago per ciò che acquisto e quando mi ritrovo nel parcheggio in procinto di tornare a casa appare qualcuno che mi impone di pagare di nuovo per le stesse cose già acquistate», spiegano. «E la beffa è che dentro la casa lavoro, che avrebbe come fine il recupero, non c’è né lavoro né recupero: “Dove sono queste strutture, questi corsi formativi, questo lavoro? Dove li avete dimenticati? Pretendete forse da noi di cercarli nell’oziosità delle nostre giornate?. L’auspicio è che queste rimostranze riescano a scuotere le coscienze sociali affinché qualcuno si faccia portavoce delle nostre istanze, in modo che questa materia sia almeno posta all’attenzione del dibattito politico, con il fine preciso di rivederne il principio e l’applicazione i diritti dei più deboli non sono diritti deboli».
Fattore Umano | Il riscatto passa dal lavoro
Sul quotidiano Avvenire di ieri un intervento a firma congiunta del vicepresidente della Camera Maurizio Lupi e del vicesegretario del Pd Enrico Letta, su come dare una «seconda chance» ai detenuti
Parlare di carceri significa spesso «parlare di un lungo elenco di numeri che, in maniera impietosa, mettono in evidenza tutti i limiti del nostro sistema». Limiti affrontati nel corso degli anni con «interventi tampone» risultati «deboli» o «addirittura totalmente inefficaci». Così scrivono sul quotidiano Avvenire gli On. Lupi e Letta, rispettivamente vicepresidente della Camera e vicesegretario del Pd. Si tratta, invece, di mettere al centro dell’azione politica la persona e non applicare uno «schema». E se l’opinione pubblica e la classe politica sono ormai abituati a ragionare su schemi numerici, allora sfruttiamo la non confutabilità delle cifre “snocciolate” per descrivere il dramma carcerario italiano. Un numero su tutti, quello che riguarda la recidiva degli ex detenuti. Una «ricaduta – si legge –, l’esempio più concreto della debolezza umana»: 68%. Circa il 35% tra i beneficiari del provvedimento di clemenza dell’indulto del 2006.
Come abbassare il “peso” di questo dato? «Sognare sistemi talmente perfetti che nessuno avrebbe più bisogno di essere buono può servire a ridurre quella percentuale? – si chiedono Lupi e Letta – citando Thomas Stearns Eliot. La risposta – dicono – «sta nell’articolo 27 della nostra Costituzione». In sintesi: le pene devono rieducare il condannato nel pieno rispetto del senso di umanità. La rieducazione va posta dunque nell’ambito della pena intesa umanamente e, soprattutto, deve essere applicata. Un dovere quello di «vigilare e redimere» che sintetizza perfettamente «l’idea che ogni uomo, anche se ha commesso l’errore peggiore, può cambiare». In che modo? Solo se il reo incontra durante la sua pena «qualcuno in grado di rilanciare la sua umanità».
Su questo principio si fonda il disegno di legge bipartisan promosso anche da Lupi e Letta e firmato da Treu in Senato e Farina alla Camera. Una proposta di modifica della “Legge Smuraglia” già approvata dalla Commissione Lavoro di Montecitorio e che punta a promuovere il lavoro intramurario e quello immediatamente successivo alla fine pena. Il prossimo step sarà il passaggio del testo in Aula entro febbraio. «Al di là dei tecnicismi – si legge – l’intento è semplice: riprodurre, all’interno delle carceri, un modello di lavoro imprenditoriale più qualificato».
Una seconda chance per tutti, dunque, attraverso il lavoro. «Con tutto la fatica, la soddisfazione, la passione e i sacrifici» che il “fare” porta con sè.
Fattore Umano | Basta col carcere che «tortura»
Radicali in piazza ieri a Roma in occasione della discussione in Senato del “Decreto Legge Severino” sul sovraffollamento carcerario il cui esame è in programma questa mattina. L’On. Bernardini: «Necessaria una riforma strutturale per uscire dalle illegalità»
Presidio a Roma, ieri, in piazza del Pantheon, in occasione della discussione in Senato del “Decreto Legge Severino” sul sovraffollamento carcerario e non solo. A promuovere l’iniziativa l’associazione Il Detenuto Ignoto, insieme al Comitato Radicale per la giustizia Piero Calamandrei. Una manifestazione per sottolineare, ancora una volta, l’inefficienza della giustizia italiana e chiedere provvedimenti più incisivi rispetto a quelli fin qui adottati. Senza perdere tempo. Come sottolinea l’On. Rita Bernardini: «l’irragionevole durata dei processi e le condizioni letteralmente criminali in cui sono tenuti i nostri detenuti hanno portato la giustizia nella più totale illegalità». «Per questo – aggiunge – bisognerebbe rimuovere immediatamente le cause, cosa che in Italia non viene fatto da anni. Chiediamo una riforma strutturale che rimetta in moto la giustizia, che costa tantissimo ai cittadini italiani».
«Il cosiddetto “pacchetto svuotacarceri” – sottolinea Irene Testa, segretaria dell’Associazione Detenuto Ignoto – farà uscire 3mila persone. Una cifra minima, che non rappresenta nulla. Neppure un pannicello caldo. Anche le misure dell’ex ministro Alfano prevedevano l’uscita di 8mila detenuti. Ma tutto si è ridotto poi a meno della metà».
Alla manifestazione hanno partecipato anche la senatrice Donatella Poretti, Marco Pannella e l’avvocato Giuseppe Rossodivita, Segretario del Comitato Radicale per la giustizia Piero Calamandrei, che ha invitato a decidere «se vogliamo la tortura o se in questo Paese vogliamo una situazione delle carceri che porti a considerare sia gli imputati in custodia cautelare sia i condannati come persone che debbono semplicemente – perché così prevede la nostra costituzione – essere privati della libertà personale». «Invece – conclude – non vi è nemmeno il diritto alla salute, della dignità di essere uomini. E questa è tortura».
Fattore Umano | Detenute, madri e illustratrici
In mostra i lavori eseguiti per filastrocche e fiabe create dalle detenute dell’ICAM, l’lstituto a Custodia Attenuata per Madri detenute di Milano
Fino al primo febbraio i lavori eseguiti dalle detenute dell’ICAM saranno esposti nei locali della Biblioteca Chiesa Rossa, in via San Domenico Savio a Milano. Le opere delle detenute sono il risultato del progetto Illustrafiabe, un laboratorio realizzato all’interno delle attività del CTP Cavalieri di Milano durante lo scorso anno scolastico.
Le mamme dell’Icam – seguite da Alice Tassan e Ilaria Curti – hanno raccontato su tavola le favole scritte negli anni precedenti durante i corsi coordinati da Paola Riso e Vincenzo Samà. Un modo per far vivere anche ai loro bambini una realtà diversa di quella che vivono con la mamma all’interno dell’istituto.
L’evento è organizzato dal DAP in collaborazione con il Centro territoriale permanente Cavalieri. L’ingresso alla mostra è libero e rispetta gli orari di apertura della Biblioteca (dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 19.15, il mercoledì dalle 15 alle 19.15 e il sabato dalle 9 alle 18.15).