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Fattore Umano | Verso la fine dell’«ergastolo bianco»
L’emendamento approvato giovedì scorso in Commissione Giustizia in Senato fissa a marzo 2013 il termine per la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari
Con il sì del Senato si conclude «una nuova tappa del faticoso percorso per abolire definitivamente gli OPG, ma il traguardo è ancora lontano». Ad affermarlo in una nota Stefano Cecconi (responsabile Politiche della salute della Cgil Nazionale), Giovanna Del Giudice, Fabrizio Rossetti del comitato Stop Opg. Un passo fondamentale che accelera l’attuazione di norme di superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari «che esistono già ma non sono ancora state applicate».
Per risolvere la drammatica situazione di 1.500 persone fino ad oggi dimenticate e condannate ad un «ergastolo bianco – concludono Cecconi, Del Giudice e Rossetti – serve investire nei servizi socio sanitari nel territorio, a partire dai Dipartimenti di Salute Mentale. e non dimenticare l’impegno già assunto dal Senato per avviare anche un percorso di modifiche legislative, per superare l’istituto giuridico dell’OPG».
Il comitato Stop Opg continuerà a non abbassare il livello di attenzione dell’opinione pubblica e a ricordare a Governo, Regioni, Asl e comuni la loro responsabilità per «organizzare la presa in carico delle persone internate, per curarle e assisterle nel territorio di residenza, come prevedono le norme e indicano le ripetute sentenze della Corte Costituzionale». Il 26 gennaio un nuovo importante appuntamento del Comitato: dalle ore 10 alle 16, presso In Centro Congressi Frentani di Roma si svolgerà infatti la conferenza stampa di presentazione della campagna Un volto un nome con i referenti regionali di Stop Opg. Un incontro in cui si discuterà anche dell’«imputabilità» e degli aspetti normativi.
Fattore Umano | «Meno carcere, più misure alternative»
E per chi resta in galera: più colloqui e più telefonate ai famigliari. Questo, in sintesi, il carnet delle proposte avanzate al ministro Paola Severino dal Cartello Sovraffollamento: che fare?. Nel frattempo la Commissione Giustizia del Senato vota a favore del Dl “svuota-carceri” e dice sì a un emendamento che prevede la chiusura dei “manicomi criminali”
Aumentare le ore di colloquio e le telefonate con i famigliari. Una proposta semplice, a costo zero, senza nessuna complicazione sul funzionamento dell’Amministrazione penitenziaria. Ma con un effetto assai probabile: ridurre il numero dei suicidi o dei tentati suicidii, i casi di autolesionismo, la richiesta continua di uso di psicofarmaci.
C’è anche questo nel carnet di “soluzioni per l’emergenza”, avanzate al Ministro della Giustizia Paola Severino da parte della delegazione di Sovraffollamento: che fare?, un Cartello che raccoglie le sigle delle associazioni più impegnate sul fronte carceri, nel corso dell’incontro avvenuto ieri, 12 gennaio.
Vi sono poi le proposte di maggiore impatto strutturale: «la necessità di modificare la legge Fini-Giovanardi sulle droghe, la ex Cirielli sulla recidiva e la Bossi Fini sull’immigrazione – come spiega Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti – che più hanno contribuito a riempire le carceri, nonché di ridurre l’uso della custodia cautelare e di potenziare le misure alternative».
Il ministro, dal canto suo, ha confermato la propria disponibilità a introdurre alcune misure suggerite nel decreto legge sulle carceri in discussione al Senato, in particolare relative alla possibile riduzione dell’uso della custodia cautelare e nella direzione di potenziare le misure alternative.
Da questo punto di vista vanno segnalate due importanti novità votate questa mattina in Commissione Giustizia del Senato che ha approvato il Dl “svuota-carceri”. Tra le norme previste, spicca la misura degli arresti domiciliari, anche per i recidivi, per risolvere il sovraffollamento dei penitenziari. Il testo per la votazione a Palazzo Madama sarà in aula il prossimo 18 gennaio.
Sempre in sede di Commissione Giustizia del Senato è stato approvato all’unanimità un emendamento per la chiusura definitiva degli OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) entro il 31 marzo 2013. «Possiamo così sperare – ha dichiarato Ignazio Marino, senatore Pd e presidente della Commissione d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale – di superare definitivamente, grazie al favore dell’intera Commissione Giustizia, l’orrore dei manicomi criminali che tanto ha indignato anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano». Nella speranza che non vi sia alcun passo indietro nel voto plenario di settimana prossima al Senato.
Fattore Umano | L’inferno di Petrusa
Un’interrogazione dell’On. Bernardini dopo la visita ispettiva nella casa circondariale di Agrigento: dove non funziona il riscaldamento, è complicato lavare se stessi e le celle, mancano agenti, psicologi e assistenti. E c’è chi va in giro con due scarpe diverse, perché non ha i soldi per comprarle
Manca pure il riscaldamento. Laconico, il comandante di Polizia penitenziaria osserva: «In sette anni non è mai entrato in funzione». Cose che capitano nel carcere di Agrigento, sovraffollato come tutti gli altri in Italia: 421 detenuti ristretti, a fronte di una capienza regolamentare di 250 posti. Di questi, poco più della metà scontano una condanna definitiva, gli altri sono in attesa di giudizio.
Il 30 dicembre scorso c’è stata la visita ispettiva dell’onorevole radicale Rita Bernardini, da cui è nata un’interrogazione rivolta al Ministero della Giustizia.
Nella sezione Asia, in celle da 8 mq, previste in origine per un solo detenuto, ne convivono 2 o 3, a seconda dei periodi, messi in pila su letti a castello. Non ci sono le docce e le celle appaiono in condizioni pessime: «I tubi sono marci e ci sono problemi di manutenzione, abbiamo problemi di budget», dice chi vi lavora in condizioni altrettanto problematiche.
Le difficoltà riguardano poi anche altri aspetti: l’assistenza sanitaria, il monte ore degli psicologi (si stima un disagio psichiatrico nell’ordine del 15 per cento dei ristretti), ci sono detenuti che non hanno i soldi nemmeno per le ciabatte, e il detersivo per pulire viene dato una volta al mese «e finisce sempre in 14 giorni». Insomma non si riesce neanche a lavarsi e a pulire gli ambienti, come si dovrebbe.
Forse è per questo che un detenuto romeno, con condanna definitiva, arriva ad esclamare una cosa del genere: «Sono stato in carcere in Germania, Russia e Romania, ma qui è peggio».
Fattore Umano | L’emergenza è urgenza
A colloquio il Presidente de Il carcere possibile Onlus, l’avvocato Riccardo Polidoro. «Non è possibile – dice – che per agire sulle carceri si debba giungere a un morto ogni due giorni. Le linee illustrate dal ministro Severino sono in larga misura condivisibili, ma occorre che dagli annunci si passi ai fatti»
L’Associazione Il carcere possibile nasce nell’aprile del 2003 come progetto promosso dalla Camera Penale di Napoli, su iniziativa dell’avvocato Riccardo Polidoro, all’epoca componente della Giunta dell’Associazione.
Siamo in stato di “emergenza carceraria”. A suo avviso, ci si sta muovendo nella giusta direzione per affrontare il problema?
Il nuovo Ministro della Giustizia ha messo in moto la macchina legislativa, finalmente, in una direzione giusta, contrariamente a quanto avvenuto in passato. La riforma annunciata agli inizi del 2010 dal Ministro Alfano, anche se fosse stata attuata, non avrebbe risolto alla radice le problematiche relative alla detenzione. Allora, si faceva riferimento a 4 pilastri: 1) Edilizia Penitenziaria; 2) Arresti Domiciliari per coloro che dovevano scontare un residuo di pena di un anno; 3) Messa alla prova; 4) Assunzione di 2.000 agenti di polizia Penitenziaria. Tali proposte, delle quali solo la seconda ha trovato parziale applicazione e con risultati di gran lunga inferiori alle aspettative, si muovevano in un’ottica “carcerogena”, nel senso che si voleva risolvere il sovraffollamento costruendo nuovi spazi detentivi, con il risultato aberrante che ci sarebbero volute sempre più carceri, visto l’aumento costante della popolazione detenuta.
Cosa è cambiato?
Il Ministro Severino ha annunciato di voler coltivare una strada del tutto diversa, con una riforma che veda con favore: 1) le misure alternative al carcere; 2) l’applicazione di pene, già in sede di condanna, diverse dalla detenzione; 3) la depenalizzazione di alcuni reati con ricorso a sanzioni amministrative, per impegnare i Giudici Penali in processi di effettiva rilevanza sociale e accelerare la stessa celebrazione dei processi con riduzione della custodia cautelare; 4) l’uso di dispositivi per il controllo a distanza dei detenuti agli arresti domiciliari, cosa che favorirebbe la concessione di tale misura; 5) la realizzazione di una Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti.
Con quali conseguenze?
Tali annunci – perché, allo stato, di annunci si tratta – se effettivamente realizzati, unitamente alla rivisitazione di alcune norme, come quelle sull’immigrazione e gli stupefacenti che prevedono pene detentive inutili e eccessive, porterebbero ad un’immediata risoluzione del sovraffollamento, nel rispetto del principio sacrosanto della “certezza della pena”.
Manca qualcosa, dunque?
Manca, da sempre, una concreta volontà di risolvere il problema, perché l’argomento non è popolare, non porta consenso. Non è possibile che per agire, e speriamo lo si faccia, si debba giungere ad un morto nelle carceri ogni due giorni, come è avvenuto in questi due ultimi anni.
Quali, a suo avviso, le prospettive per il 2012 rispetto al piano del Governo per affrontare l’emergenza nelle carceri italiane?
Se parliamo di “prospettive”, quello appena iniziato potrebbe essere l’anno della svolta. Ma mi si consenta di essere diffidente, avendo assistito a troppe dichiarazioni d’intenti, poi non realizzati, che hanno illuso la popolazione detenuta, già colpita da ingiuste sofferenze. Penso al primo provvedimento del Governo in materia, ad esempio, il Decreto Legge, in vigore dal 23 dicembre scorso. Ritengo, infatti, che non tenga conto delle reali condizioni del Paese: viene stabilito che gli arrestati in flagranza non transitino più negli Istituti di pena, ma vengano “custoditi”, in attesa del giudizio direttissimo, nelle celle di sicurezza del Corpo di Polizia che ha eseguito l’arresto. Tale norma, se da un lato consentirà forse meno ingressi in carcere, aggraverà i compiti della Polizia Giudiziaria, che non è affatto in grado di gestire una tale situazione, per carenza di strutture, di mezzi e di uomini. Inoltre il detenuto sarà portato in una cella non attrezzata e per di più sorvegliata da coloro che lo hanno arrestato. Per il detenuto sarà senz’altro peggio. Inoltre, proprio per tali carenze, si arriverà ad un aumento delle convalide e alla diminuzione dei giudizi direttissimi, nel senso che, pur di non custodire gli arrestati in luoghi non idonei, questi verranno tradotti direttamente in carcere a disposizione del GIP. A conferma di quanto sto dicendo, basta pensare alla polemica tra il Vicecapo della Polizia di Stato Francesco Cirillo e il Ministro Severino. Il primo ha dichiarato che le celle di sicurezza sono troppo poche e non rispettano gli standard minimi di dignità e sicurezza. Secondo Cirillo insomma i detenuti stanno molto meglio in carcere e vi sono gravi problemi di organico che non consentono di sorvegliare gli arrestati.
Fattore Umano | Capodanno a Rebibbia
Roberto Giachetti, deputato PD, racconta la notte del 31 dicembre nel carcere di Rebibbia con Marco Pannella, tra 1735 detenuti (il doppio dei posti disponibili). Perché «nessuno si senta escluso»
È l’una e cinquanta circa, Fabrizio coriaceo agente del G8 di Rebibbia si toglie il gusto di una domanda che, si vede, ha sulla punta della lingua da quando Pannella è entrato per visitare il suo reparto: «Scusi onorevole ma a lei ad 82 anni con tutto quello che ha fatto chi glielo fa fare di stare qui a quest’ora il giorno di Capodanno?». Eggià è la domanda che si legge sul voto di tutti coloro che assistono ai suoi sopralluoghi come “consulente” (il paradosso è che lui che conosce tutte le carceri d’Italia, che ha passato una parte della sua vita lì dentro, come ospite e come ‘ispettore, ma sempre per scelta, non essendo più “onorevole” può entrare solo come assistente di un parlamentare), nei penitenziari italiani.
La risposta sarebbe semplicissima se fosse possibile mostrare cosa accade nella “comunità” quando Marco vi entra, se fosse possibile far ascoltare il concerto poliglotta di parole di Amicizia che si leva non solo quando compare ma anche semplicemente quando dall’ultima cella del lungo corridoio viene percepito il timbro indistinguibile della sua voce e che lui alza ad arte per far si che «nessuno si senta escluso». Occorrerebbe poter vedere il linguaggio del suo corpo quando incontra i figli della Comunità, la sua Comunità.
Fattore Umano | Buon anno a Rita (e a tutti i 68mila detenuti accatastati)
Pubblichiamo un articolo scritto dall’On. Bernardini per il settimanale Gli altri, dedicato alle buone ragioni per un’amnistia. Un atto di clemenza, ma non solo. Soprattutto un atto di buonsenso giudiziario, in un Paese dove la giustizia non funziona. Dove lo stato non “detiene” ma “sequestra”, troppo spesso in modo illegale
È la sicurezza, bellezza! È in nome della sicurezza che in Italia c’è una parola bandita, nonostante sia espressamente prevista dall’articolo 79 della Costituzione che recita «l’amnistia e l’indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera».
Di amnistia non si può parlare in TV e Marco Pannella, che la propone dal 1977, viene fatto passare per un pazzo-maniaco quando (raramente) un TG (Rai o Mediaset, non fa differenza) gli concede quei 20 secondi in cui letteralmente strozzato urla che c’è uno Stato criminale che non “detiene” ma “sequestra” nelle carceri 70.000 persone e che si comporta come un delinquente professionale, lasciando morire al ritmo di 200.000 all’anno procedimenti che si accumulano a milioni: 5.200.000 quelli penali e 5.400.000 quelli civili. In 34 anni (nel 1977 i procedimenti penali pendenti erano “solo” due milioni) sul tema dell’Amnistia mai un confronto in TV, un faccia a faccia, un dibattito.
Rarissimamente salta fuori un “armadietto della vergogna“, come ha scritto Il Fatto del 25 novembre scorso, per scoprire che a Bologna ci sono 8.500 fascicoli dimenticati e che la Procura ha chiesto l’archiviazione per prescrizione di 3.300 fascicoli per reati tra i quali furti, truffe, ricettazioni e contravvenzioni in tema ambientale. È questa la “sicurezza” che offre ai cittadini lo Stato italiano? Certo, rende di più elettoralmente tacere dell’amnistia mascherata delle prescrizioni, piuttosto che assumersi la responsabilità di approvare un’amnistia che riduca i procedimenti penali a un numero gestibile che, peraltro, consentirebbe di recuperare risorse umane e finanziarie di cui tanto la giustizia penale, quanto quella civile hanno un bisogno vitale.
Mai è stata fatta un’inchiesta per sapere, Procura per Procura, quali reati riguardino ogni anno i 183.000 processi che muoiono nel silenzio più totale, ma una casta finora invincibile è pronta a immolarsi per salvaguardare un principio impraticabile che esiste solo in Italia, quello dell’obbligatorietà dell’azione penale: tutti i reati devono essere forzatamente perseguiti per una questione – dicono – di uguaglianza dei cittadini. Poi, certo, le scrivanie traboccano di fascicoli e gli “armadietti” custodiscono quelli destinati a morire.
Diventa così un gioco da bambini scegliere senza nessuna regola i processi da celebrare e quelli da ignorare e chi fa queste scelte di politica giudiziaria è persona che, per quanto professionalmente qualificata, è un dipendente dello Stato che ha vinto un concorso, che fa una carriera pressoché automatica e che, soprattutto, non è stato eletto da nessuno e non ha l’onere di rendicontare sulle sue scelte.
Fatto sta che è proprio la sicurezza percepita dai cittadini (non quella reale che dimostra da anni che i reati sono in calo e che la recidiva è molto più alta fra chi sconta tutta la pena in carcere rispetto a chi accede alle misure alternative) a spingere le forze politiche a ignorare qualsiasi principio di legalità. A niente servono le continue condanne che l’Italia subisce in sede europea. È almeno dal 1980 che il Consiglio d’Europa denuncia il fatto che «i ritardi della giustizia in Italia sono causa di numerose violazioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo» e che tali ritardi «costituiscono un pericolo effettivo per il rispetto dello stato di diritto in Italia». Del tutto ignorato è stato il rapporto sulla giustizia in Italia, del commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Alvaro Gil-Robles, che sei anni fa stimava che «circa il 30 per cento della popolazione italiana era in attesa di una decisione giudiziaria». Per non parlare delle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’uomo che costantemente puniscono il nostro Paese per trattamenti disumani e degradanti nelle carceri.
Ciò che preoccupa è che a dimostrare disprezzo per lo stato di diritto non sono solo i partiti giustizialisti, che per tali vogliono presentarsi agli elettori. Proprio recentemente abbiamo ri-ascoltato dichiarazioni in ambito PD che liquidavano la proposta di amnistia con queste parole: «No a indulti o amnistie. È come il condono: non si può e non si deve svuotare il principio di legalità» (Donatella Ferranti) o che, nella discussione parlamentare sull’acquisizione delle intercettazioni telefoniche dell’On. Romano, si auguravano che il deputato in questione «possa dimostrare la sua innocenza» (Marilena Samperi).
Dove sia la legalità nelle attuali condizioni di detenzione o nei milioni di procedimenti arretrati, l’ex PM On. Ferranti non lo spiega; mentre l’On. Samperi (Vice procuratore onorario) sembra disconoscere l’elementare principio per il quale non è l’imputato a dover dimostrare di essere innocente, ma la pubblica accusa ad avere l’onere della prova di colpevolezza. Il nodo che va sciolto all’interno del PD è la legittimità di questa linea politica che si impone su tutte le altre voci che pur ci sono, a partire dal responsabile giustizia, Andrea Orlando; voci che però non riescono ad affermarsi. Lo stesso Massimo D’Alema oggi tace. Eppure nel 2005, quando partecipò alla Marcia di Natale organizzata dai radicali (quando i detenuti erano diecimila in meno di oggi!) affermò che «chi dice di no all’amnistia, se ne assumerà la responsabilità» e che «si parla da troppo tempo di un gesto di clemenza; tanti dibattiti ma non si è fatto niente mentre bisogna far presto».
Sì, «fare presto», perché «occorre esigere che il nostro Stato interrompa la flagranza di reato contro i Diritti Umani e contro la Costituzione italiana», così urla – ancora in un grido inascoltato – Marco Pannella.
Fattore Umano | Più pena, più reati
«Chi beneficia dell’indulto è meno recidivo di chi esce dal carcere a fine pena». Luigi Manconi e Giovanni Torrente ne spiegano i motivi. Sul Messaggero di oggi, una ricerca “smonta” l’opinione diffusa in base alla quale i provvedimenti di clemenza determinano un innalzamento della criminalità
Una causa di clemenza che “condona” la pena. Ecco cos’è l’indulto. «Una misura prevista dalla Costituzione che – spiegano Manconi e Torrente – andrebbe discussa, accolta o contestata con argomenti razionali». Ma spesso questo non accade perché «il più recente atto di clemenza non produrrebbe alcun risultato positivo. O meglio: produrrebbe solo sfaceli».
Una convinzione basata su presupposti sbagliati. Come quella che “tutti gli indultati ritornano presto in galera”. Manconi e Torrente spiegano, dati alla mano, che accade esattamente il contrario: «la recidiva tra i beneficiari dell’indulto è meno della metà della recidiva ordinaria, registrata tra coloro che scontano interamente la pena in carcere». Ad avvalorare la loro tesi i dati messi a disposizione dall’Ufficio Statistiche del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che mostrano come «la recidiva dei beneficiari del provvedimento di indulto (legge n. 241 del 31 luglio 2006) relativa a reati commessi prima del 2 maggio 2006, dopo 5 anni dall’approvazione, si attesti al 33,92%».
Ma non solo: «il 68,45% dei soggetti scarcerati nel 1998, nei successivi 7 anni, ha fatto reingresso in carcere una o più volte. Il dato della recidiva dei beneficiari dell’indulto si colloca quindi su un livello molto inferiore rispetto a quello rilevato in un monitoraggio “ordinario”». Appare quindi evidente che questo atto di clemenza può diventare una “messa alla prova” efficace. E necessaria.
Fattore Umano | I Sapori Reclusi
Davide Dutto, fotografo professionista, entra in un carcere piemontese per insegnare le basi del suo mestiere a un gruppo di detenuti. Da quell’esperienza sono nati un libro e un’associazione fossanese che, partendo dal comune bisogno dell’uomo di nutrirsi, riunisce uomini e donne che vivono nascosti agli occhi dei più con il resto della società. Perché «il vero problema, in carcere, non è avere una ricetta, bensì avere gli ingredienti e gli attrezzi per poterla realizzare»
La prima cosa che Davide Dutto incontrò varcando per la prima volta i cancelli di un carcere fu una «miniera a cielo aperto» dove raccogliere testimonianze di vita “reclusa” da portare nel mondo libero con un obiettivo: «impegnarsi molto e rispettare chi, quelle storie, le stava raccontando».
Nel 2005, «scontata» la sua esperienza triennale, Dutto decise di trasferire la sua esperienza in carcere in un libro – Il Gambero Nero. Ricette dal carcere (Cibele) – realizzato insieme al giornalista Michele Marziani. Tra le pagine, i detenuti che cucinano nelle proprie celle, le loro ricette e le difficoltà quotidiane.
Nell’autunno del 2010 viene fondata l’associazione fossanese Sapori Reclusi sull’onda del lavoro di Davide Dutto per entrare laddove solitamente si trovano porte chiuse, nell’intimità delle persone, per capirle al di là di stereotipi e preconcetti. Una delle sfide vinte dall’Associazione è stata quella di portare in carcere sette importanti nomi della cucina italiana (Alciati, Palluda, Ghigo, Ribaldone, Reina, Demaria e Campogrande) per la creazione di un «laboratorio di fotogastronomia che è diventato un importante momento di scambio e relazione» tra detenuti e chef.
Qual è la ricetta per rendere la detenzione più “a misura di uomo”?
Credo fortemente nel potere di riscatto dell’uomo attraverso la preparazione del cibo e alla fotografia, due forme di espressione alle quali sono fortemente ancorato. Nelle carceri incontro storie estreme, colori e contrasti forti, odori e sapori decisi, la fotografia e il cibo quindi all’interno di questo contenitore forzato si uniscono in modo naturale, diventando mezzi di comunicazione e di espressione altamente privilegiati durante i nostri incontri. Ecco allora la mia ricetta per rendere più umana e rieducativa la detenzione: unire la fotografia e il cibo, creare interazione tra “fuori” e “dentro” per conoscerci meglio e abbattere vecchi e inutili stereotipi e paure. Infine comunque un bel piatto di pasta, aglio, olio e peperoncino per unire semplicità, gusto e concretezza va comunque cucinato. Ogni detenuto, comunque, possiede una ricetta personale e proviene dalle proprie radici culturali.
Come reagiscono i detenuti alla presenza della macchina fotografica? E alle “regole” della cucina?
Il tempo in carcere ha in valore diverso, scorre pesante e lento, monotono e sterile. Di solito i detenuti si iscrivono ai corsi per passare del tempo diversamente, basta dire che le domande per il mio prossimo corso di fotogastronomia all’interno del carcere di Alessandria sono state più di 100 per 10 posti disponibili. Per nostro mondo di “liberi” scattare una foto con un telefonino è un’azione scontata e quotidiana. Dentro è un fatto unico ed eccezionale. Cucinare nelle celle è complicato, molti alimenti e attrezzi non sono ammessi, una semplice operazione come quella di tagliare un pezzo di carne o delle cipolle diventa un’impresa ardua. Così quando arrivo con macchine fotografiche, computer, cuochi e alimenti da cucinare è quasi un giorno di festa attesa, un momento da ricordare. Trovo tutto ciò veramente positivo e costruttivo.
Quali le prossime tappe del percorso?
Una per tutte: la pubblicazione di un volume che racchiuda tutte le esperienze e le storie di detenuti, cuochi, persone, cooperative sociali che in questa realtà vivono, lavorano, insegnano e producono. Molte sono le ricette e gli alimenti che nascono durante gli incontri nelle varie carceri italiane come i biscotti della Banda Biscotti, la birra di Pausa Caffé, i panettoni della Cooperativa Sociale Giotto, i formaggi di Galeghiotto, le uova di Al Cappone e tanti altri. Sapori Reclusi cerchererà di dare visibilità e voce a tutte le realtà che incontreremo. Io, come fotografo, non posso far altro che continuare ad ascoltare e raccontare le “storie recluse”.
Fattore Umano | Per un Natale meno recluso (2)
Idee regalo dalla “produzione carceraria”. La seconda parte della guida con le iniziative per collegare nei prossimi giorni il “mondo recluso” e il “mondo libero”
Una serie di iniziative di sensibilizzazione per aiutare la popolazione carceraria. Dalla Poesia delle Bambole del carcere di Firenze al sound dei musicisti reclusi a San Vittore. Ecco la seconda parte della guida che il Blog ha dedicato alle proposte di Natale da e per i detenuti.
Clicca qui per scaricare la seconda parte della guida Per un Natale meno recluso.
Fattore Umano | Il loro Natale
In vendita da domani il dvd con il documentario Il loro Natale di Gaetano Di Vaio. Il lungometraggio presentato l’anno scorso alla 67° Biennale di Venezia nella sezione «Controcampo Italiano». Protagoniste del film le donne di Poggioreale e Secondigliano che raccontano il loro quotidiano di madri, mogli, sorelle e figlie di detenuti
Gaetano Di Vaio firma questo lungometraggio con alle spalle diverse collaborazioni tra cui quella con la Fandango che nel 2007 gli affidò di trovare le location e montare i set alle Vele di Scampia per Gomorra di Matteo Garrone. E si prepara ad arrivare nelle case italiane con Il loro Natale, «Storie di solitudine e dignità, grandi difficoltà e marginalità sociale».
Storie raccontate dalla voce diretta di Maddalena, Mariarca, Titina e Stefania che si preparano alla consegna dei “pacchi” per i loro uomini detenuti. Basta vedere il trailer per capire quali siano le difficoltà della loro vita divisa tra famiglia “libera” e famiglia “reclusa”. E le conseguenze di una detenzione indiretta che rende ancora più difficile il diritto all’affettività.
Per chi lo volesse acquistare, il dvd prodotto da Figli del Bronx in collaborazione con Minerva Pictures Group sarà sugli scaffali di tutti i negozi Feltrinelli, Fnac e di altre 150 librerie italiane.