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Il caso Rossetti Lunedì al tribunale del riesame
MA I GIUDICI SONO GLI STESSI DEL PRIMO GRADO
Il caso di Mario Rossetti, ex direttore finanziario di Fastweb, da oltre cento giorni in custodia cautelare, si legge in un editoriale del “Foglio”, è per molti versi identico a quello dell’ex ad della società, l’ingegner Silvio Scaglia. In entrambe le situazioni , “non sussiste alcuno dei requisiti che giustificano il carcere preventivo: non può reiterare, non può inquinare prove vecchie di anni, non intende fuggire”.
Certo, c’è un’importante differenza tra i due casi: Scaglia ha ottenuto gli arresti domiciliari, seppur in un regime estremamente rigoroso, Rossetti è ancora in carcere. Ma peraltro esiste un’altra inquietante analogia da rilevare alla vigilia dell’udienza del Tribunale del Riesame che lunedì esaminerà il ricorso dei legali di Rossetti contro la custodia cautelare: il collegio, come già avvenuto per Silvio Scaglia sarà composto dagli stessi giudici del primo grado.
“Un paradosso ed un’anomalia- scrive Il Foglio - quella di un sistema che consente agli stessi giudici che si sono già pronunciati in un’altra veste (quella del Tribunale del Riesame) di pronunciarsi sulla stessa materia in Appello. Lecito dubitare che intendano smentire se stessi”. L’istituto del Tribunale del Riesame dovrebbe servire ad offrire, per giunta con un doppio grado di giudizio, al detenuto la garanzia di una valutazione di merito “autonoma” rispetto a quella di chi conduce le indagini. “Ma in questo caso – conclude Il Foglio – i margini di tale autonomia sembrano assai ridotti. Una stortura legislativa che fa riflettere”.
In attesa del Tribunale del Riesame. Mario Rossetti vuole solo abbracciare i suoi figli.
Altre ore di attesa difficile per Mario Rossetti, in carcere da più di cento giorni. Lunedì 7 giugno infatti i giudici del Tribunale del Riesame di Roma dovranno decidere in sede d’Appello sul provvedimento del gip Aldo Morgigni che il 15 aprile scorso ha respinto l’istanza di scarcerazione presentata dai legali, dopo l’interrogatorio allo stesso Rossetti da parte dei pm.
La decisione dei giudici potrebbe (condizionale d’obbligo) restituire la libertà all’ex direttore finanziario di Fastweb. Senonchè ad esprimersi sarà lo stesso collegio del primo grado, presieduto da Giuseppe D’Arma, cioè gli stessi magistrati che, sempre in Appello, hanno negato il diritto alla scarcerazione a Silvio Scaglia, mantenendo il regime dei “domiciliari”. Domanda obbligatoria: riuscirà il collegio a decidere senza allinearsi ai desiderata dei pm. Con Scaglia non è accaduto, suscitando le forti proteste degli avvocati Corso e Fiorella, che hanno parlato di decisione “agli antipodi della legittimità”, a proposito di un sistema che consente “agli stessi giudici che già si sono pronunciati in altra veste (Tribunale del Riesame) di pronunciarsi sulla stessa materia sotto un’etichetta diversa (giudici d’Appello)”.
Rossetti, si sa, vuole solamente riabbracciare i suoi figli. Tra l’altro in cella soffre di claustrofobia, accertata dai medici, eppure ha diritto solo a un’ora d’aria al mattino, mentre al pomeriggio gli viene aperta un paio d’ore la porta della cella.
Intanto, sempre in merito alla detenzione abnorme che sta subendo, prende posizione il Sole 24 ore: “si nota che personalità certamente schierate per la cultura della legalità, come Umberto Eco, abbiano espresso posizioni garantiste sulla vicenda”. Aggiungendo: “se sono stati decisi i domiciliari per l’ex numero uno Scaglia perché lasciare in prigione da 100 giorni il suo ex sottoposto, Mario Rossetti?”. Mentre il settimanale Panorama parla dello “strano riesame del caso Scaglia”, ricordando come toccherà ancora “alla Cassazione il 25 giugno pronunciarsi sulla sua richiesta di tornare in libertà”.
Rita Bernardini a silvioscaglia.it: Mario Rossetti è stato adottato dai suoi “concellanei”
E su Rebibbia: “situazione insostenibile”.
“Carmelo Cantone, il direttore del carcere di Rebibbia nuovo complesso, ha avuto una buona idea: è una sorta di tesserino localizzatore con il quale i detenuti possono spostarsi all’interno del penitenziario, senza essere per forza accompagnati. Tanto si sa dove si trovano”. A raccontarla è l’on. Rita Bernardini, dopo l’ultima visita nel penitenziario: “E’ una risposta utile – sottolinea il deputato – alla cronica carenza di organico e al sovraffollamento di Rebibbia, come di tutte le altre carceri italiane, ma purtroppo non è con le alzate d’ingegno che si possono superare i problemi”.
On. Bernardini, il sovraffollamento è di nuovo oltre la soglia di allarme?
Assolutamente sì, gli ultimi dati parlano chiaro a tutti quelli che vogliono capire: in Italia sono attualmente rinchiusi 68.700 detenuti, di cui oltre il 40% in attesa di giudizio. La capienza totale non dovrebbe superare i 45.000. E’ una situazione insostenibile, soprattutto perché non si capisce come si pensa di uscirne: ogni mese entrano in galera mille persone e ne escono 400. Non vorrei che nei prossimi mesi e con il caldo in arrivo succedesse qualche guaio”.
Teme il peggio?
Non lo so, spero di no, anzi sono abbastanza stupita dell’apparente tranquillità. D’altra parte, una delle reazioni a cui assistiamo è l’impennata dei suicidi: da inizio anno se ne contano 28 tra i detenuti e ben 5 tra gli agenti.
Che fare?
La posizione dei radicali è nota. Quando le cose stanno così, meglio un indulto e un’amnistia, ma siamo rimasti i soli a dirlo. C’è chi preferisce veder prescritti 200mila processi all’anno piuttosto che affrontare la questione. In dieci anni sono andati al macero già 2 milioni di processi. Poi è chiaro che, in una situazione del genere, ai magistrati viene la tentazione di finire solo quelli che vogliono, che offrono maggiore visibilità e magari l’occasione di fare carriera, come accadde con il povero Enzo Tortora.
A Rebibbia lei ha avuto modo di incontrare Mario Rossetti, cosa può dirci?
Dice che è sereno perché sa di essere innocente, ma ciò non toglie che sia stanco e preoccupato. Soprattutto soffre molto la mancanza dei figli, ne ha tre, il più grande ha nove anni. Mi ha raccontato che si era dato la regola di vita di rientrare a casa non oltre le 8 di sera, per stare con loro. Può sembrare poco, ma per un manager molto impegnato…
Ma non li può vedere?
E’ qui il punto: li sente solo al telefono e continuano a chiedergli papà quando torni. Li potrebbe incontrare in carcere, ma non vuole che lo vedano dietro le sbarre. Ci sarebbe una soluzione: a Rebibbia c’è la zona verde, un piccolo parco dove i detenuti incontrano i famigliari, soprattutto i figli. Ma a lui non è concesso, il suo regime molto restrittivo non lo consente. Rossetti è anche credente, cattolico, ma non può neanche andare a messa. Che altro dire.
E come passa il tempo?
Chiede continuamente che gli venga consentito di fare qualcosa, ma c’è poco da fare. Il regime deciso dai magistrati è molto restrittivo. Tra l’altro, soffrendo di una claustrofobia clinicamente accertata dai medici, stare sempre chiuso in cella peggiora la situazione. Ha diritto ad una sola ora di aria al giorno. Gli altri detenuti, che lì si chiamano “concellanei”, lo hanno adottato per farsi scrivere delle lettere o delle piccole richieste. Poi si rivolgono a lui per una altro grande problema: quasi tutti sanno che una volta usciti dal carcere non troveranno niente da fare, così gli chiedono aiuto, per imparare qualcosa o come cercare un lavoro. E si affidano ai suoi consigli, di uomo d’impresa, per avere una speranza. Mi ha ribadito che una volta libero intende prendersi a cuore altri detenuti che si trovano nei guai.
Mario Rossetti: cento giorni
Cento giorni in una cella di venti metri quadri, da dividere in cinque. Un gulag di sovietica memoria? Una prigione afghana o pakistana? Nulla di tutto ciò. Succede invece a Roma, precisamente a Rebibbia, nel carcere della “caput mundi” che ospita (si fa per dire) 1700 persone secondo i dati forniti, nell’Italia dei 68.700 detenuti: un record nella storia della Repubblica.
“Una situazione allo sfascio”, per una struttura che dovrebbe ospitarne 1.200. Ma è questa l’Italia penitenziaria. E fra le storie (tra le tante) quella di Mario Rossetti, raccontata in un articolo dal quotidiano il Riformista.
A Rossetti, scrive Jacopo Matano: “Il combinato disposto con il sovraffollamento ha dato origine a un paradosso: se non avesse scelto di condividere la cella con altri cinque detenuti sarebbe, praticamente, in isolamento”. Come racconta al giornale il deputato radicale Rita Bernardini, in visita il 2 giugno al carcere: “Non può andare a messa, non può frequentare molti dei corsi. E poi non ha diritto di ricevere le visite dei familiari nell’area verde”. Per questo, per non farsi vedere dai figli dietro le sbarre (Giorgio di 9 anni, Luise di 8 e Leone di 2), Mario Rossetti ha detto che preferisce non incontrarli.
A nulla vale per i giudici il fatto, come ricorda il Riformista, che Rossetti sia indagato per “operazioni” che riguardano il 2002-2003”, e che dal 2005 non ricopre più l’incarico di direttore amministrativo e finanziario di Fastweb.
“In Italia – prosegue il racconto di Rita Bernardini – circa la metà dei detenuti sono in attesa di processo. La carcerazione preventiva andrebbe applicata solo in casi eccezionali”. Ma non è così, l’eccezione è diventata la regola.
Sappiamo però che Rossetti, benché provato, non si perde d’animo. E che tra le altre cose, per riempire il tempo, sta aiutando altri detenuti, a scrivere delle lettere e dando conforto. E ha già deciso che anche da libero non dimenticherà tutto quel che ha visto.
Visita di Stracquadanio a Mario Rossetti: L’ho trovato lucido e determinato
Maurizio Belpietro, direttore di Libero, lo aveva annunciato proprio dalle pagine di silvioscaglia.it: “Presto dedicherò ampio spazio a Mario Rossetti”. Promessa mantenuta: il quotidiano pubblica oggi un articolo sull’ex direttore finanziario di Fastweb, raccontando la visita che ha potuto fargli a Regina Coeli, Giorgio Stracquadanio, deputato del Pdl.
Rossetti è ormai in prigione da più di 90 giorni, tre mesi durante i quali la prova più dura è stata quella di “non poter passare neanche un minuto di tempo con la moglie e i tre figli (Giorgio di 9 anni, Luise di 8 e Leone di 2)”. Racconta ancora il parlamentare: “la prima volta che l’ho visto a Rebibbia l’ho trovato spaventato e incredulo. Ora invece è lucido e determinato”. Il colloquio è avvenuto in una stanza del raggio G12 del carcere romano, alla presenza del direttore, del vicedirettore e di un ispettore della Penitenziaria. “Nonostante tutto – ha detto Rossetti – ho ancora fiducia nell’Italia, nelle istituzioni”.
Tra le mura della cella – scrive ancora Libero – Rossetti “divora libri”. “Ma il manager – aggiunge – si sta anche interessando di organizzazione carceraria”. E soffre, certamente molto, la sua condizione di detenuto in custodia cautelare: un’ora d’aria al giorno invece di due, la possibilità di andare in biblioteca solo quando non c’è nessuno”.
“Stracquadanio – prosegue Libero – è convinto che Rossetti voglia raccontare la sua storia. E che, come è successo a Scaglia, voglia iniziare un percorso che proseguirà anche fuori. “Il carcere preventivo è come un’ustione, una ferita che non si rimargina”, ha detto al deputato. Chiedendo, poco prima che lo riaccompagnassero in cella di “salutargli gli amici con i quali non ho più avuto modo di parlare”.
Forza Mario.
Belpietro: Presto un’iniziativa su Rossetti
“Presto daremo ampio spazio al caso di Mario Rossetti. A dimostrazione che non ci occupiamo solo dei detenuti celebri ma anche degli altri, comunque vittime dell’abuso del carcere preventivo: il trattamento subito dall’ex direttore finanziario di Fastweb dev’essere portato all’attenzione dell’opinione pubblica”.
Parla così Maurizio Belpietro, direttore di “Libero”, il primo ad aver sfondato, ad inizio aprile con un editoriale, il muro di silenzio sulla custodia cautelare di Silvio Scaglia che ancor oggi, 91 giorni dopo la sua carcerazione, si trova agli arresti domiciliari. “Non ho mai conosciuto Silvio Scaglia – continua Belpietro - né avevo alcuna ragione speciale per occuparmi di lui. Ma il suo caso mi aveva colpito”.
Perché?
“Per l’assurdità della situazione. Mi aveva colpito il caso di un uomo che rientra dall’estero per mettersi a disposizione dei magistrati e riceve questo trattamento. Senza una ragione qualsiasi. Scaglia di sicuro non intende né può inquinare le prove. O tantomeno reiterare il reato”.
Insomma…
“Insomma dopo un’inchiesta durata anni e questa lunga, assurda carcerazione preventiva, i magistrati devono dare delle risposte: i soldi sono di Scaglia? Lui e Rossetti sono colpevoli? Allora li rinviino a giudizio e li giudichino. Ma non si può insistere sulle esigenze cautelari, dentro e fuori dal carcere, quando queste non ci sono”.
Ma si è fatto un’idea su quest’ostinazione degli inquirenti?
“Un’idea ce l’ho. Tutto nasce dall’inchiesta sul G8 di Firenze in cui è stato coinvolto il procuratore aggiunto di Roma, Toro”.
Ma qual è il legame?
“La procura romana si è sentita di nuovo a rischio di essere considerata il porto delle nebbie della giustizia italiana. Perciò ha voluto dimostrare di non guardare in faccia a nessuno e di saper colpire anche grossi nomi”.
Utilizzando soprattutto l’arma della custodia cautelare…
“Probabilmente nella speranza di ottenere una confessione. Un uso improprio della custodia cautelare, se non peggio. Il codice non prevede l’alternativa o confessi o non esci. Anzi, l’imputato ha il diritto di non rispondere”.
Tanto, prima o poi, cala il silenzio su questi casi.
“Faremo in modo che ciò non accada”.
Caso Rossetti, l’interrogazione di Compagna: “Il ministro Alfano mandi gli ispettori”
“Spero che il ministro Alfano mi risponda che non ho capito nulla, che ho preso fischi per fiaschi, me lo auguro davvero, perché altrimenti la soluzione è una sola: inviare degli ispettori alla Procura di Roma”.
Non ha mezze misure Luigi Compagna, senatore del Pdl, che mercoledì 26 maggio si è rivolto al Guardasigilli con una interrogazione per chiedere di «valutare l’opportunità di esercizio dell’azione di responsabilità disciplinare nei confronti dei magistrati che conducono l’inchiesta Telecom-Fastweb”. In particolare, nell’interrogazione il senatore Compagna fa un esplicito riferimento al regime di custodia cautelare di Mario Rossetti, l’ex direttore finanziario di Fastweb, in carcere da tre mesi.
Senatore Compagna, perché questa iniziativa?
Mi lasci fare una premessa: io non so se Mario Rossetti è colpevole o innocente, non sta a me dirlo, non sono il suo avvocato e non conosco nemmeno bene la sua posizione processuale, ma il punto non è questo
E quale sarebbe?
Il punto è che ho sentito con le mie orecchie su Sky 24 uno dei magistrati dell’inchiesta rilasciare la seguente dichiarazione: “abbiamo negato la scarcerazione a Rossetti perché negli interrogatori non ha fornito elementi utili ad interromperla o comunque ad attenuarne gli effetti”.
Ebbene?
Sono rimasto esterrefatto. Ma come? Nel nostro codice l’interrogatorio è un passaggio fondamentale a garanzia dell’imputato, non è uno strumento di scambio. Qui si violano i principi elementari della Costituzione. Cosa vuol dire che l’indagato “non ha fornito elementi utili”? Le condizioni per la carcerazione preventiva sono nitidamente fissate, non esiste il principio dell’inquisito collaborante. Mica il detenuto è un “cliente” del pm.
Quindi?
La verità è che ormai si gioca al gatto e al topo fra magistrati e imputati. È una deriva dell’esercizio dell’azione della magistratura. Per questo chiedo solamente di essere smentito dal ministro Alfano, desidero solo che mi dica che non ho capito un tubo, ma se non è così ha il dovere di mandare degli ispettori. Oppure il ministro della Giustizia deve dirmi che ha ragione quel pm: la custodia cautelare è un elemento di trattativa.
E se lo fosse diventato?
E qui saremmo allo scandalo dichiarato. Alla conferma che ormai certa magistratura si muove solo su un unico binario: intercettazioni e pentiti, tutto il resto è inutile. Insomma, siamo alla vergogna per uno stato di diritto, a una cultura della procedura penale del tutto antitetica a quella, lo ripeto, della nostra Costituzione.
J’ACCUSE/ Scaglia e il caso Fastweb, un esempio di malagiustizia da “studiare”?
Vi proponiamo in versione integrale questo articolo di Sergio Luciano da ilsussidiario.net
Questo nostro Paese ha un suo destino particolare, per il quale spesso le iniziative giuste vengono prese dalle persone sbagliate, e non vanno in porto a causa dell’inadeguatezza dei propri promotori. È il caso della riforma della giustizia che, fin quando sarà propugnata da un governo guidato da Silvio Berlusconi, rischia di non veder mai la luce, lasciando la magistratura italiana in una posizione di inefficiente strapotere, che si risolve in una serie di gravissimi disservizi, continui arbitrii e complessivo crollo di credibilità.
Berlusconi però, in materia, anche se la dice giusta non è credibile: non lo è persino tra alcuni dei suoi stessi grandi elettori. Peccato: perché la malagiustizia è una vera piaga nel cuore del Paese, che ha perso la certezza del diritto sia in sede civile che penale.
Uno dei temi di critica contro i magistrati che Berlusconi, personalmente, pur nel suo feroce quindicennio di polemica con la categoria non aveva ancora toccato, è quello dell’abuso della carcerazione preventiva. C’era stato più che un dibattito un tormentone di dibattito, rigorosamente sterile, tra il ‘92 e il ‘95, negli “anni d’oro” di Tangentopoli, ma nulla era cambiato nell’ordinamento.
Di fatto, i giudizi sommari che, sulla documentazione istruttoria raccolta dai pubblici ministeri per chiedere l’arresto di un imputato o il commissariamento di un’azienda, vengono espressi dal Giudice per le indagini preliminari o, successivamente, dal Tribunale del Riesame, appaiono sempre giudizi psicologicamente e anche tecnicamente subalterni a quelli già espressi dal pm, che quindi di solito si vede accogliere le proprie richieste.
Nel corso di Mani Pulite divenne chiaro a tutti e fu oggetto anche di infinita letteratura pubblicistica il criterio profondamente estorsivo che queste misure cautelari seguivano: “Io ti arresto, tu ti spaventi e collabori, ammettendo le tue colpe e, meglio ancora, chiamando qualcun altro a corredo”.
Ecco: nel caso di Silvio Scaglia, Mario Rossetti e di almeno alcuni altri fra i numerosi indagati dell’inchiesta sulle asserite evasioni dell’Iva con riciclaggio che sarebbero state commesse da Telecom Sparkle e da Fastweb, la letale discrezionalità, la totale autoreferenzialità e l’arrogante aggressività dei pm, nell’assoluta supremazia su Gip e Riesame, sono emerse in tutta la loro chiarezza.
Di fatto, un’inchiesta avviata nel 2007, con un primo giro di interrogatori che non avevano condotto assolutamente a nulla, è stata rianimata dopo tre anni. La tempistica, e la visibilità data agli arresti, ha fatto pensare a tutti che la Procura di Roma cercasse un proprio momento di gloria, di pubblicità, quasi a prescindere dalla concretezza degli addebiti.
Gravissima impressione, certo non comprovata né comprovabile, eppure fondata sul fatto che i meccanismi e le entità delle colpe commesse non sono mai stati chiari all’opinione pubblica, e che poi di fatto gli imputati eccellenti, primo fra i quali Scaglia, non hanno mai ammesso il benché minimo addebito. A dispetto del “torchio” carcerario.
Inoltre, con Scaglia i pm romani si sono trovati di fronte a un osso duro. Psicologicamente molto solido, determinato fino all’inverosimile, Scaglia non s’è spostato di un millimetro dalla linea difensiva semplice e radicale che aveva scelto fin dall’inizio: quella della completa estraneità a ogni addebito.
Finalmente, dopo 87 giorni, lo hanno rimesso in libertà, anche se con ambiti strettissimi di azione. Ma attorno al suo caso – e purtroppo già meno attorno a quello di Mario Rossetti, che di Scaglia in eBiscom-Fastweb era stato direttore finanziario senza responsabilità personali sulla parte commerciale, su cui s’è concentrata l’inchiesta – è nato finalmente un polverone. Che potrebbe sortire qualche conseguenze politica e legislativa. Già, perché perfino i mille “signori Rossi” estranei alla strana vicenda, ma ad essa incuriositi hanno constatato che:
1) I fatti addebitati a Scaglia sono antecedenti alla sua uscita da Fastweb, quindi dopo l’interrogatorio del 2007, l’imprenditore avrebbe avuto tutto il tempo (e le risorse, anche economiche) per tacitare possibili testimoni, inquinare le prove, cancellarle eccetera;
2) Quando gli è stato inviato il mandato di arresto, Scaglia – anziché restare dov’era, in un altro continente – ha preferito spontaneamente presentarsi al pm, rientrando in Italia con un volo privato dall’Oriente: che “pericolo di fuga” legittimava una simile, lineare condotta?
3) Quanto alla reiterazione del reato, Scaglia non poteva perpetrarla, nemmeno se avesse voluto, perché all’interno dell’azienda dal 2007 non contava più nulla. E nella nuova impresa che dirige, Babelgum, si poteva eventualmente instaurare controlli preventivi, senza per questo far fuori lui…
Mancando tutte e tre le condizioni per l’arresto, allora perché? E che gioco nascondeva questa mossa estrema? Pubblicità, sicuramente: perché quello di Scaglia era l’unico nome “altisonante” in un’istruttoria che per il resto, anche in Telecom, coinvolgeva soltanto delle seconde file; e poi pressioni psicologiche.
Ora, le questioni aperte sono due: la prima è quella di metodo, sull’abuso della carcerazione preventiva. Scaglia, amato magari da pochi ma noti e stimato da tanti, ha avuto attorno a sé un movimento d’opinione che ha mosso gente come Umberto Eco o Pierluigi Celli, inducendoli a scrivere la loro testimonianza di stima e la loro incredulità sugli addebiti in un blog vivacissimo lanciato on-line poche settimane dopo l’arresto; e c’è poi stata la saggia iniziativa della moglie, Monica, di scrivere una lettera aperta al presidente della Repubblica, invocandone l’intervento chiarificatore, che di fatto c’è stato.
Solo grazie a questo eccezionalissimo concorso di consenso Scaglia ha rivisto casa sua; e non a caso ha fatto sapere di voler creare, con i suoi tanti soldi, una Fondazione per aitare chi si trovasse nelle sue stesse condizioni senza avere le risorse per difendersi da solo.
C’è poi una questione di merito, ed è l’incosistenza delle accuse: ma su questo è bene far parlare i tempi, pur biblici, con cui la magistratura giudicante si pronuncerà.
Il punto nodale resta però un altro: ed è l’irresponsabilità dei magistrati, a fronte dei devastanti danni esistenziali che generano quando sbagliano. Un referendum sulla responsabilità civile dei giudici, che vent’anni fa prescrisse al legislatore di stabilire appunto l’obbligo dei magistrati di pagare i danni dei loro errori, è rimasto lettera morta.
Mentre è regola costante che, ad esempio, un medico ospedaliero che sbagli, debba pagare i danni alla sua vittima. O un autista dell’Atm che investa il pedone paghi di tasca sua e, eventualmente, rimettendoci il posto. Ma quel che è peggio, neanche la carriera dei giudici risente dei loro errori: il fatto che un pubblico ministero, che richieda il rinvio a giudizio di 100 inquisiti, veda accogliere dai Gip il 100% o il 10% delle sue richieste, non influisce sulla sua carriera; il fatto che i rinviati a giudizio vengano condannati al 100% o al 10% non influisce sulla sua carriera; insomma, che lavorino bene o male, i giudici vanno avanti lo stesso.
Nel ’93, l’allora presidente dell’Eni Gabriele Cagliari venne arrestato per tangenti. Per lui fu un gravissimo trauma. Si aggrappò con la forza della disperazione alla speranza di essere trasferito agli arresti domiciliari. Era la fine di luglio, il pm Fabio De Pasquale aveva in mano la richiesta degli avvocati di Cagliari, primo fra tutti Vittorio D’Ajello. Racconta D’Ajello che De Pasquale promise di valutare la richiesta di scarcerazione entro un determinato giorno; e che per di più – ma questa era un’interpretazione dell’avvocato – che si era mostrato favorevole ad accoglierla.
Alla vigilia della data indicata, a D’Ajello che cercò il giudice risposero in cancelleria che se n’era andato in vacanza e che sarebbe tornato a fine agosto. L’avvocato non potette che riferire la circostanza al detenuto. Il quale all’indomani si soffocò nelle docce con un sacchetto di cellophan stretto attorno alla testa. E morì. Fabio De Pasquale è ancora pubblico ministero a Milano, e ha sostenuto l’accusa nel processo a David Mills e a Silvio Berlusconi.
Rassegnarsi? Ma anche no!
“Il tribunale del riesame si riserva di decidere sull’istanza di scarcerazione presentata dai legali di Silvio Scaglia. Intanto i giorni passano”.
Così scrive Alberto Mingardi sul Riformista ricordando che “Scaglia, che subisce il divieto assoluto di comunicare con l’esterno, la libertà può solo annusarla nell’aria frizzante della val d’Ayas”. Con il passare del tempi, cresce anche il rischio che su questa storia di straordinaria ingiustizia cali la cortina del silenzio, nonostante l’emergenza sia tutt’altro che finita.
E l’articolo riaccende i riflettori su due aspetti inquietanti: la detenzione di Mario Rossetti e la fidejussione di 10 milioni richiesta a Silvio Scaglia “per lasciarlo andare in val d’Aosta”. Mingardi si occupa, in particolare, della storia di Mario Rossetti, l’ex direttore finanziario di Fastweb ancora detenuto a Rebibbia ormai da 87 giorni. Mingardi riprende le informazioni già diffuse dal nostro blog, definito “ormai rassegnato diario informatico” (urge una rettifica, non siamo per niente rassegnati) : a Rossetti è stato sequestrato tutto. Tutti i conti correnti. La sua famiglia, la moglie e tre bambini, si trova in una situazione di grande difficoltà.
“Ma la cosa più incredibile che si apprende dall’avvocato di Rossetti, Lucio Lucia, è che il suo assistito è stato sì protagonista di un interrogatorio, ma il 13 aprile scorso. Poi, basta. Più nulla”.
“Da più di un mese Rossetti è in galera a far la muffa. Non viene usato dai magistrati per comprendere meglio lo svolgimento dei fatti. Pensare che possa inquinare le prove è ridicolo, visto che non lavora in quell’azienda da quattro anni”.
Per quanto riguarda la fidejussione richiesta a Scaglia, Mingardi rileva che “sembra un dettaglio trascurabile, a parte l’entità della somma. Ma non lo è. Gli hanno chiesto, di fatto, un pedaggio. Come al Monopoli.”.
“E’ normale – si chiede Mingardi – che ben prima che cominci il processo esistano già condanne così certe da poter pretendere, nei fatti, un anticipo della pena? Che impressione danno casi di questo tipo che coinvolgono direttamente la business community agli investitori stranieri? La presunzione d’innocenza è diventata un guscio vuoto?”.
In attesa di una risposta è importante non rassegnarsi. Mai.
I famigliari dei manager Sparkle si rivolgono al Presidente
Anche i famigliari dei manager di Telecom Italia Sparkle in carcere a Rebibbia da 86 giorni nell’ambito dell’inchiesta sulla “frode carosello” hanno deciso di appellarsi al Capo dello Stato, imitando l’esempio della signora Monica Aschei, moglie dell’ingegner Silvio Scaglia, attualmente agli arresti domiciliari, sotto un regime estremamente restrittivo, nel comune di Ayas.
I famigliari dell’ex amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle, Stefano Mazzitelli, e dei manager Massimo Comito e Antonio Catanzariti, si rivolgono al Quirinale con una lettera pubblica in cui sottolineano di aver nutrito sempre la convinzione che “la nostra fiducia estrema nella giustizia avrebbe vinto”. I tre manager, al pari dell’ex direttore finanziario di Fastweb, Mario Rossetti, sono ancora sottoposti al regime di custodia cautelare.
“Ma ora – si legge nel documento riportato da Repubblica – Le scriviamo perché il carcere cautelativo sta diventando una vera tortura giudiziaria: Stefano Mazzitelli non è più in carica dal novembre del 2009 e fuori dall’azienda dal febbraio 2010. Massimo Comito e Antonio Catanzariti sono stati licenziati dopo gli arresti. I pm hanno carte raccolte in tre anni di lavoro investigativo. Nei loro conti sequestrati e nelle indagini raccolte per rogatoria in tutto il mondo non è risultato un solo euro che potesse essere ricondotto a truffe, tangenti o qualsiasi atto dell’inchiesta”.
Di qui, “senza voler entrare nel merito dell’inchiesta che li riguarda perché la loro innocenza dovrà essere dimostrata ai giudici competenti” i famigliari si domandano la ragione di una custodia cautelare di queste misure preventive. Una prassi che non è certo giustificata dalla lettera e dallo spirito della legge ma che getta, davanti alla comunità internazionale, un’altra ombra sull’efficienza e l’equità della macchina e della giustizia italiana.
Come si legge sul supplemento Plus de Il Sole 24 Ora “Silvio Scaglia si è fatto 82 giorni di carcere preventivo. Negli Usa chi sbaglia paga molto duramente. Dopo il processo”.