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Dov’è finito Silvio Scaglia?
L’ingegnere diventa un simbolo della malagiustizia
“Sono troppe le storie di imprenditori che vengono sbattuti sui giornali per un paio di giorni e poi finiscono nell’oblio. Nessuno ad esempio riesce a capire se Silvio Scaglia, il manager di Fastweb, sia ancora agli arresti domiciliari nella sua villa in Val d’Aosta che guarda il Monte Bianco”. Scriveva così ieri Dagospia e, oggi, Claudio Borghi sul Giornale – a proposito del sequestro disposto dalla Procura di Milano di un’area contigua agli spazi previsti per l’Expo 2015 per il sospetto di inquinamento – scrive: “Può essere che questa volta la Procura abbia ragione e i danni ci siano, ma è un fatto che questo potere di invasività economica dell’autorità giudiziaria legato ad una mancanza di responsabilità per il suo operato spaventa molti imprenditori che pur vorrebbero investire in Italia. Si pensi per esempio alla carcerazione di Silvio Scaglia ed addirittura al ventilato commissariamento di Fastweb: quando (e se) si arriverà a sentenza per quei fatti? Chi aveva ragione?”.
Insomma, il caso di Silvio Scaglia è ormai diventato un esempio di scuola del mal funzionamento della giustizia italiana nelle sue forme peggiori. A partire dall’uso improprio della carcerazione preventiva usata come pena preventiva da infliggere senza processo. Una modalità sempre più comune, usata in questo senso anche, in un dibattito televisivo, da personalità al di sopra di ogni sospetto, come il direttore de Il Riformista Antonio Polito. Un esempio dell’inefficienza italica. Un po’ come la Salerno-Reggio Calabria o le piene del Seveso che allagano mezza Milano ad ogni acquazzone senza che la macchina pubblica sappia trovare un rimedio.
Non è una consolazione per il cittadino privato della sua libertà e dei suoi diritti, come l’ingegner Silvio Scaglia. Soprattutto se si ha la sensazione, nonostante i nostri sforzi, che sulle ingiustizie perpetrate nei confronti di Scaglia che si è consegnato spontaneamente alla giustizia senza indugi, sia calata una cortina di indifferenza. O, peggio, di silenzio. Per evitare che si consumi questo crimine nel crimine, il Blog di Silvio Scaglia ha programmato un’iniziativa online in vista dell’apertura del processo, il prossimo 23 novembre. Con un obiettivo: informare perché l’ignoranza, in questo caso, è complice della malagiustizia.
Concluso il passaggio di consegne fra la Quarta e la Prima sezione penale del Tribunale di Roma. Il 23 novembre la prima udienza
Ci è voluta un’intera settimana (esattamente dal 2 novembre scorso ad oggi), ma adesso il percorso “burocratico” è concluso: il processo Fastweb – Telecom Sparkle è finalmente approdato al suo giudice naturale. Nelle scorse ore, infatti, il cosiddetto “fascicolo del dibattimento” (altrimenti chiamato semplicemente “fascicolo”) è passato – in via definitiva – dalle scrivanie della Quarta a quelle della Prima sezione penale del Tribunale di Roma, presieduta dal giudice Giuseppe Mezzofiore che nel corso del processo sarà affiancato dai due giudici a latere, la dottoressa Alessandra Cuppone e la dottoressa Eleonora Santolini.
È giunta così al termine la vicenda dai risvolti un po’ kafkiani del “mero errore materiale” – per ammissione dello stesso Tribunale ordinario – per il quale si era fatta confusione nell’abbinamento PM-giudice, stante i criteri tabellari di ripartizione dei processi. Un errore che aveva costretto il giudice Costantini (Quarta sezione) a dare corso a un’udienza formale ma necessaria, per comunicare a tutti i legali e agli imputati l’obbligo dello spostamento.
Con il deposito del fascicolo si è pertanto perfezionato il passaggio di consegne sotto ogni profilo, compreso quella della libertà personale. In altre parole, esce di scena il gip e i legali che intenderanno promuovere istanze relative alla condizione del proprio assistito potranno rivolgersi direttamente al collegio dei giudici.
La prima udienza resta confermata al 23 novembre.
Quando i domiciliari sono un vincolo alla libertà di difesa
Esiste anche il reato di evasione sul terrazzo. La sesta Sezione penale della Corte di Cassazione (sentenza n. 30983, 30/07/2007) ha infatti accolto il ricorso della Procura Generale presso la Corte Territoriale contro la sentenza della Corte d’Appello di Bari che aveva assolto una persona, agli arresti domiciliari, già accusato di “evasione impropria” perché stazionava sul terrazzo di casa. Per abitazione individuata come luogo dove rimanere agli arresti, secondo la Suprema Corte, deve intendersi “soltanto il luogo in cui conduce la vita domestica e privata con esclusione di ogni altra appartenenza (quali cortili, giardini, terrazze, aree condominiali in genere) che non siano parte integrante o pertinenza esclusiva dell’abitazione medesima”. Al contrario la Corte d’Assise di Bari non aveva ravvisato “un apprezzabile distacco” del terrazzo dal luogo degli arresti né l’elemento psicologico “della volontà di sottrarsi all’eventuale controllo della polizia giudiziaria finalità che costituisce il nucleo essenziale della misura alternativa”. Al contrario, replica la Cassazione, in questo caso il reato è punito a titolo di “dolo generico”: è sufficiente la consapevolezza di trovarsi in stato di arresto e la volontà di allontanarsi, sia pure per breve tempo e non in via definitiva, ove risiedere.
Dura lex, sed lex, insomma. Anche se i margini di interpretazione, nei fatti, possono rivelarsi elastici o rigidi. Sempre la sesta sezione della Cassazione (sentenza n.2735, 21/01/2009) ha dato un’altra interpretazione “rigorista” degli arresti domiciliari: incorre nel reato di evasione “il soggetto che si allontana dal suo domicilio per partecipare ad una funzione religiosa”. Il caso riguarda un testimone di Geova autorizzato a partecipare, con scorta, ad una funzione religiosa ogni prima domenica del mese. L’uomo, dopo aver sollecitato invano il servizio di scorta anche la seconda domenica del mese, si è recato presso una Sala del Regno per assistere alla funzione, facendo ritorno nella propria abitazione alla fine della cerimonia. In questo modo il testimone di Geova ha consapevolmente violato il regime di arresti domiciliari.
Ma la Cassazione penale (sentenza n.16673, 30/04/2010) sa essere comprensiva: non è reato allontanarsi dal domicilio “qualora la convivenza con la propria famiglia ivi dimorante” sia divenuta particolarmente difficile.
La casistica può considerare all’infinito. Ma resta il fatto che l’istituto degli arresti domiciliari, secondo quanto previsto dal Codice penale, rientra nell’ambito di quei provvedimenti che il giudice può irrogare al soggetto nel corso del processo laddove vi siano esigenze di tutela della collettività che ne impongano l’adozione: inquinamento delle prove, pericolo di fuga o di reiterazione del reato. Quando, come nel caso dell’ingegner Silvio Scaglia queste esigenze non sussistono, gli arresti domiciliari si traducono nei fatti in una grave limitazione dei diritti della difesa.
A che serve la rigida clausura in Val d’Ayas interrotta dalle trasferte romane “con i propri mezzi” per partecipare al processo? Il principale risultato consiste nella limitazione della libertà di difesa, a partire dai rapporti con il collegio di difesa e dalla raccolta degli elementi da presentare in giudizio.
È davvero una “rare gag” (o “singolare bavaglio”) come ha commentato il Financial Times a proposito del trattamento riservato all’imprenditore Scaglia, cittadino che si è presentato spontaneamente ai propri giudici.
Legge 231: la parola a Palazzo Chigi
Il testo elaborato dai tecnici del Ministero della Giustizia relativo alla riforma sulla responsabilità penale delle aziende è approdato agli uffici giuridici della Presidenza del Consiglio
Si aprono nuovi spiragli per giungere al traguardo della riforma della legge 231.
Secondo quanto riporta infatti il quotidiano MF-Milano Finanza, gli uffici giuridici alle dipendenze del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta, avrebbero ricevuto un testo elaborato dall’ufficio Affari Giuridici del Ministero della Giustizia che mette nero su bianco quelle che dovrebbero essere le linee guida della riforma.
Il passaggio – scrive MF-Milano Finanza – “rappresenta quindi un piccolo ma importante passo avanti sulla strada della completa riforma delle norme sulla responsabilità penale delle aziende, soprattutto dopo l’avvio dell’inchiesta su Fastweb-Telecom Italia Sparkle della primavera scorsa (le aziende sono state costrette a versare al fisco una fidejussione da mezzo miliardo di euro per evitare il commissariamento) e la batosta che ha colpito martedì scorso il Banco Popolare, cui il gup di Milano ha confiscato 64 milioni per gli illeciti compiuti dai vertici di Italease”.
La parola passa dunque ora a Palazzo Chigi affinché – prosegue l’articolo “si chiuda il cerchio per portare a compimento una revisione sempre più richiesta da banche e aziende”. Una riforma cui “è fortemente interessata anche l’Abi che sta seguendo da vicino l’evolversi della situazione”.
Il testo spedito dai tecnici di via Arenula alla Presidenza del Consiglio conterrebbe i due punti fondamentali su cui ruota il progetto di riforma: 1) l’inversione dell’onere della prova per le aziende i cui vertici sono stati coinvolti in una serie di reati finanziari; 2) la costituzione di un nuovo modello di certificazione di controlli interni, da affidare a società autorizzate, fino alla revisione di alcune misure “interdittive” nei confronti delle società.
Reati economici: la proposta del PM Ielo
Il magistrato della Procura di Roma al convegno Confindustria di Capri lancia l’idea di concentrare nelle sedi di corte d’appello le procure e i tribunali distrettuali che si occupano di illeciti finanziari. Ma intanto la “nuova” 231 è ferma al palo
“Perché non realizzare procure e tribunali distrettuali che si occupino di reati economici, concentrandoli nelle 25 sedi di corte d’appello, esattamente come oggi accade con le Direzioni distrettuali antimafia?”. Se lo è chiesto, nel corso del recente convegno della Confidustria a Capri un ospite d’eccezione: il PM Paolo Ielo della Procura di Roma.
“Perché una cosa – ha aggiunto Ielo – è occuparsi di reati economici e finanziari un paio di volte l’anno, altro è dedicarsi a tempo pieno a questi temi. Nel nostro mestiere l’autoformazione è fondamentale, e la si ottiene solo con la continuità”.
Quanto alle risorse umane necessarie per realizzare queste sezioni speciali, secondo Ielo, si potrebbero recuperare tagliando 65 dei 165 tribunali italiani: ovvero quelli che operano con meno di 15 giudici, i quali potrebbero essere poi accorpati in altre sedi. Una proposta sensata, che merita di essere seguita anche perché arriva dalla stessa procura di Roma che ha indagato sulle frodi carosello. Fu lo stesso procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo a riconoscere, nell’intervista concessa al quotidiano Libero il 15 maggio scorso, che in materia di reati di questo tipo, “non c’è quel background che invece abbiamo per combattere il terrorismo e la mafia”.
Che cosa implica dunque questo “minor background”? Nel caso della truffa ai danni dell’ingegner Scaglia e di Fastweb il risultato è che la vittima, secondo una presunzione basata sul principio che il capo azienda “non poteva non sapere” diventa immediatamente complice, anzi il “perfetto” coautore di un raggiro ai danni dello Stato (raggiro giustamente perseguito) da cui, però, non ha tratto alcun profitto. Vorrà pur dire qualcosa? Ben venga perciò, come chiede anche un rappresentante della Procura della Repubblica, una formazione adeguata per contrastare i comportamenti criminosi.
Nel frattempo, il testo di riforma della 231, ovvero della legge sulla responsabilità penale delle aziende, la cui revisione dovrebbe avere come elementi fondanti l’inversione dell’onere della prova (toccherebbe cioè al magistrato inquirente dimostrare che il modello di controllo interno non ha funzionato) e la creazione di “modelli” di controllo standard certificati da soggetti autorizzati, è fermo al Dipartimento affari legislativi del Ministero della Giustizia. E non si sa quando farà passi avanti. Insomma è ferma al palo.
Il Financial Times su Scaglia
Quel bavaglio è una tragica burla
In inglese il termine “gag” sta indicare sia una “facezia”, ovvero uno scherzo da non prender troppo sul serio, sia il “bavaglio” che si mette davanti alla bocca. Sfruttando il doppio senso il Financial Times, a proposito del rigido divieto di comunicazione nei confronti dell’esterno (con l’eccezione dei famigliari e dei difensori oltre che di due collaboratori) imposto dai giudici a Silvio Scaglia, parla di “rare gag”: si tratta senz’altro di un bavaglio di eccezionale severità, che non trova ragion d’essere giuridica, ma anche di una sorta di “scherzo” inflitto allo Stato di diritto.
L’occasione per questa riflessione è stata la cronaca della “falsa partenza” del processo romano che coinvolge l’ex presidente di Fastweb Silvio Scaglia e l’ex direttore finanziario Mario Rossetti più altri ramage telefonici coinvolti nella frode carosello ordita da un’organizzazione criminale.
Il processo, come è noto, è stato dirottato “per mero errore materiale” dalla Quarta alla Prima sezione del Tribunale dove comincerà il prossimo 23 novembre. Ma la giornata romana, ricorda il quotidiano britannico, è stata la prima occasione per rivedere in pubblico Silvio Scaglia, dopo quasi tre mesi passato nel carcere di Rebibbia e il rigido regime di arresti domiciliari in val d’Aosta che si protrae dal 17 maggio. Un regime ormai del tutto incomprensibile alla luce delle esigenze processuali.
Processo TIS – Fastweb: prima udienza il 23 novembre
Questa mattina il Tribunale di Roma ha “ufficializzato” agli imputati e ai legali difensori lo spostamento del processo dalla Quarta alla Prima sezione presieduta dal giudice Giuseppe Mezzofiore
È iniziata questa mattina intorno alle 9.20, presente anche Silvio Scaglia, l’udienza presso la Quarta sezione penale del Tribunale di Roma che ha “ufficializzato” tramite lettura di un’ordinanza agli imputati e ai legali difensori dell’inchiesta Fastweb – Telecom Sparkle l’avvenuto spostamento del processo alla Prima sezione presieduta dal giudice Giuseppe Mezzofiore.
Il passaggio tecnico, seppur formale, si è reso necessario dopo che è stato rilevato – per ammissione dello stesso Tribunale ordinario – un “mero errore materiale” con riferimento all’abbinamento “PM – giudice”.
Questo in relazione al fatto che il dottor Capaldo, attuale procuratore aggiunto, in passato era sostituto procuratore. Di conseguenza, stante i criteri tabellari di ripartizione dei processi, il “giudice naturale” – si legge nell’ordinanza – era da considerarsi la Prima sezione e non la Quarta.
L’udienza è iniziata con l’appello degli imputati: primo nome Silvio Scaglia, seguito da quello di Mario Rossetti. Con l’ordinanza è stato anche comunicato che la prima udienza del processo si terrà martedì 23 novembre.
Io Donna: “Vi prego, ascoltate mio marito”
“Solo se sei un assassino puoi dire quello che vuoi”. Monica Aschei, moglie di Silvio Scaglia, non versa una lacrima, ma va avanti come un caterpillar. Alla vigilia del processo al fondatore di Fastweb, parla per la prima volta. E si toglie un sassolino…
di Pierangelo Sapegno
Ecco, uno viene arrestato e sparisce dalla società civile. È questo il vero problema, che nessuno ci ascolta, e l’assenza di risposte è un incubo. Cerchi qualcuno che abbia voglia di sentire la tua voce, ma se tu rispetti le regole, non esiste nessuno, semplicemente perché sei stato cancellato. Se sei un assassino ti ascoltano, ti vengono a cercare, e puoi dire quello che vuoi, alle televisioni, agli altri, a tutti. Per noi non è stato così, invece, e io mi sento come se mio marito l’avessero tolto dal mondo, gli avessero impedito di difendersi, di raccontare la sua storia». Monica Aschei è la moglie di Silvio Scaglia, il fondatore di Fastweb arrestato nell’operazione Phuncards-Broker, su una gigantesca rete internazionale di riciclaggio per un giro di false fatturazioni. Secondo l’accusa, quelle operazioni sarebbero state realizzate con la compiacenza dei vertici di Fastweb e di Telecom Sparkle. Fra pochi giorni comincia il processo. E Scaglia ha sempre detto che non ne sapeva niente, che non poteva saperlo, che i giudici l’avevano già sentito nel 2007 e che l’avevano prosciolto, che nessuno era riuscito a scoprire quella truffa, «neppure loro, che ne erano le vittime, e che avevano già rivoltato l’azienda come un calzino, prima di venderla agli svizzeri della Swisscom». Scaglia, dopo 3 mesi di carcere a Rebibbia, è agli arresti domiciliari ad Antagnod, Val d’Ayas, nell’unica casa che ha tenuto in Italia, dopo essersi trasferito a Londra. Non è stato un bel modo per tornare a casa.
Oggi, l’ha raggiunto sua moglie. Parliamo con lei nel cortile, perché lui non può farsi neanche vedere. E fa così: non si fa neanche vedere. Monica ha i capelli sciolti, è bionda, minuta, di una bellezza semplice come i suoi vestiti, un paio di jeans, un maglione, una camicia inglese. Forbes ha scritto che Scaglia è il tredicesimo uomo più ricco d’Italia, il 937esimo nel mondo e che la sua ricchezza documentata ammonta a più di un miliardo di dollari. Però, quando loro s’erano conosciuti non era così. Lei aveva 12 anni: «I suoi genitori erano venuti a vivere di fronte a noi, a Novara. Sono stata io a corteggiarlo. Quando avevo quasi 18 anni, Silvio era un bel ragazzo, e solo allora cominciammo a uscire. Abbiamo fatto tutta la strada insieme. Io lavoravo come ricercatrice e borsista e lui cominciava con McKinsey e poi con Gianfilippo Cuneo, Giovanni Agnelli, la Piaggio, Madrid… Ha lavorato come un matto. Silvio faceva un giro del mondo al mese, non si fermava mai. Diceva: l’esperienza cinese mi ha insegnato ad avere pazienza. Invece, penso che abbiamo corso in fretta. Arrivò Fastweb, la vendita a Swisscom e l’avventura con un nuovo start up. E due anni fa cominciò a studiare il cinese. Per lui l’Europa era una bella signora decadente. Guardava già avanti, perché è fatto così. Noi, tutto quello che abbiamo ce lo siamo guadagnato. Non solo i soldi, anche questa famiglia, che è una famiglia solida, che si vuole bene». Per questo, dice Monica, non riesce a capire quello che sta succedendo, «questo accanimento contro una persona che ha sempre fatto tutto con la sua capacità e intelligenza. Noi non conosciamo politici, non conosciamo giornalisti, perchè abbiamo sempre fatto la nostra vita».
Fino a quando una mattina… ?
A Londra era l’alba, erano le 5 del mattino. Noi eravamo nei Caraibi, ci eravamo presi 5 giorni di vacanza, io e lui, finalmente da soli. Quando mia figlia Chiara m’ha chiamato erano le 7. Mi dice, guarda sono arrivati stamattina i poliziotti per perquisire la casa, stavano sfondando la porta, ci siamo svegliati per quello. «Ma cosa volevano?», le chiedo. E lei, sono entrati, sono andati nella camera di Carlo a frugargli sotto il letto. Carlo ha 12 anni. Lui s’è svegliato e non ha capito chi fossero. S’è preso una paura bestiale. Sono andati su dai nonni, hanno aperto tutti gli armadi, portato via i computer. Hanno detto solo che cercavano Silvio Scaglia. Poi ci chiama Chiara Sfondrini, la segretaria: guarda, dice a mio marito, tutti i giornali mettono in prima pagna che tu sei ricercato per frode fiscale. Era martedì. Devo rientrare in Italia, fa lui. Vado e chiarisco. Non c’era posto, e allora abbiamo fatto i salti mortali per affittare un volo privato. Arrivato a Ciampino, viene prelevato, gli prendono le impronte digitali e tutte ‘ste cose. Sembrava uno stato di guerra. Silvio non è stato sentito per 5 giorni. Poi è venuto il magistrato e gli ha fatto solo l’interrogatorio di convalida. Lui ancora adesso non è riuscito a spiegarsi. Fra gli arrestati non c’è stato nessuno che ha detto di conoscerlo. Ho visto che c’è uno solo che dice, chi, quello con la faccia tonda? (Ma mio marito non ha la faccia tonda, non è mica grasso… ). Ah, questo l’ho visto una volta. E i giudici tutti contenti: sì, dove l’ha incontrato? No. L’ho visto in tv. L’impressione è che questi sono andati con le reti a strascico e se c’è rimasto dentro anche un innocente non possono far saltare il banco. Ci hanno setacciato tutto, sanno persino quante calze ho nel cassetto. A questo punto, dovrebbero avere l’onestà di ammettere che Silvio non sapeva.
Lei quando l’ha visto la prima volta?
Dopo 3 settimane. Entri in un mondo kafkiano. Vado a Rebibbia: signora, deve levare tutto. Ma io vado a trovare mio marito. Non importa, può avere merce di scambio. Avevo in tasca un bigliettino di mio figlio: «Ciao papà, ci manchi. Ti voglio bene». Non me l’hanno fatto portare. Mi ricordo una guardia che mi aggrediva, mi diceva metti la mano qui, e poi mi urlava, vedi che non va? Leggi!! Non vedi che c’è scritto togli la mano? Vabbé, io è la prima volta che entro qui dentro. Eh cerca di svegliarti, mi faceva quello. Mi ricordo il freddo, questi finestrini in alto, delle grandi sale. Un giorno Silvio mi dà il sacco della roba da lavare e io ci prendo un golf e me lo metto e una guardia mi salta addosso: ma che fa?. Invece, dei detenuti Silvio mi ha parlato sempre bene. Mi diceva che quelli più intelligenti erano quelli che facevano le rapine perché avevano la predisposizione a pianificare. Uno gli ha regalato le ciabatte per la doccia. Era quello che aveva fatto il colpo da Bulgari sfondando la vetrina col bulldozer.
La lettera a Napolitano?
È un’idea mia. Non ho mai letto Kafka. Ho cominciato adesso e ho preso Il processo, ma non riesco ad andare avanti. La cosa che mi angoscia di più è questa impossibilità di far sentire la tua voce, questo senso di impotenza. E non riguarda solo Silvio, per carità. Per questo ho scritto al Presidente, perché ho pensato che lui almeno mi avrebbe ascoltato. La risposta è stata un po’ formale, ma mi hanno spiegato che di più non poteva fare.
Il giorno più assurdo di questa vicenda?
Quando Legambiente organizzò una giornata verde a Rebibbia, un pomeriggio d’aria, e io feci tutte le domande per incontrare Silvio e partii da Londra e poi quando arrivai lì con il mio codice mi dissero che non potevo entrare, e il pm diceva che era una decisione del direttore e il direttore diceva che era della procura e io vedevo tutta la gente entrare e solo io no. Allora, ho chiesto: non posso vederlo in cella? Mi hanno detto che non c’era abbastanza personale.
E il momento più brutto?
Il primo, quando ho visto Silvio salire sull’aereo per tornare in Italia che mi faceva ciao. Mi sono sentita male, mi ha sostenuto un amico. Ma se le chiedi cos’è successo, la verità è che capita la vita quando gira così, dalla parte dell’inferno, dentro i giorni tutti uguali. «Io sono andata avanti come un caterpillar. Non ho mai versato una lacrima. L’incubo è rimasto, dice, non ha mai smesso di respirare. E questa storia alla fine – lei dice che sente questo – «finirà nel dimenticatoio, diluita nel tempo, dimenticata». Proprio come un incubo che in realtà non finisce mai.
Panorama: “Frodi carosello? No, processo carosello”
Terza puntata dell’inchiesta del settimanale, oggi in edicola, sulle “anomalie del “caso Scaglia”: dall’errore che ha costretto il Tribunale a rimandare la prima udienza, ai verbali degli indagati “esterni” a Fastweb: nessuno conosceva o ha mai parlato con il fondatore della società
È ancora per la firma del vicedirettore Maurizio Tortorella che il settimanale Panorama, oggi in edicola, giunge alla terza puntata di un’inchiesta giudiziaria definita anomala, ovvero il “caso Scaglia”. “Doveva essere un processo contro le ‘frodi carosello’. Ora è il processo che diventa un carosello”.
Il motivo è presto detto – secondo Tortorella – e rimanda all’“errore” commesso dal Tribunale di Roma per il quale il fascicolo processuale è stato inizialmente attribuito alla Quarta sezione penale, salvo poi dover essere “spostato” alla Prima. Ragione per cui il dibattimento non inizierà il 2 novembre (come previsto all’inizio) ma slitterà, presumibilmente al 23. Spiega Tortorella: “Sta di fatto che adesso è tutto da rifare. E subito nascono i problemi: perché la Prima sezione da due anni è letteralmente oberata dal megaprocesso per il crac della Cirio e oramai ha già stabilito un fitto calendario di udienze da qui fino al 23 dicembre. E perché molti degli imputati del caso Fastweb sono agli arresti, e adesso nessuno può decidere sulle loro richieste di essere rimessi in libertà”.
Le anomalie, del resto, non finiscono qui. In particolare quelle su Silvio Scaglia, definito dal settimanale “l’imputato simbolo del processo”. Si legge infatti: “dopo tre mesi trascorsi nel carcere di Rebibbia, dalla metà di maggio l’ex presidente della Fastweb è recluso nella sua casa di Antagnod, un paesino della Valle d’Aosta”. È vero che nelle scorse settimane ha ottenuto il permesso di poter fare qualche giro in bicicletta e parlare al telefono con due top manager, ma – insiste il settimanale – “organizzare la difesa in queste condizioni non è agevole”.
Tortorella ricorda che l’ex presidente di Fastweb “nega di avere mai saputo nulla della presunta frode carosello delle ‘phuncards’, le schede telefoniche prepagate, che secondo l’accusa la sua Fastweb e la Telecom Sparkle avrebbero organizzato nel 2003” sottolineando un punto decisivo che emerge dai verbali dell’inchiesta “La difesa – spiega il giornale – ha facile gioco a buttare sul tavolo altri verbali d’interrogatorio, in grado di scagionare l’imputato. Perché gli inquirenti, a molti testimoni e agli indagati ‘esterni’ alla Fastweb, hanno chiesto quale fosse il ruolo di Scaglia nei presunti illeciti e se fosse a conoscenza del business delle carte prepagate, poi finito sotto inchiesta. La risposta, però, è sempre negativa. Carlo Focarelli, il consulente considerato la mente dell’operazione phuncard, dichiara per esempio: «Scaglia non l’ho mai incontrato in vita mia». Lo stesso fanno gli imprenditori delle aziende accusate di avere agevolato la frode. Antonio Ferreri, ex amministratore nelle due società Webwizard e Cmc, fornitrici di servizi telefonici alla Fastweb, risponde: «Non l’ho mai visto, mai sentito neanche al telefono»”.
Monica Aschei Scaglia: “Ascoltano gli assassini, lui no come l’avessero cancellato dal mondo; accanimento incomprensibile”
Pubblichiamo le anticipazioni riportate dall’ANSA di alcuni brani dell’intervista rilasciata dalla moglie di Silvio Scaglia al settimanale Io Donna in edicola da sabato
ANSA ROMA, 28 OTT – «Se sei un assassino ti ascoltano, ti vengono a cercare, e puoi dire quello che vuoi, alle televisioni, agli altri a tutti. Per noi non è stato così invece e io mi sento come se mio marito l’avessero tolto dal mondo, gli avessero impedito di difendersi, di raccontare la sua storia».
Lo dice in un’intervista a Io Donna Monica Aschei, moglie di Silvio Scaglia, il fondatore di Fastweb coinvolto nell’inchiesta sul maxi-riciclaggio.
Scaglia, dopo 3 mesi di carcere a Rebibbia, è agli arresti domiciliari in Val d’Ayas. «Uno viene arrestato – afferma la Aschei – e sparisce dalla società civile. È questo il vero problema, che nessuno ci ascolta, e l’assenza di risposte è un incubo. Cerchi qualcuno che abbia voglia di sentire la tua voce, ma se tu rispetti le regole, non esiste nessuno, semplicemente perché sei cancellato. Se sei un assassino, invece, puoi dire quello che vuoi». «Noi – aggiunge – tutto quello che abbiamo ce lo siamo guadagnato. Non solo i soldi, anche questa famiglia, che è una famiglia solida, che si vuole bene. Non riesco a capire questo accanimento contro una persona che ha sempre fatto tutto con la sua capacità e la sua intelligenza. Noi non conosciamo politici, non conosciamo giornalisti, perché abbiamo sempre fatto la nostra vita».
La moglie di Scaglia («sta leggendo Il processo di Kafka») ricorda il giorno dell’arresto del marito dopo che era immediatamente rientrato dai Caraibi per chiarire la sua posizione: «il magistrato l’ha sentito dopo cinque giorni e solo per l’interrogatorio di convalida. Ancora adesso non è riuscito a spiegarsi. Fra gli arrestati non c’è stato nessuno che ha detto di conoscerlo». «Ho potuto incontrarlo in carcere solo dopo tre settimane», ricorda.
«Avevo con me un biglietto di mio figlio che diceva “Ciao papà, ci manchi. Ti voglio bene”. Non me l’hanno fatto consegnare».